Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3762 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3762 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15556/2020 R.G. proposto da : BPER BANCA RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 484/2020 depositata il .
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
– Il ricorso riguarda la sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la decisione del Tribunale di Modena che aveva accolto la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della Banca Popolare dell’Emilia Romagna s.p.a. (BPER) dichiarando la risoluzione dei contratti quadro del 2005 e del 2007 e dei contratti di acquisto dei bond Lehman 2007, delle obbligazioni Lheman 2008, condannando la banca alla restituzione di un importo complessivo di 80.000 €; accolto, altresì, parzialmente la domanda riconvenzionale subordinata della banca per la restituzione dei titoli, dichiarandola surrogata in ogni diritto già spettante all’attore in conseguenza della titolarità degli strumenti finanziari.
– La Corte territoriale nel respingere i motivi d’Appello della banca ha così in sintesi stabilito:
circa il primo motivo – con cui l’appellante denunciava l’erroneità della decisione del Tribunale « per aver ritenuto inadempiuti gli oneri informativi e l’obbligo di acquisire il consenso preventivo del cliente per le operazioni da eseguirsi in contropartita diretta e/o fuori dai mercati regolamentati » – che, correttamente, il Tribunale aveva ritenuto sussistente la prova documentale del fatto che la banca avesse fornito al Flori le necessarie informazioni sulle caratteristiche dei titoli e sulle modalità del loro acquisto solo con riguardo all’ordine del 22.2.2005, infatti anche gli ordini del 5 e del 23 ottobre 2007 riportavano a firma del Flori solo la dicitura « il presente ordine viene da noi impartito intendendo dar corso all’operazione pur essendo da voi stati informati, in base alla normativa vigente, della non adeguatezza della stessa per frequenza in rapporto al numero delle operazioni annuali »; perciò il Tribunale – sulla base della lettura dei documenti – aveva
correttamente evidenziato « l’assenza di una prova idonea a dimostrare che la banca avesse fornito al Flori le necessarie informazioni sulle caratteristiche dei titoli e sulla modalità del loro acquisto »; tanto più che il contratto-quadro (sottoscritto solo nel dicembre 2007) non esimeva l’intermediario dal fornire una completa informazione sul titolo oggetto di compravendita e sul rischio connesso al tipo di operazioni prescelta;
quanto al secondo motivo d’appello con cui la banca censurava la sentenza di primo grado per aver dichiarato la risoluzione del contratto d’acquisto del 27.5.2008 di obbligazioni Lehman, e alla conseguente condanna della banca alla restituzione della somma di euro 2000,00 – ritenuta ingiusta in quanto trattavasi di ordine di vendita e non di acquisto – ha ritenuto che, indipendentemente dal fatto che si trattasse di un ordine di vendita (come in effetti era) o di acquisto di titoli, restava ferma la dichiarata risoluzione con efficacia retroattiva;
rispetto alla censurata omessa restituzione delle cedole e dei riparti ricevuti dal Flori dalla procedura fallimentare della banca americana, ha condiviso quanto statuito dal Tribunale, sia a proposito del fatto che non risultavano « specificamente quantizzati gli eventuali dividendi incassati dal diritto al soddisfo », sia a proposito del fatto che non vi era prova in atti della malafede dell’investitore, che non aveva « nessun obbligo di restituzione delle cedole e dei riparti della procedura fallimentare, trattandosi di frutti civili percepibili sin dalla loro maturazione proprio in virtù della buona fede dell’investitore ».
3.Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ha presentato ricorso affidandolo a cinque motivi. Ha resistito il sig. COGNOME La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione all’arti. 61
Regolamento Consob 11522/1998, con riferimento agli ordini di acquisto di obbligazioni Lehman del 5.10.2007 e del 23.10.2007. Il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui la Corte di merito avrebbe confermato la necessità del consenso preventivo del cliente all’esecuzione di operazioni fuori mercato per gli acquisti disposti nelle predette date, in quanto i relativi ordini erano stati impartiti ed eseguiti sotto il vigore dell’indicato Regolamento che non conteneva alcun obbligo a carico dell’intermediario di acquisire detto consenso preventivo, bensì solo quello di informare successivamente l’investitore – tramite l’invio di apposita nota scritta al domicilio di quest’ultimo – circa il mercato regolamentato in cui l’operazione era stata eseguita ovvero che la stessa era stata eseguita fuori mercato regolamentato, informazioni queste che la banca aveva assolto pienamente con riguardo a tutte le indicazioni previste nell’art. 61 comma 1 del predetto regolamento Consob, come risultava dal fatto che ne avesse dato atto lo stesso sig. COGNOME nel proprio atto introduttivo, provvedendo anche alla produzione in giudizio delle note in parola.
1.1. – Il motivo è inammissibile.
La ratio decidendi della pronuncia in punto risoluzione dei contratti relativi agli ordini del 2007, riguarda chiaramente « il grave inadempimento degli obblighi informativi, ad esclusione dell’ordine di acquisto del 22.5.2005 », e non l’acquisizione di un preventivo consenso all’esecuzione di operazioni fuori da un mercato regolamentato. Pertanto la dissertazione circa il fatto che non sussistesse alcun obbligo a carico dell’intermediario di acquisire detto consenso preventivo, bensì solo quello di informare successivamente l’investitore, è inconferente, tanto più non contestando la Banca di essere stata nella specie tenuta a fornire quelle specifiche informazioni sugli strumenti finanziari oggetto dei due ordini; obbligo che risultava aver assolto solo con riguardo all’ordine del 2005, essendosi limitata quanto agli altri – come
sottolinea la Corte d’Appello confermando sul punto la decisione di primo grado -a fornire un’informazione sull’adeguatezza dell’operazione « per frequenza in rapporto al numero di operazioni annuali ».
Sul punto, del resto, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che l’informativa riguardo allo strumento finanziario ha una sua precisa autonomia e deve mantenersi distinta dalle valutazioni che l’intermediario è tenuto a compiere in punto di « appropriatezza » e « adeguatezza »: la prima deve porre l’investitore nelle condizioni di apprezzare i rischi che l’operazione presenta in sé, avendo riguardo, tra l’altro, alle caratteristiche dello strumento finanziario da negoziare; le seconde si basano sulla relazione tra la tipologia dell’investimento e il flusso informativo proveniente dal cliente (livello di esperienza e di conoscenza dello stesso, gli obiettivi di investimento e la capacità finanziaria). Sicché la segnalazione dell’intermediario circa la generica non congruità dell’operazione rispetto al profilo dell’investitore, che non dia conto delle specifiche caratteristiche dello strumento finanziario e della sua intrinseca rischiosità -elementi, questi ultimi, indispensabili per consentire una consapevole scelta di investimento -non esclude affatto l’inadempimento (v. di recente Cass. n. 8458/2024). Infatti in materia di servizi di investimento mobiliare, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari, con particolare riferimento alla loro natura ed ai caratteri propri dell’emittente, ricorrendo un inadempimento sanzionabile ogni qualvolta detti obblighi informativi non siano integrati e restando irrilevante – rispetto all’adempimento di tale obbligo – ogni valutazione di adeguatezza dell’investimento (Cass. n. 15936/2018), non essendone l’intermediario esonerato neppure in presenza di un investitore aduso ad operazioni finanziarie a rischio elevato, poiché permane in ogni caso il suo obbligo di offrire la
piena informazione circa la natura, il rendimento ed ogni altra caratteristica del titolo (Cass, n. 18153/2020), seguitando l’obbligo informativo in questione a rispondere all’obbiettivo del riequilibrio dell’asimmetria del patrimonio conoscitivo -informativo delle parti in favore dell’investitore medesimo, al fine di consentirgli una scelta realmente consapevole (Cass. n. 35789 del 2022).
– Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 46 Regolamento Consob n.16190/2007 nonché omesso esame circa uno o più fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. con riferimento agli ordini di acquisto di obbligazioni Lehman del 9.1.2008, 20.3.2008, 9.9.2008. Premesso che detti ordini risultano impartiti ed eseguiti sotto il vigore del regolamento predetto, che prevedeva l’obbligo a carico dell’intermediario di acquisire il consenso preventivo solo per l’esecuzione di operazioni fuori mercato regolamentato e con autorizzazione singola o generale, deduce la ricorrente di aver dato prova documentale della circostanza che le operazioni di acquisto nelle date predette erano state eseguite sul Mercato Regolamentato di Borsa Italiana. Pertanto la Corte di merito avrebbe errato nel ritenere fosse necessario nella fattispecie un consenso del cliente preventivo alle operazioni di acquisto, ed avrebbe, comunque, omesso di considerare il contratto-quadro di negoziazione sottoscritto nel 4.12.2007 dal sig. COGNOME che prevedeva espressamente il consenso preventivo « alla possibilità, prevista nella execution policy, che i nostri ordini possano essere eseguiti al di fuori di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione ».
– Il terzo motivo denuncia violazione falsa applicazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione regolamento Consob 16190/2007 ed art. 115 c.p.c. nonché omesso esame circa uno o più fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione
tra le parti ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. e vizio di travisamento delle prove in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 e n. 5 c.p.c., con riferimento agli ordini di acquisto di obbligazioni Lehman del 5.10.2007, 23.10.2007, 9.1.2008, 20.3.2008, 9.9.2008. Deduce la ricorrente che in relazione a detti ordini di acquisto aveva dato prova – sia documentalmente che attraverso la teste, sig. COGNOME, dipendente del banca – di aver adempiuto correttamente agli obblighi informativi a proprio carico, quindi, la Corte di merito avrebbe confermato erroneamente la sentenza di primo grado che l’aveva ritenuta inadempiente a detti obblighi informativi, peraltro con una motivazione carente, che si sarebbe soffermata solo sugli ordini del 2007, nulla dicendo con riguardo a quelli del 2008, né sotto il profilo della necessita del consenso preventivo all’esecuzione di operazioni fuori dal mercato regolamentato né sotto quello della carenza di informazione sulle caratteristiche dei titoli.
– I due motivi possono essere trattati insieme in quanto evidentemente connessi (se non sovrapposti) e afflitti dalle medesime ragioni di inammissibilità.
Invero entrambi prospettano genericamente e cumulativamente vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando ), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per Cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure (cfr., e plurimis , anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878, 27505 e 4528 del 2023; Cass. nn. 35832 e 6866 del 2022; Cass. n. 33348 del 2018; Cass. nn. 19761, 19040, 13336 e 6690 del 2016; Cass. n. 5964 del 2015; Cass. nn. 26018 e 22404 del 2014). In altri termini, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di
impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali -che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma – e del vizio di motivazione- che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. n. 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878 e 27505 del 2023; Cass. nn. 11222 e 2954 del 2018). È sicuramente vero, peraltro, che, l’inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei, può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (cfr., sostanzialmente, in tal senso, Cass. n. 39169 del 2021. Si vedano pure Cass., SU, n. 9100 del 2015; Cass. n. 7009 del 2017; Cass. n. 26790 del 2018). Tanto, però, non si rinviene nel motivo di ricorso in esame, il quale, per come concretamente argomentato, non consente di individuare, con chiarezza, le doglianze riconducibili agli invocati vizi, rispettivamente, ex art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., in modo tale da consentirne un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare quelle teoricamente proponibili, al fine di ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse.
Inoltre la doglianza che si riferisce all’art. 360 n. 5 c.p.c. – che non è neppure illustrata doverosamente con riguardo al fatto « storico » principale o secondario omesso, alla sua decisività e al fatto che fosse stato discusso dalle parti nel grado sotto il profilo
rilevante – è inammissibile a fronte di decisione c.d. doppia -conforme, ex art. 360 comma 4 c.p.c.
Infine anche in questo caso la ricorrente ignora la ratio decidendi che emerge dalla pur sintetica sentenza con riguardo a tutti gli ordini oggetto del motivo (essendo anche quelli del 2008 contemplati a pag. 3 ove la Corte di merito riassume il motivo d’appello specifico); ratio che attiene sempre alla violazione degli obblighi informativi specifici dovuti dalla banca con riguardo alle operazioni contestate e non al consenso preventivo richiesto per agire al fuori di mercati regolamentati, stante che la banca nella specie agiva in contropartita diretta avendo venduto dei titoli obbligazionari che già si trovavano nel propri portafoglio titoli (come si ricava dallo stesso ricorso, ed in particolare dall’illustrazione della testimonianza resa dalla dipendente che si occupò dell’operazione).
Si può aggiungere che con il terzo mezzo la ricorrente si duole di una « motivazione carente » così prospettando un vizio inammissibile non solo ove non declinato nello specifico paradigma dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (che s’é già detto nella caso di specie è del tutto carente di illustrazione specifica ex art. 366 comma 1 n 4 c.p.c.) ma anche ove non denunciato in termini di violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, alla « motivazione apparente », al « contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili » e alla « motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile », esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di « sufficienza » della motivazione (Cass. S.U. n.8053/2014).
Del pari, quanto ad entrambi i mezzi – che sollecitano un controllo di legittimità ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c. in via totalmente generica e con riguardo alla valutazione delle prove compiuta dal giudice – va ricordato che l’apprezzamento delle
prove è attività riservata al giudice di merito, e che detto apprezzamento, salvo integri un vizio di legittimità laddove il giudice attribuisca ad una prova un valore diverso da quello che ha stabilito il legislatore (116 c.p.c.), ovvero abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (115 c.p.c.) – non può essere sindacato in questa sede in termini di malgoverno del materiale probatorio (v. per tutte Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867).
Sicché la censura in questione, sollecitando un diverso apprezzamento dei fatti storici e delle prove, non può trovare ingresso in questa sede (cfr. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476).
4. – Con il quarto motivo la ricorrente denuncia omesso esame circa uno o più fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. con riferimento al presunto ordine di acquisto di obbligazioni Lehman del 27.5.2008, e censura la sentenza gravata perché, pur avendo riformato quella di primo grado nella parte in cui aveva erroneamente ritenuto che l’ordine del 27 maggio 2008 fosse un ordine di acquisto mentre si trattava di un ordine di vendita, avrebbe, poi, concluso che l’errore non rilevava perché l’effetto risolutorio comportava che il Flori non dovrà che restituire che il ricavato della vendita accreditatogli dall’appellante aumentata della somma necessaria ad integrare il valore nominale del titolo al momento dell’acquisto; la Corte d’Appello avrebbe dovuto riformare la sentenza di primo grado nella parte in cui è statuita la condanna di BPER alla restituzione della somma di 2.000 € oggetto di condanna di primo grado.
4.1. – Il motivo è inammissibile perché invoca la cassazione della sentenza gravata per un vizio motivazionale inconferente rispetto all’errore decisorio lamentato, avendo la Corte sottolineato
che pur sempre di risoluzione si trattava, con l’effetto di reciproci obblighi di restituzione (corrispettivo della vendita e valore nominale dei titoli non più nella disponibilità della banca).
– Con il quinto motivo che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione all’articolo 2036 c.c. con riferimento alla mancata condanna alla restituzione delle cedole e dei riparti della procedura fallimentare della banca americana; la ricorrente censura la sentenza in quanto la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato la disciplina dell’indebito nel caso di specie, trattandosi di un caso di risoluzione contrattuale (in cui la banca aveva dato la prova che il sig. COGNOME aveva incassato la somma di 2.082,77 € per cedole e percepito riparti per 19.481,24 €); perciò la Corte avrebbe dovuto disporre, quale effetto della declaratoria di risoluzione del contratto la restituzione, oltre che dei titoli, delle cedole e dei riparti, a prescindere dalla buona fede o meno del signor COGNOME che, semmai, avrebbe potuto incidere sulla data di decorrenza degli interessi sulla somma capitale oggetto delle cedole e dei riparti.
5.1. – L’esame del motivo merita essere preceduto da una ricognizione degli approdi cui è pervenuta questa Corte in materia, in particolare con la sentenza n. 423/2025 emessa in un caso analogo a seguito di ordinanza interlocutoria n. 477 dell’8 gennaio 2024 sulla seguente questione di diritto: « Se, in caso di caducazione contrattuale, trovi limitazione l’applicazione dell’istituto della ripetizione dell’indebito, di cui agli artt. 2033 ss. c.c., quanto alla rilevanza dello stato di buona o mala fede rispetto a parti contraenti che, in forza del contratto, avevano entrambe pieno diritto alla prestazione ricevuta, onde debba escludersi la rilevanza dello stato psicologico dell’ accipiens , ai fini della determinazione dell’obbligo restitutorio, che invece – secondo la ratio del rimedio negoziale (nella specie, risoluzione) – dovrebbe
decorrere ragionevolmente dall’avvenuta esecuzione della prestazione ».
In proposito la Corte – dopo aver ribadito il consolidato principio per cui le singole operazioni di investimento in valori mobiliari, in quanto contratti autonomi benché esecutive del contratto-quadro originariamente stipulato dall’investitore con l’intermediario, possono essere oggetto di risoluzione, in caso di inosservanza di doveri informativi nascenti dopo la conclusione del contratto quadro, indipendentemente dalla risoluzione di questo ultimo (v. e multis Cass. n. 10646/2023; Cass. n. 89972021; in tal senso, pure: Cass. n. 24648/2023; Cass. n. 3261/2018; Cass. n. 20617/2017 ; Cass. n. 16861/2017; Cass. n. 12937/2017; Cass. n. 16820/2016) – ha affermato i principi che seguono con specifico riguardo ai reciproci obblighi restitutori in ipotesi di pagamento ob causam finitam, quale si ravvisa ove il contratto vada dichiarato risolto anziché nullo (ipotesi di pagamento sine causa ), dunque a proposito dell’applicazione anche nel primo caso dei principi che regolano la ripetizione di indebito.
«A ccertata la mancanza di una causa adquirendi in ragione della risoluzione del contratto per inadempimento, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo ».
In proposito ha condivisibilmente osservato che la disciplina dell’indebito è fatta oggetto di richiamo da due norme soltanto: l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, e l’art. 1463 c.c., in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta: con la prima disposizione il legislatore ha inteso chiarire che l’imprescrittibilità dell’azione di nullità non pregiudica il consolidamento dell’attribuzione patrimoniale programmata dal contratto laddove l’azione di ripetizione non è più esperibile siccome prescritta; con la seconda lo stesso legislatore ha fatto precisa menzione degli effetti
restitutori insorgenti dalla risoluzione, per come regolati dalle « norme sulla ripetizione dell’indebito ». La presenza di questi due soli richiami in materia contrattuale all’istituto della ripetizione dell’indebito -come rilevato anche in dottrina -rivela una « disarmonia del dato normativo nel richiamo alla ripetizione dell’indebito, limitato senza una palese ragione alle due ipotesi dette », per cui la considerazione del mero tenore letterale delle prescrizioni sugli effetti delle diverse forme di caducazione del contratto « non fornisce un affidante ancoraggio all’interprete, manifestando piuttosto un certo difetto di coordinamento nella trama del tessuto normativo »; non sembrando, in particolare, decisivo che l’art. 1458 c.c., nel regolare gli effetti della risoluzione per inadempimento, ometta di richiamare – a differenza di quanto fa l’art. 1463 c.c. per la risoluzione per impossibilità sopravvenuta -la disciplina sulla ripetizione dell’indebito, poiché « non avrebbe senso, sul piano logico, immaginare che le due forme di risoluzione siano diversamente governate quanto agli obblighi restitutori: tanto più che l’art. 1458 c.c. non prende specificamente in esame tali obblighi, pur implicitamente configurandoli allorquando prevede che la risoluzione ha, per regola, effetto retroattivo tra le parti, effetto da cui discende il venir meno del titolo dell’attribuzione patrimoniale e, quindi, il delinearsi del ‘pagamento non dovuto’ di cui all’art. 2033 c.c. ». Sicché la valorizzazione della ratio che sorregge gli obblighi restitutori, induce a ritenere coerente l’applicazione generale della disciplina dettata dalla norma predetta con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui, qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi in ragione della dichiarazione di nullità, dell’annullamento, della risoluzione o della rescissione di un contratto o del venire comunque meno del vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di
indebito oggettivo (Cass. 15 gennaio 2018, n. 715; Cass. 6 giugno 2017, n. 14013; Cass. 7 febbraio 2011, n. 2956; Cass. 15 aprile 2010, n. 9052; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27334), ciò in continuità e conformità a quanto è stato precisato dalle Sezioni Unite, secondo cui pur essendo l’art. 2033 c.c. formulato con riferimento all’ipotesi del pagamento ab origine indebito, è applicabile per analogia anche alle ipotesi di indebito oggettivo sopravvenuto per essere venuta meno, in dipendenza di qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento, la causa debendi (v. Cass. Sez. U. 9 marzo 2009, n. 5624).
b) « In caso di risoluzione del contratto per inadempimento, la regola posta dall’art. 2033 c.c. in tema di ripetizione dell’indebito quanto alla spettanza di frutti e interessi non riguarda i frutti e gli interessi previsti dal contratto, che, ove percepiti, costituiscono attribuzioni patrimoniali integralmente passibili di restituzione in ragione della retroattività della risoluzione prevista dall’art. 1458 c.c., ma i frutti e gli interessi che maturano per legge in relazione al bene o alla somma di denaro oggetto di ripetizione ».
Considerata la peculiarità della vicenda caducativa del contratto – che incide ex tunc sull’esecuzione di prestazioni sinallagmatiche (e non sull’esecuzione di prestazioni isolate ripetibili) in rapporto con alla regolamentazione del diritto ai frutti e agli interessi che, secondo l’art. 2033 c.c., chi ha eseguito il pagamento non dovuto ha diritto di ripetere (dal giorno del pagamento se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure dal giorno della domanda se quegli era in buona fede) – la sentenza in argomento reputa che, tra le diverse tesi espressesi nella giurisprudenza di legittimità a proposito dell’interazione tra effetti retroattivi della risoluzione e ripetizione dell’indebito, debba preferirsi quella che valorizza, a fronte del contratto risolto, l’applicazione dei principi sulla ripetizione dell’indebito per qualificare giuridicamente la pretesa volta a ottenere la restituzione del pagamento divenuto privo di causa; con
la conseguenza che il debito dell’ accipiens produce interessi solo a seguito della proposizione della domanda, a meno che detto soggetto sia in malafede.
Tuttavia ha opportunamente chiarito (donde il principio sopra espresso) che, una cosa sono « frutti » e «interessi» che costituiscono le «prestazioni» del contratto e che, come tali, sono oggetto dell’obbligo restitutorio (si pensi al mutuo oneroso), altra cosa sono i « frutti » e gli « interessi » che maturano per legge in relazione al bene che è oggetto della prestazione restitutoria, che sono quelli oggetto dell’obbligazione (di fonte legale) accessoria di cui alla disciplina dell’art. 2033 c.c. predetta, che valorizza la buona fede dell’ accipiens quanto alla sorte dei frutti naturali e civili che la res « prestata » indebitamente (e, quindi, da restituire) ha prodotto, e degli interessi (di natura compensativa) che maturano sulla somma indebitamente riscossa.
Perciò il requisito della buona o mala fede dell’ accipiens rileva per l’obbligazione legale di pagamento di frutti e interessi che maturano in relazione alla specifica res da restituire, mentre non incide sulle obbligazioni contrattuali quand’anche queste siano « frutti » o « interessi », perché questi, in quanto percepiti in forza del contratto, sono soggetti comunque all’obbligazione restitutoria ove il contratto venga meno con effetto ex tunc .
c) Quanto all’incidenza dello stato soggettivo di buona o mala fede dell’ accipiens nella sentenza in parola è affermato che: « In caso di risoluzione del contratto per inadempimento, ai fini della regolazione della spettanza dei frutti e degli interessi su quanto deve essere oggetto di ripetizione, la buona fede di cui all’art. 2033 c.c. è da intendersi come buona fede soggettiva e si identifica nell’ignoranza, in capo all’ accipiens , dell’obbligo restitutorio ».
Invero – alla luce di una ricognizione degli aspetti della ripetizione dell’indebito che il codice civile regola valorizzando lo stato di buona o malafede dell’ accipiens (art. 2033, 2037, 2038
c.c.) in senso « soggettivo », quale ignoranza di quest’ultimo dell’effettiva situazione giuridica al momento della ricezione del « pagamento », da presumersi per principio generale ex art. 1147 comma 3 c.c., salvo prova contraria – la Corte rileva che nel caso di risoluzione ex art. 1458 c.c. è da escludersi che il diritto dell’ accipiens di trattenere o meno i frutti e gli interessi maturati sulla somma prima della domanda di ripetizione in ragione di uno status di buona o mala fede possa dipendere dall’imputabilità dell’inadempimento: « cioè da una condotta colpevole, che potrebbe, al limite, assumere rilievo ove si trattasse di apprezzare la buona fede in senso non già soggettivo, ma oggettiv o» poiché, diversamente si finirebbe « per riportare sul terreno delle restituzioni problemi che attengono alla responsabilità per inadempimento, valorizzando ingiustificatamente la connotazione circa l’inadempimento di un’obbligazione – quella insorta dal contratto – in seno a un giudizio che interessa un’obbligazione diversa, quella restitutoria ». Per cui, conclude, dalla qualificazione della buona fede in termini soggettivi di « ignoranza dell’effettiva situazione giuridica », fatta propria in tema di indebito dalla giurisprudenza di questa Corte, detta buona fede, nel caso di risoluzione del contratto « deve allora consistere nell’ignoranza dell’obbligo di restituire quanto viene pagato » poiché lo stato soggettivo dell’ accipiens è connotato, in questo come negli altri casi di caducazione del negoz io, « dall’esistenza di un contratto che impegna il solvens verso l’ accipiens» il quale rende « dovuta » la prestazione nel momento in cui è resa; onde quello stato soggettivo viene meno dopo la domanda del solvens , essendo questo l’atto tipico che fa venir meno – secondo il dettato normativo – l’ignoranza dell’obbligo restitutorio (domanda da intendersi riferita al primo atto di messa in mora per Sez. Un. n. 15895/2019).
d) Infine ha precisato che: « La disciplina della ripetizione dell’indebito non può implicare ingiustificati arricchimenti di una parte ai danni dell’altra, onde è escluso che, a fronte dello scambio di un bene fruttifero con una somma di denaro, frutti e interessi possano avere diversa decorrenza: in particolare, risolto il contratto per inadempimento, in presenza di un obbligo restitutorio avente ad oggetto i frutti maturati in forza della previsione contrattuale, gli interessi sulla somma di denaro corrisposta dal percettore dei detti frutti, che se ne vede privato, decorrono a far data dal versamento ».
Invero potendo accadere che l’osservanza della regola per cui sono dovuti frutti e interessi che costituiscano prestazioni contrattuali, generi uno squilibrio in ragione della concorrente applicazione della disciplina legale dell’indebito: una parte contrattuale potrebbe essere tenuta a restituire l’intero ammontare del rendimento ritratto dal bene ricevuto, senza essere simmetricamente remunerata con riguardo alla somma pagata per procurarselo, e questo perché gli interessi dovuti sulla somma indebitamente versata sono altra cosa rispetto a quelli riscossi in forza del contratto che vanno integralmente restituiti, e spettano ex art. 2033 c.c. solo dopo la « domanda », salvo che l’ accipiens non sia in mala fede; condizione, questa che, come si è visto, è normalmente assente nel caso di risoluzione, dal momento che, a tacere della presunzione di buona fede, chi riceve il pagamento lo riceve in esecuzione di un contratto che in quel momento è pienamente efficace, e di regola ignora che dovrà restituire quanto riscosso.
Pertanto detto limite dell’art. 2033 c.c., che è norma modellata sull’indebito nascente da prestazioni isolate e non sull’indebito insorgente da prestazioni che si inscrivono in un rapporto contrattuale, necessita, sul piano dell’applicazione, del correttivo di cui al principio di diritto sopra riportato, volto ad evitare che una
parte contrattuale finisca per conseguire un ingiustificato arricchimento, lucrando, ai danni dell’altra, un utile che non avrebbe conseguito ove il contratto avesse avuto regolare esecuzione.
Conclude la Corte di legittimità a proposito del caso dell’intermediazione finanziaria – in cui si colloca anche la vicenda qui in esame – che l’intermediario in buona fede (salvo prova contraria) può pretendere la restituzione delle cedole riscosse dall’investitore, previste contrattualmente, a far data dalla loro maturazione; ed è tenuto a pagare gli interessi sulla somma a lui versata per dar corso all’operazione finanziaria non dal momento della costituzione in mora, ma dalla data del pagamento, giacché diversamente l’intermediario si approprierebbe, sia degli interessi maturati dalla data del pagamento alla data della domanda sulla somma a lui versata, sia dei rendimenti del titolo negoziato: risultato che non può però ammettersi, perché « attraverso siffatta riallocazione dei valori economici regolati dal contratto oramai caducato, si genera un ‘sistematico’ arricchimento senza causa di una della parti in danno dell’altra ».
In conclusione e in linea di principio, la restituzione delle cedole, che sono frutti dovuti « per contratto », non è sottoposta al requisito della buona o malafede; gli interessi sulla somma versata dall’investitore per l’acquisto dei titoli devono essere corrisposti dall’intermediario insieme alla restituzione dell’importo capitale, a far data dal pagamento della somma oggetto di ripetizione.
5.2 -Venendo, dunque, al motivo di cassazione nella specie formulato, il Collegio osserva che, sebbene la decisione gravata in punto regolazione degli obblighi restitutori non faccia buon governo delle norme richiamate, laddove ha escluso che l’investitore avesse un « obbligo di restituzione delle cedole e dei riparti della procedura fallimentare, trattandosi di frutti civili percepibili sin dalla loro maturazione proprio in virtù della buona fede dell’investitore », essa
contiene anche una ratio decidendi autonoma ed idonea a sorreggere il decisum che si fonda sul fatto che, come rilevato già dal Tribunale, non risultavano « specificamente quantizzati gli eventuali dividendi incassati dal diritto al soddisfo », ovvero che non era stata offerta la prova del quantum preteso; questa ratio è ignorata dalla ricorrente che si limita ad affermare – per inciso nell’argomentare della violazione dell’art. 2036 c.c. – che « si è data prova che il sig. COGNOME ha incassato la somma di 2.082,77 € per cedole (doc. 10) ed ha, altresì, percepito e riparti della procedura fallimentare per 19.481,24 €, come da prospetto allegato come doc. A alla comparsa conclusionale di primo grado ».
Poiché la ricorrente aggredisce solo la seconda ratio – essendo, del resto, la prima frutto di una accertamento in fatto conforme al primo grado – deve darsi continuità al principio consolidato per cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi , ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile non solo che il soccombente censuri tutte le riferite rationes , ma anche che tali censure risultino tutte fondate (Cass., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12372; Cass., Sez. II, 2 maggio 2011, n. 9647; Cass., Sez. I, 11 marzo 2019, n. 6985; Cass., Sez. III, 18 aprile 2019, n. 10815).
Pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di parte controricorrente liquidate nell’importo di euro 6.200,00 cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-
quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° Sezione