Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 638 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 638 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19697/2020 R.G. proposto da:
COGNOME, in proprio e quale rappresentante legale dell’Associazione professionale RAGIONE_SOCIALE COGNOME e Associati, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
nonché contro
COGNOME;
-intimata- avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 467/2020 depositata il 11/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/10/2023 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che
con ricorso ex art. 702 bis cod.proc.civ. la sig. NOME COGNOME conveniva, dinanzi al Tribunale di Milano, NOME COGNOME, NOME COGNOME e l’RAGIONE_SOCIALE chiedendo la risoluzione dei contratti professionali intercorsi con i convenuti, la condanna alla restituzione degli importi per prestazioni professionali dagli stessi percepite a tale titolo, nella misura di complessivi euro 49.331,02, nonché al risarcimento dei danni, al netto di interessi e spese; in aggiunta, domandava di essere manlevata da qualsivoglia pretesa eventualmente rivoltale da altri professionisti coinvolti nei procedimenti affidati ai convenuti;
a tale scopo, adduceva l’inadempimento degli obblighi assunti con il contratto di mandato professionale in relazione ad una controversia insorta con il vicino NOME COGNOME per immissione di rumori intollerabili, e ad una successiva che l’aveva contrapposta al Comune di Castelvaccana e alla ditta NOME COGNOMEi per la concessione di un loculo cimiteriale e la fornitura di servizi cimiteriali, la sproporzione e l’ingiustificatezza delle somme corrisposte a titolo di compenso per prestazioni professionali ai convenuti;
NOME COGNOME costituitosi in proprio e quale rappresentante legale dell’Associazione RAGIONE_SOCIALE, per quanto ancora rileva in questa sede, deduceva il difetto di legittimazione passiva dello studio associato, la correttezza del proprio operato professionale, la legittimità dei corrispettivi ricevuti, eccepiva di avere raggiunto una transazione con l’attrice, lamentava la diffamatorietà di alcune espressioni contenute nel ricorso e, in via riconvenzionale, chiedeva la condanna dell’attrice e dei suoi difensori al risarcimento dei danni per lesione della reputazione oltre alla cancellazione delle affermazioni lesive della sua reputazione;
il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 12334/2017, accertava :
i) l’inadempimento di NOME COGNOME e di NOME COGNOME nella vertenza COGNOME/COGNOME avente ad oggetto i ricorsi ex art. 696 cod.proc.civ., il reclamo e il ricorso per cassazione per la posizione di NOME COGNOME e con riferimento al solo ricorso depositato in data 14 maggio 2012 per la posizione di NOME COGNOME; ii) l’inadempimento di NOME COGNOME e di NOME COGNOME al contratto d’opera avente ad oggetto l’appello proposto avverso la sentenza del Giudice di Pace di Luino; dichiarava risolti i relativi contratti d’opera; condannava NOME COGNOME e l’Associazione RAGIONE_SOCIALE in solido tra loro, e limitatamente al minor importo di euro 3.000,00 in solido con NOME COGNOME a restituire all’attrice la somma di euro 23.630,00, al netto degli interessi per la vertenza COGNOME/COGNOME; quanto alla vertenza COGNOME/Comune/Casoli condannava tutti i convenuti in solido a restituire all’attrice la somma di euro 11.000,00, al netto degli interessi; condannava tutti i convenuti in solido a risarcire il danno patrimoniale subito da NOME COGNOME corrispondendole la somma di euro 4.165,00 euro, al netto degli interessi; condannava, accertato l’inadempimento di NOME COGNOME al contratto d’opera con riferimento alla predisposizione dell’atto di appello nella
vertenza COGNOME, NOME COGNOME e l’Associazione RAGIONE_SOCIALE a corrispondere all’attrice la somma di euro 10.000,00, al netto degli interessi, e a restituire l’importo di euro 956,00 e quello di euro 1.527,00; rigettava la domanda risarcitoria di NOME COGNOME; regolava nei rapporti tra i coobbligati la misura della condanna; regolava le spese di lite;
la Corte d’appello di Milano, investita del gravame della sentenza di prime cure, in via principale, da NOME COGNOME, in proprio e quale rappresentante legale dell’Associazione professionale RAGIONE_SOCIALE e, in via incidentale da NOME COGNOME ha accolto l’appello principale: a) nella parte in cui aveva denunciato la erronea dichiarazione di contumacia dell’Associazione professionale, precisando che l’invalidità della dichiarazione di contumacia non aveva avuto conseguenze processuali, giacché NOME COGNOME, costituitosi anche per conto dell’Associazione Professionale, aveva potuto esperirne tutte le difese e non aveva indicato quale concreto pregiudizio al diritto di difesa l’erronea dichiarazione di contumacia avesse determinato né aveva chiesto la declaratoria di nullità della sentenza (p. 45 della sentenza); b) nella parte in cui l’appellante si doleva del fatto che il Tribunale avesse rigettato in rito l’eccezione di improcedibilità della domanda attorea e di cessazione della materia del contendere, confermando il rigetto nel merito della stessa eccezione;
NOME COGNOME in proprio e quale rappresentante dell’Associazione professionale RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Milano n. 467/2020, resa pubblica in data 11/02/2020, formulando sette motivi;
resiste con controricorso NOME COGNOME che ha presentato anche memoria;
NOME COGNOME è rimasta intimata;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.;
Considerato che
va esaminata innanzitutto l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente, la quale sostiene di aver notificato tramite pec la sentenza d’appello a NOME COGNOME e a NOME COGNOME in data 12 febbraio 2020 e che, pertanto, il ricorso notificato in data 1° luglio 2020 sarebbe improcedibile per tardività;
nondimeno, la controricorrente si è limitata a p. 1 del controricorso a rinviare alle note a piè di pagina 1 e 2, rispettivamente, al doc. 1 e al doc. 2 i quali corrispondono ai documenti 1 e 2 indicati a p. 15 come allegati al controricorso: alla lett. 1) è indicata la ‘sentenza n. 467/2020 Corte Appello di Milano, notificata il 12.2.2020; alle lett. 2) è indicato il ‘Ricorso per Cassazione Avv. COGNOME e Ass. Prof. COGNOME notificato il giorno 1.7.2020;
questa Corte ha affermato il principio per cui la notifica della sentenza effettuata alla controparte tramite PEC ( ex art. 3 bis della legge n.53 del 1994 nel testo applicabile ratione temporis modificato dall’art. 16 quater , comma 1, lett. d), del D.L. n.179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n.228 del 2012) è idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione nei confronti del destinatario, ove il notificante provi di aver allegato e prodotto la copia cartacea del messaggio di trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, le ricevute di avvenuta consegna e accettazione e la relata di notificazione, sottoscritta dal difensore, nonché la copia conforme della sentenza che, trattandosi di atto da notificare non consistente in documento e attestazione di conformità ex art.16 undecies del citato D.L. n.179 del 2012 (Cass. 19/09/2017, n. 25197);
data il mancato assolvimento di detto onere posto a carico del notificante/ controricorrente l’eccezione va rigettata;
2) con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2222, 2229 e 2232 cod. civ., ex art. 360, 1° comma n. 3, cod.proc.civ.; nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, 1° comma n. 5, cod.proc.civ., ‘quanto alla motivazione omessa ovvero apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della legittimazione passiva data dalla legale rappresentanza di un associato, che esclude anche la violazione del diritto di difesa per invalida dichiarazione di contumacia’;
la tesi dei ricorrenti è che, avendo potuto NOME COGNOME svolgere nel giudizio di primo grado difese solo per stesso, ‘vedendosi rigettare ogni e qualsivoglia istruttoria in blocco’, il vulnus allo studio professionale associato risulterebbe in re ipsa , giacché avrebbe potuto nominare un diverso legale rappresentante e diverso difensore al fine di svolgere le proprie difese e la propria istruttoria’ (p. 14 del ricorso);
il motivo va rigettato
L’impugnata sentenza risulta invero motivata, e del tutto congruamente, non presentando alcun profilo di contraddittorietà e appalesandosi corretta in iure , avendo la corte di merito fatto applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela, nel rispetto dei principi di economia processuale nonché di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giurisdizionale, ma garantisce meramente dal pregiudizio derivante dalla violazione del diritto di difesa, con la conseguenza che risulta inammissibile l’impugnazione con cui si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la
parte, una effettiva e concreta lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio derivante dalla decisione di merito (cfr., ex plurimis , Cass. 16/09/2022, n.27324);
errano, dunque, i ricorrenti a ritenere considerato in re ipsa il danno subito da controparte;
senza sottacersi che la Corte d’Appello ha nell’impugnata sentenza invero affermato -senza alcuna confutazione specifica al riguardo mossa dagli odierni ricorrenti- che la circostanza per la quale il COGNOME ha nella specie agito anche per conto dello studio associato consente di ritenere tutelate anche le ragioni dello studio associato;
2) con il secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1956 cod.civ. , nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, rispettivamente, ai sensi dell’art. 360, 1° comma n. 3 e n. 5, cod.proc.civ.;
la statuizione impugnata è quella con cui la Corte territoriale, pur ritenendo meritevole di accoglimento il primo motivo di appello nella parte in cui denunciava l’erroneo rigetto in rito dell’eccezione di improcedibilità e/ inammissibilità della domanda attorea per intervenuta transazione, ha condiviso il rigetto nel merito della eccezione da parte del Tribunale;
i ricorrenti deducono che la scrittura privata del 24 gennaio 2014, denominata atto di transazione e sottoscritta in entrambe le pagine da entrambe le parti, non è stato mai disconosciuta né impugnata benché l’originaria attrice si fosse già rivolta ad altri professionisti; in sostanza la COGNOME, essendosi già rivolta ad altro professionista per agire nei confronti dell’avvocato COGNOME avrebbe stipulato l’atto del 24 gennaio 2014 allo scopo di abbandonare l’iniziativa giudiziaria acconsentendo liberamente a corrispondere l’importo di euro 1.400,00 anziché quello maggiore preteso dal professionista;
non aveva poi adempiuto all’obbligo assunto, tanto che NOME COGNOME aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti di
NOME COGNOME seguito da un atto di precetto per il recupero del credito e da un’interlocuzione con il nuovo difensore, tramite la quale le parti si erano accordate nel senso che che NOME COGNOME avrebbe corrisposto l’importo di euro 1.400,00 e avrebbe desistito dall’intraprendere un’azione legale nei confronti di NOME COGNOME; sicché la volontà di transigere sarebbe stata espressa due volte: stipulando l’atto transattivo ed effettuando il pagamento della somma ingiunta;
il motivo è infondato;
emerge con tutta evidenza che lo sforzo confutativo dei ricorrenti è volto ad accreditare una ricostruzione della volontà degli stipulanti la scrittura privata diversa da quella nella specie operata sia dal Tribunale che dall a Corte d’Appello;
tale sforzo tuttavia non produce l’esito sperato, per più ragioni: innanzitutto, perché la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (cfr., ex plurimis , Cass., 28/11/2017, n.28319; Cass. 09/04/2021, n. 9461);
a fronte di una complessa trama argomentativa che ha portato i giudici del merito ad escludere che la scrittura privata del 2014
avesse la valenza transattiva pretesa parte ricorrente si limita invero a evocare la qualificazione nominale ad essa attribuita dalle parti che, per giurisprudenza costante non è vincolante; a riportare uno stralcio della scrittura privata (p. 16 del ricorso) cui i giudici di merito hanno riconosciuto un significato diverso da quello corrispondente ai suoi desiderata ; ha aggiunto alcune circostanze di fatto -riportate in maniera del tutto assertiva, ipotetica e incompleta (da p. 5 del controricorso, peraltro, si apprende che il pagamento della somma ingiunta era stato eseguito con riserva, che il decreto ingiuntivo era stato opposto e poi revocato; il che trova conferma in quanto emerge dalla p. 64 della sentenza impugnata ) -che dovrebbero indurre questa Corte -dimenticando i caratteri morfologici e funzionali del giudizio di legittimità – a cassare la statuizione della sentenza gravata;
il vizio di omesso esame, con cui viene censura la motivazione della sentenza impugnata, non può essere invero accolto per l ‘ assorbente ragione che il vizio motivazionale, ove ricorrente, deve emergere ictu oculi dalla medesima, e non già dal confronto con elementi ad essa estranei (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054 e successiva giurisprudenza conforme);
3) con il terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 1175-1175, 1460 e 844 cod.civ., in riferimento all’art. 360, 1° comma n. 3 e n. 5, cod.proc.civ.;
lamentano essere incomprensibile l’ iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello per pervenire a condividere la sentenza del Tribunale nella parte relativa all ‘attività professionale svolta con riferimento alla controversia COGNOME/COGNOME perché sarebbe stato , imputato loro solo di non aver coltivato l’atto d’appello avverso la sentenza del Giudice di pace che aveva rigettato la domanda di NOME COGNOME nei confronti del vicino per difetto di prova circa la sussistenza delle immissioni intollerabili lamentate, senza neppure accertare se l’appello fosse fondato; in particolare,
sostengono i ricorrenti, anche se il Tribunale aveva censurato il fatto che NOME COGNOME non avesse neppure reiterato la richiesta di CTU in sede di precisazione delle conclusioni, aveva precisato che la CTU avrebbe potuto essere disposta anche d’ufficio e che comunque il suo esito sarebbe stato incerto, imputandogli solo di aver predisposto un atto di appello, ma di non averne coltivato la proposizione; ma -sostiene parte ricorrente ‘delle due l’una o l’appello era fondato —oppure non lo era ed allora non presentarlo … non poteva che essere un vantaggio’ per la cliente;
parimenti incomprensibile sarebbe la statuizione con cui gli veniva rimproverato di aver proposto ricorso per ATP senza motivare le ragioni di urgenza, di aver reiterato la medesima richiesta con un nuovo reclamo depositato nel maggio 2013 e di aver proposto ricorso straordinario per cassazione avverso un’ordinanza priva dei requisiti di decisorietà e di definitività, senza considerare che l’urgenza era stata motivata con l’insostenibilità della protrazione dei rumori e che la CTU era l’unica fonte oggettiva di prova per accertare il livello di intollerabilità, ai sensi dell’art. 844 cod.civ.;
inoltre, la Corte d’appello avrebbe disposto la condanna alla restituzione di tutto quanto ricevuto per l’attività svolta, senza tener conto che il compenso richiesto era da considerarsi giustificato dal fatto che NOME COGNOME si presentava in studio almeno due volte alla settimana trattenendosi per l’intero pomeriggio;
ed ancora: la valutazione di inadeguatezza dell’attività svolta sarebbe stata formulata non già ex ante , bensì ex post sulla base dell’esito del giudizio;
quanto alla controversia COGNOME/Comune di Castelvaccana/Casoli, la censura mossa alla Corte d’Appello è quello di non aver tenuto conto che era stato rappresentato a NOME COGNOME il rischio di perdere in appello, ma che la stessa aveva insistito, tanto che poi aveva coltivato il giudizio con un altro legale; e comunque –
insistono i ricorrenti -le censure mosse ai professionisti dal giudicante erano frutto di una valutazione ex post e non ex ante, cioè erano basate sugli esiti del giudizio d’appello seguito da un altro legale che, a sua volta, non era stato in grado di dissuadere la cliente dal proporre appello al solo scopo per impugnare la statuizione sulla compensazione delle spese;
né la Corte d’appello avrebbe tenuto conto che l’importo di euro 11.000,00 era relativo all’attività svolta per il giudizio di primo grado, in cui NOME COGNOME era risultata vittoriosa, e non per il giudizio di appello, gestito, dopo la notifica dell’atto di appello, da un altro legale;
il motivo in tutte le sue articolazioni non può accogliersi;
le numerose critiche mosse alla sentenza d’appello sono volte a ottenere un diverso esito delle valutazioni spettanti esclusivamente al giudice di merito, adducendo, peraltro, circostanze di fatto ipotetiche e di indimostrata decisività;
l’accoglimento di tale richiesta implicherebbe la trasformazione del processo di cassazione in un terzo giudizio di merito, nel quale ridiscutere il contenuto di fatti e di vicende del processo e dei convincimenti del giudice maturati in relazione ad essi -evidentemente non graditi – al fine di ottenere la sostituzione di questi ultimi con altri più collimanti con propri desiderata, rendendo, in ultima analisi, fungibile la ricostruzione dei fatti e le valutazioni di merito con il sindacato di legittimità avente ad oggetto i provvedimenti di merito;
va, peraltro, ribadito che, secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, 1° comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici
della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. Un., 05/05/2006, n. 10313);
in altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ. , ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle;
le denunce non risultano formulate in questi termini, essendo evidente che parte ricorrente insiste con il tentativo di dimostrare di avere assolto correttamente la propria attività professionale -reiterando le argomentazioni difensive già disattese dal giudice a quo , aggiungendovi la denuncia di incomprensibilità e della contraddittorietà della motivazione resa dalla Corte territoriale che parte ricorrente avrebbe dovuto denunciare per violazione dell’art. 132, n. 2, 4° comma, cod.proc.civ. e che comunque è infondata, essendo la motivazione del tutto percepibile, supportata da analitici riferimenti fattuali e caratterizzata da argomentazioni prive di profili di contraddittorietà che facciano ipotizzare per tale via un difetto di motivazione rilevante ex art. 132 n 4 cod.proc.civ. – e anche quando tenta di imputare alla Corte d’appello la violazione della giurisprudenza di legittimità, in specie di Cass. n. 26959/2017, dimostra di non avere colto la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non ha rimproverato ai professionisti la scelta di una strategia difensiva volta a dirimere questioni giuridiche opinabili, ma di avere adottato complessivamente e, per di più, reiteratamente una condotta non adeguata al raggiungimento del risultato sperato;
5) con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione degli artt. 89 cod.proc.civ. e 595 cod.pen. e
dell’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., perché, a loro avviso, la Corte territoriale avrebbe ritenuto astrattamente sussistenti gli estremi del reato di diffamazione, ancorché quantomeno scriminato, e poi contraddicendosi avrebbe giudicato le espressioni non gratuitamente eccessive né eccedenti le esigenze difensive, rigettando il quarto motivo di appello con cui avevano domandato che fossero cancellate le espressioni offensive della reputazione di NOME COGNOME e dello studio associato contenute nel ricorso avversario e che la odierna controricorrente e il suo difensore fossero condannati al risarcimento dei danni;
il motivo è inammissibile;
la Corte d’appello, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità sul punto, ha escluso, facendone corretta applicazione, che le espressioni asseritamente offensive fossero volte ad attribuire qualità personali negative ai professionisti e/o che eccedessero dalle esigenze difensive o fossero dettate da un passoniale e incomposto intento dispregiativo non volto a dimostrare, anche attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni; ha escluso dunque gli estremi di cui all’art. 89 cod.proc.civ. e a fortiori ‘del reato di cui all’art. 595 c.p. (quantomeno scriminato dalla dirimente della libertas convicii , ex art. 598 c.p.)’;
tanto esclude che sia caduta in contraddizione, come pretendono i ricorrenti, per aver ritenuto che non ricorressero i presupposti per accogliere la richiesta di cancellazione delle parole ritenute offensive e tantomeno per ritenere sussistente, con le conseguenze richieste dai ricorrenti, del reato di diffamazione; in sostanza, ha escluso la ricorrenza di offese sia ai fini dell’art. 89 cod.proc.civ. sia ai fini dell’art. 598 cod.civ., a mente del quale non sono punibili le
offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative;
parimenti deve negarsi che sia fondata la censura di violazione degli artt. 89 cod.proc.civ. e 598 cod.pen., perché la Corte territoriale ha valutato le parole asseritamente offensive e le ha ritenute non gratuitamente offensive né eccedenti la materia del contendere e le esigenze difensive e i ricorrenti non hanno censurato in iure tale statuizione, affermando -senza alcun raffronto con la sentenza impugnata che ha sostenuto esattamente il contrario (p. 62 della sentenza, § 4.2) -che l’offesa al decoro ed all’onore ricorre anche quando si presentino come eccedenti le esigenze difensive e siano non pertinenti, cioè volte a colpire la persona dell’avvocato;
5) con il quinto motivo i ricorrenti, deducendo la violazione degli artt. 1175 e 1375 cod.civ. e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., si dolgono che la Corte d’appello non abbia attribuito rilievo al fatto che NOME COGNOME non avesse dato atto della pendenza di una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, ritenendo -ma erroneamente – che il giudizio di opposizione aveva diverso oggetto;
il motivo è inammissibile;
la ragione assorbente di tale inammissibilità deriva dalla violazione del principio di autosufficienza, perché i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia sbagliato nel ritenere che il ingiuntivo, la cui sussistenza era stata taciuta da NOME COGNOME avesse un oggetto diverso da quello per cui è causa, riguardando una somma residua richiesta da NOME COGNOME per lo svolgimento di prestazioni professionali, ma la doglianza è meramente asseriva;
neppure supportano la ritenuta pregiudizialità del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo rispetto alla controversia per cui è
causa né dimostrano che -diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello NOME COGNOME non era a conoscenza del giudizio di opposizione e di non aver potuto controdedurre alle domande avanzate da NOME COGNOME;
6) con il sesto motivo la sentenza è censurata per violazione degli artt. 244 cod.proc.civ. e dell’art. 2697 cod.civ. e per omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., nella parte in cui ha rigettato il motivo di appello con cui avevano lamentato che il giudice di prime cure avesse respinto tutte le istanze istruttorie, limitandosi ad osservare apoditticamente che i fatti non erano stati indicati in modo specifico, anziché dar conto delle ragioni per le quali quei fatti come dedotti anche se provati non potevano condurre all’accoglimento della tesi difensiva prospettata;
le argomentazioni difensive a supporto del motivo sono esattamente le stesse addotte a fondamento del sesto motivo di appello rigettato dalla Corte d’appello con una statuizione (cfr. p. 66 della sentenza) con cui i ricorrenti non si confrontano -generica indicazione della decisività dei capitoli di prova orali, irrilevanza ai fini del decidere, inerenza a circostanze incontestate o da provarsi documentalmente -limitandosi a riprodurre parte dei capitoli di prova ed a insistere circa il fatto che ‘avrebbero potuto permettere di chiarire lo scopo di transazione e la reale volontà delle parti, così come la reale mole di attività stragiudiziale, fatturabile anche in base alle tariffe forensi ratione temporis ‘ (p. 27 del ricorso);
con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella
proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. (cfr. Cass. 24/09/2018, n.22478);
7) con il settimo motivo i ricorrenti assumono, in riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., la violazione dell’art. 91 cod.proc.civ. e del dm 55/2014 e l’omesso esame di un fatto decisivo, per avere la Corte d’appello confermato la statuizione del Tribunale relativa alla condanna alle spese, ritenendo non obbligato il giudice a motivare quando applica la regola della soccombenza ed i parametri medi ;
in particolare, lamentano che il Tribunale non abbia motivato sulle singole voci riferibili all’attività svolta dal difensore, sulla congruità delle somme liquidate, tenuto conto del numero e dell’importanza delle questioni trattate, della tipologia ed entità delle prestazioni difensive ad avuto riguardo per i parametri fissati dalla normativa vigente;
il motivo è infondato;
è consolidato l’orientamento di codesta Corte, correttamente applicato dalla sentenza impugnata, secondo cui, in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 e successive modifiche l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa solo allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso. ( ex multis cfr. Cass. 20/02/2023, n.5289);
i doveri motivazionali del giudice sul punto si caratterizzano per un minore rigore argomentativo che consente di ritenere soddisfatto l’obbligo motivazione, indicando i parametri tariffari usati per giungere a una determinata liquidazione delle spese della
parte civile, tenuto conto delle indicazioni contenute nel D.M. n. 155 del 2014;
né il giudice è vincolato alla determinazione secondo i valori medi indicati dal dm 55/2014, come ipotizza il ricorrente (Cass. 07/01/2021, n. 89; Cass. 5/05/2022, n. 14198);
per finire, il Tribunale ha sorretto la decisione di aumentare i parametri dettati dal dm 37/2018 di un terzo con una motivazione insindacabile in questa sede;
il ricorso va pertanto rigettato;
le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente, seguono la soccombenza.
tenuto conto della fase in cui si trova il giudizio, del comportamento processuale complessivo della parte soccombente, di quanto emerge oggettivamente dagli atti del processo, il Collegio ritiene che il ricorrente abbia esercitato le sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente e sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile (Cass. 30/9/2021, n. 26545), proponendo il presente ricorso senza la prudente valutazione esigibile dal ceto forense, coniugata con il principio di responsabilità delle parti (Cass. 4/08/2021, n. 22208);
pertanto, pone a carico della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, 3° comma, cod.proc.civ., l’obbligo del pagamento della somma di euro 5.000,00 (in aggiunta alle spese di lite).
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 5.200,00, di cui euro 5.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori di legge. Condanna i ricorrenti al pagamento di euro 5.000,00 ex art. 96, 3° comma, cod.proc.civ.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 26/10/2023