Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14275 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14275 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 28/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8709 R.G. anno 2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione coatta amministrativa, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME
ricorrente principale
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrente e ricorrente incidentale nonché contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME Maurizio, rappresentati e difesi da ll’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrenti e ricorrenti incidentali nonché contro
COGNOME StefanoCOGNOME NOME COGNOME NOME, NOME
NOMECOGNOME Paolo COGNOME
intimati
avverso la sentenza n. n. 129/2021 della Corte di appello di Firenze, depositata il 25 gennaio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 aprile 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. ─ Con citazione notificata il 28 luglio 2010, RAGIONE_SOCIALE in liquidazione coatta amministrativa -d’ora in poi RAGIONE_SOCIALE ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Livorno NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME che avevano ricoperto la carica di amministratori della società, nonché NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME che ne erano stati sindaci, lamentando: nei confronti dei primi, il compimento di atti di mala gestio e l’inosservanza degli obblighi imposti agli amministratori dalla legge e dallo statuto; nei confronti dei secondi la violazione degli obblighi di controllo; ha domandato la condanna dei detti convenuti, in solido, al risarcimento dei danni sofferti dalla società e dai creditori sociali nella misura di euro 6.400.000,00, salvo altra.
I convenuti si sono costituiti e hanno resistito alla domanda attrice. Su istanza di NOME COGNOME è stata disposta la chiamata in causa, in garanzia, di UnipolSai Assicurazioni s.p.a., la quale si è costituita chiedendo il rigetto della domanda proposta nei confronti del proprio assicurato e, in subordine, il riconoscimento di un grado di responsabilità minore dello stesso.
Il Tribunale di Firenze ha respinto la domanda proposta dalla RAGIONE_SOCIALE.
2 . ─ In sede di gravame la Corte di appello di Firenze ha riformato parzialmente la decisione di primo grado riconoscendo la responsabilità degli amministratori, ma non quella dei sindaci, con riferimento a due profili.
Il primo profilo concerne le vendite poste in atto il 5 agosto 2005 e il 16 giugno 2006: vendite che avevano rispettivamente riguardato un immobile al socio RAGIONE_SOCIALE al prezzo di euro 1.300.000,00, oltre IVA, e la restante parte del patrimonio immobiliare della società per euro 4.320.000,00, oltre IVA, alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE La Corte di merito ha rilevato che RAGIONE_SOCIALE aveva acquistato una partecipazione in CCIL del valore nominale di euro 1.200.000,00 al prezzo di euro 936.443,00 e aveva quindi compensato il debito per l’acquisto dell’immobile col proprio controcredito per il recesso dalla società. Secondo la Corte distrettuale, «li amministratori, nel consentire il recesso, non potevano attribuire alle azioni un valore così sovrastimato (pari a quello nominale di euro 1.200.000,00) alle azioni di IPI, perché ciò costituiva diretta violazione di legge, visto che il valore nominale è un canone valutativo non previsto art. 2437 -bis c.c. Ed è senza dubbio recessivo rispetto ad altri ivi indicati (consistenza patrimoniale e prospettive reddituali)».
Il secondo profilo di responsabilità concerne il ritardo con cui è stata posta in liquidazione la società. E’ stato rilevato, in proposito, che quantomeno al 31 dicembre 2006 gli amministratori avrebbero dovuto adoperarsi per lo scioglimento della società e la sua messa in liquidazione, ciò che era accaduto soltanto nel corso del 2007: infatti, fin dal 5 ottobre 2006 gli amministratori erano consapevoli del trend negativo della società e avevano ben chiaro che il bilancio che si sarebbe chiuso alla fine dell’anno avrebbe recato, nella persistenza di gravi problemi produttivi, una perdita intollerabile per la cooperativa; ad essi è stato quindi imputato di aver procrastinato l’attività cagionando un danno commisurato alla perdita di esercizio maturata
per i mesi di attività del 2007.
La Corte di appello ha così condannato gli ex amministratori della società al risarcimento del danno liquidato in euro 1.704.791,08 e ha respinto la domanda nei confronti dei sindaci.
CCIL ricorre per cassazione facendo valere due motivi. Resistono con controricorso COGNOME e COGNOME i quali hanno proposto un ricorso incidentale condizionato fondato su cinque motivi. UnipolSai ha pure notificato controricorso, svolgendo un’impugnazione incidentale condizionata su di un motivo. Tutte le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-I controricorrenti COGNOME COGNOME COGNOME hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso principale in quanto il ricorso per cassazione di RAGIONE_SOCIALE sarebbe stato proposto senza specifica autorizzazione dell’ autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione, secondo quanto prescritto dall’art. 206, comma 1, l. fall..
L’eccezione va disattesa.
In tema di poteri in materia giudiziale del commissario liquidatore nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, non si applica, neppure in via analogica, l’art. 31, secondo comma, l. fall., che impone l’autorizzazione del giudice delegato perché il curatore fallimentare possa stare in giudizio, atteso che il legislatore, mentre ha attribuito al detto commissario gli stessi poteri che competono al curatore (art. 201 l. fall.), ha regolato l’esercizio dei poteri del primo non con un rinvio generalizzato alla disciplina dell’esercizio dei poteri da parte del secondo, ma con un rinvio specifico da ritenersi perciò esaustivo (art. 206 l. fall.); ne consegue che i predetti poteri vanno integrati dall’autorizzazione dell’autorità amministrativa di vigilanza solo se si tratta di promuovere l’azione di responsabilità di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c. e di compiere gli atti di cui all’art. 35 l. fall., nonché quelli necessari per la continuazione dell’esercizio dell’impresa, e non anche
nel caso di proposizione di impugnazioni (Cass. 30 agosto 2013, n. 20002; Cass. 10 ottobre 2008, n. 24908).
2. Col primo motivo di ricorso la ricorrente principale denuncia la nullità del procedimento, a norma dell’art. 360, n. 4, c.p.c., in relazione agli artt. 2403, 2407 e 2485 c.c.. Si assume che le affermazioni contenute nella decisione difetterebbero di conseguenzialità logica e che la pronuncia mancherebbe di «minimo impegno motivazionale».
Il secondo motivo del ricorso principale oppone la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 2403 e 2407 c.c.. Si lamenta che la Corte territoriale, nonostante l’accertamento della responsabilità degli amministratori per il compimento degli atti di mala gestio , consistenti nella sopravvalutazione della quota di liquidazione a seguito del recesso del socio RAGIONE_SOCIALE e nell’aggravamento della situazione di dissesto, abbia escluso la corresponsabilità dei sindaci nella causazione dei danni, ritenendo che il collegio sindacale non fosse venuto meno ai suoi doveri, e negando, altresì, che esistesse nesso causale tra i danni risarcibili e i comportamenti dei sindaci.
3. – La Corte di appello, con riguardo al tema della responsabilità dei sindaci, ha osservato: che le censure proposte erano «generiche, al limite della inammissibilità»; che le doglianze erano basate sull ‘ equazione per cui a fronte di tutti i prospettati atti o fatti di mala gestio «non potesse che fare riscontro un deficit del collegio sindacale»; che, con riferimento alla sopravvalutazione della partecipazione del socio recedente RAGIONE_SOCIALE, doveva considerarsi che il consulente tecnico aveva escluso che la complessa operazione nella quale si collocavano le vendite del 2005 e del 2006 fosse incompatibile con la situazione patrimoniale e finanziaria di CCIL; che il collegio sindacale nel verbale del 22 novembre 2006 aveva esplicitamente raccomandato agli amministratori, con riferimento all’atto di compravendita della porzione
immobiliare, «di valutare i contenuti dell’atto di cessione dell’immobile nella parte che riguarda la determinazione del prezzo di cessione, alla luce degli atti a suo tempo stipulati relativi alle modalità attuative del recesso delle quote oggetto di cessione», e ciò «al fine di non creare pregiudizio economico alla società»; che il collegio sindacale non aveva affatto perduto di vista la questione circa la valutazione della partecipazione di IPI, che era collegata al prezzo di vendita dell’immobile; che, pertanto, la previsione di un atto di ricognizione del valore delle quote, contenuta al punto 6 del contratto di compravendita immobiliare del 5 agosto 2005, sebbene trascurata dagli amministratori, era stata monitorata dai sindaci; che l’attività di controllo in questione non poteva dirsi tardiva, in quanto la ricognizione doveva avvenire non prima dell’approvazione del bilancio al 31 dicembre 2005 ed era tale atto che, retrospettivamente, avrebbe permesso di cogliere con esattezza l’esistenza o meno dei danni per la società; che, con riguardo alla prosecuzione dell’attività dopo l’emergere dello stato di decozione, doveva considerarsi che il collegio sindacale fin dal 3 luglio 2006, ossia da prima che emergesse, a fine del terzo trimestre 2006, l’inequivocabile erosione del capitale sociale, aveva raccomandato di elaborare dati contabili il più possibile aggiornati per rappresentare con precisione l’attuale situazione economicofinanziaria della cooperativa, di procedere all’elaborazione di un piano di ristrutturazione precisando gli interventi a tal fine necessari e di convocare a breve una riunione del consiglio di amministrazione per relazionare sugli argomenti indicati; che l’attività di controllo era proseguita nel tempo (con l’invito agli amministratori, in data 5 ottobre 2006, a procedere alla regolarizzazione di alcuni atti, con l’invito agli stessi amministratori, il successivo 5 dicembre 2006, a verificare nel più breve tempo possibile la fattibilità di un’operazione e, se del caso, ad attivarsi presso l’organo di vigilanza al fine di attivare la procedura di revisione straordinaria, con l’invito al presidente del consiglio di
amministrazione, in data 26 febbraio 2007, a redigere il bilancio e a trasmettere copia della situazione contabile alla Lega nazionale cooperative e mutue e con la relazione del collegio sindacale ex artt. 2429 e 2409ter c.c., diretta ai soci, «che si concludeva con il parere non favorevole all’approvazione del bilancio e l’invito a prendere i provvedimenti necessari e conseguenti all’avvenuta perdita del capitale sociale»).
– Il primo motivo censura la sentenza per un vizio motivazionale che, alla stregua del richiamato svolgimento argomentativo, non può ravvisarsi.
Come è ben noto, riformulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 3 marzo 2022, n. 7090; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598).
La motivazione resa dalle Corte di merito si colloca ben al di sopra del limite segnato dal «minimo costituzionale».
Né la ricorrente può dolersi dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la genericità di alcune delle contestazioni
mosse ai sindaci (diverse, evidentemente, da quelle su cui si è soffermata la Corte di appello). Va infatti considerato che in tema di errores in procedendo non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione (tra le tante: Cass. 2 settembre 2019, n. 21944; Cass. 10 novembre 2015, n. 22952; Cass. 16 dicembre 2005, n. 27728; 24 novembre 2004, n. 22130) e che, comunque, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, egli ha l’onere di indicare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 6 settembre 2021, n. 24048; Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 20 settembre 2006, n. 20405): questo, nel caso in esame, non è avvenuto.
D’altro canto, nel presente giudizio non si fa questione di una responsabilità dei sindaci per atti dannosi da loro stessi compiuti, ma di una responsabilità riferita ad atti degli amministratori rispetto ai quali i sindaci avrebbero omesso di vigilare (art. 2407, comma 2, c.c.); ebbene, gli unici atti per cui sia stata riconosciuta la responsabilità degli amministratori sono quelli relativi alla stima inadeguata della partecipazione di IPI al momento del suo recesso e al ritardo con cui CCIL è stata posta in liquidazione: e con riferimento a entrambi questi profili la Corte di merito ha appurato non potesse ravvisarsi, in concreto, una culpa in vigilando dei sindaci.
Parimenti non concludenti sono le deduzioni intese a confutare l’efficacia e la tempestività degli interventi posti in att o dal collegio sindacale.
Rileva in particolare la società istante che il bilancio al 31 dicembre 2005 era stato depositato il 7 giugno 2006 e che solo il 22 novembre 2006 i sindaci avevano formulato le loro raccomandazioni
agli amministratori circa le verifiche inerenti al prezzo di cessione dell’immobile (tali verifiche erano necessarie in quanto, come si legge a pag. 30 della sentenza impugnata, ove la ricognizione sulle azioni di IPI avesse fatto emergere che il valore reale delle stesse era inferiore a quello di liquidazione in sede di recesso, il prezzo di vendita, in base al contratto di compravendita immobiliare del 5 agosto 2005, avrebbe dovuto subire un corrispondente ribasso). CCIL deduce, ancora, con riferimento all’addebito relativo alla mancata tempestiva messa in liquidazione della società, che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere sufficienti e tempestivi gli interventi richiamati in motivazione, gli stessi assumendo la consistenza di «rilievi di comodo».
Ebbene, le censure dirette a contestare la decisione impugnata sotto i profili indicati sfuggono al sindacato di legittimità: il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 22 novembre 2023, n. 32505; Cass. 7 aprile 2017, n. 9097).
5. – Il secondo mezzo è inammissibile.
Come esposto dalla ricorrente, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi
non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate (per tutte: Cass. 28 ottobre 2024, n. 27789; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32397; Cass. 3 luglio 2017, n. 16314).
Ora, la Corte di Firenze, come si è visto, ha motivatamente escluso detta inerzia.
Non coglie nel segno il rilievo della ricorrente secondo cui l’esistenza di macroscopiche violazioni dell’organo gestorio era stat a accertata nella stessa sentenza impugnata, onde «dalla responsabilità dell’organo amministrativo doveva discendere l’accertamento anche della responsabilità concorrente dei sindaci della cooperativa» (così a pag. 48 del ricorso). Proprio in quanto l’art. 2407, comma 2, c.c. configura una responsabilità per omessa vigilanza, deve escludersi che i sindaci debbano meccanicamente rispondere delle irregolarità gestionali dell’organo amministrativo . In tal senso si spiega la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’accertamento della responsabilità del sindaco per omessa vigilanza sull’operato degli amministratori di società di capitali richiede la prova dell’inerzia del sindaco rispetto ai suoi doveri di controllo e del danno conseguente alla condotta dell’amministratore, oltre che del nesso causale tra inerzia e danno (Cass. 11 dicembre 2020, n. 28357). Di ciò si mostra consapevole la stessa società ricorrente, la quale si limita però a evocare errori di giudizio in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’apprezzare la situazione di fatto sottoposta al suo esame: profilo, questo, chiaramente sottratto al sindacato di legittimità.
L’inadeguatezza della censura di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. qui in esame si rende d’altronde evidente ove si consideri che la ricorrente non poteva limitarsi a indicare le norme di legge di cui lamentava la
violazione, ma avrebbe dovuto raffrontare il contenuto precettivo di tali norme con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, richiamandole espressamente, al fine di dimostrare che queste ultime contrastavano col precetto di legge, (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745 e Cass. 6 luglio 2021, n. 18998).
Il ricorso principale è dunque respinto.
7 . -Il primo motivo del ricorso incidentale condizionato di RAGIONE_SOCIALE lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c..
Il secondo motivo oppone falsa applicazione dell’art . 2437ter , comma 2, c.c., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2533, 2535 c.c. e dell’art. 16 l. n. 49/1985, anche in relazione all’art. 2485, comma 2, c.c.;
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2484, 2485 e 2545duodecies c.c..
Il quarto motivo prospetta l’omesso esame di fatto decisivo.
Il quinto motivo del detto ricorso incidentale condizionato si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2056 e 2697 c.c..
Il ricorso incidentale condizionato di RAGIONE_SOCIALE denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c..
8 . – I due ricorsi incidentali, in quanto condizionati, restano assorbiti.
9 . – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso principale; dichiara assorbiti i due ricorsi incidentali condizionati; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore delle parti controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuna di esse, in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati
in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione