Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 6788 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 6788 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22566/2018 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) per procura in calce al ricorso,
-ricorrente-
contro
REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente e legale rappresentante NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa
dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) per procura in calce al controricorso,
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CATANZARO n.185/2018 depositata il 26.1.2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5.3.2024 dal
Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1) La RAGIONE_SOCIALE (d’ora in poi per brevità CSB), gestore della casa protetta San Pio e Madonna dell’Immacolata di Corigliano Calabro, accreditata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE per l’erogazione in nome del RAGIONE_SOCIALE di prestazioni socioRAGIONE_SOCIALE in favore di anziani non autosufficienti e non assistibili a domicilio, in esecuzione del contratto stipulato con l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013, valevole per l’anno 2013, avendo erogato le suddette prestazioni in base a provvedimenti della stessa RAGIONE_SOCIALE, e sostenendo che l’obbligazione di pagamento gravava anche sulla Regione RAGIONE_SOCIALE in base alla previsione dell’art. 7 della L.R. RAGIONE_SOCIALE 5.12.2003 n. 23, come modificato dall’art. 17 della L.R. RAGIONE_SOCIALE 5.10.2007 n. 22, chiedeva al Tribunale di RAGIONE_SOCIALE la condanna, a titolo di corrispettivo contrattuale o di indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c., della Regione RAGIONE_SOCIALE, al pagamento della quota del 50% della retta giornaliera gravante sul RAGIONE_SOCIALE gestito dalla Regione, per complessivi € 369.263,92 oltre interessi per ritardato pagamento ex D. Lgs. n. 231/2002, avendo l’RAGIONE_SOCIALE provveduto ad erogare la quota della restante parte della retta remunerata con fondi gestiti dalle RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE medesime.
Si costituiva nel giudizio di primo grado la Regione RAGIONE_SOCIALE, che sosteneva che il contratto dell’11.6.2013 invocato dalla controparte non le era opponibile, in quanto mai sottoscritto dal dirigente del Dipartimento Politiche Sociali della Regione RAGIONE_SOCIALE e quindi sprovvisto per essa della necessaria forma scritta, che comunque da quel contratto non era scaturita alcuna obbligazione ex lege a carico della Regione RAGIONE_SOCIALE in quanto il contratto stipulato dalla Regione RAGIONE_SOCIALE con la CSB il 15.3.2013 per l’anno 2013, che essa stessa produceva, aveva previsto solo l’obbligo, puntualmente assolto, di trasferire alle strutture private le somme per le prestazioni per le quali a quella data esisteva la copertura finanziaria, che l’azione ex art. 2041 cod. civ. era inammissibile in ragione dell’esperibilità dell’azione di adempimento contrattuale contro la RAGIONE_SOCIALE, e che non erano applicabili gli interessi ex D. Lgs. n. 231/2002 al rapporto dedotto in giudizio.
Il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, con ordinanza resa all’esito del procedimento di cui all’art. 702 ter c.p.c., accoglieva la domanda e condannava la Regione RAGIONE_SOCIALE a corrispondere alla CSB la somma di € 369.263,92, a saldo del corrispettivo dovuto per le prestazioni erogate, oltre interessi ex D.Lgs. n. 231/2002 dalla data contrattualmente fissata al saldo ed alle spese del giudizio, da distrarre a favore dei legali antistatari della ricorrente, avvocati NOME e NOME COGNOME.
L’ordinanza anzidetta veniva impugnata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE innanzi alla Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE che, con la sentenza n.185/2018 dell’8/26.1.2018, riformava la decisione impugnata e rigettava la domanda proposta in primo grado dalla CSB, escludendo che la Regione RAGIONE_SOCIALE dovesse corrispondere somme sulla base di una convenzione della quale non era stata parte, non essendo la stessa passivamente legittimata in forza di alcune pronunzie rese da questa Corte in materia omogenea (Cass. n.11452/2017; Cass. n. 11925/2017; Cass. n. 11922/2017; Cass.
n. 22067/2016; Cass. n.22039/2016; Cass. n. 22038/2016; Cass. n.22037/2016).
Con la stessa sentenza la Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE riteneva tardiva ed inammissibile la pretesa fondata dalla CSB su un titolo negoziale diverso da quello invocato in primo grado, ossia sul contratto concluso con essa dalla Regione RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013, anziché sul contratto concluso con essa dalla RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013, e comunque la riteneva anche infondata nel merito. Osservava, al riguardo, che il contratto del 15.3.2013 si riferiva alle sole prestazioni socio RAGIONE_SOCIALE dell’anno 2012, e non a quelle oggetto di causa del 2013, per le quali si limitava a rinviare ad altro contratto per le prestazioni del 2013 secondo i limiti di disponibilità di bilancio a quella data esistenti, pari ad €15.000.000,00, senza assunzione per esse di una diretta obbligazione di pagamento della Regione RAGIONE_SOCIALE verso il gestore della struttura, ricollegando all’adempimento del contratto del 15.3.2013, e non a quello dell’11.6.2013, l’avvenuto pagamento da parte della Regione RAGIONE_SOCIALE a favore della RAGIONE_SOCIALE dell’importo di € 385.383,40 del 22.5.2013, non qualificabile quindi come parziale riconoscimento del debito asseritamente scaturito a carico della Regione RAGIONE_SOCIALE in base al contratto concluso con la RAGIONE_SOCIALE dalla RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013.
La Corte escludeva poi il rilievo nella specie dell’art. 1 comma 10 del D.L. n.324/1993, convertito nella L. n. 423/1993, e dell’invocato precedente della sentenza della Corte di Cassazione n. 13333 del 30.6.2015, relativo alla diversa questione della legittimazione passiva dell’ente incaricato del pagamento per i debiti contratti dalle aziende RAGIONE_SOCIALE locali nella specifica ipotesi (riconosciuta per la Regione Lazio e non per la Regione RAGIONE_SOCIALE) in cui una Regione avesse delegato ad un unico ente le attività di liquidazione e di pagamento delle prestazioni rese dalle aziende
RAGIONE_SOCIALE locali, mancando una norma siffatta nella Regione RAGIONE_SOCIALE.
La Corte d’Appello escludeva poi la ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda subordinata di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ., risultando essere l’RAGIONE_SOCIALE il destinatario delle pretese di pagamento del corrispettivo per le prestazioni svolte dalla RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’Appello, inoltre, riteneva fondate le domande di restituzione delle somme versate dalla Regione RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE ed ai difensori distrattari della stessa in esecuzione della sentenza di primo grado, come documentato nelle ordinanze di assegnazione prodotte dalla Regione col deposito delle note conclusionali.
Avverso tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione la CSB affidandosi a dieci motivi, al quale ha resistito la Regione RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6) Col primo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., il difetto di forma ex art. 156 c.p.c., e l’ultrapetizione. La Corte d’Appello avrebbe riformato l’ordinanza impugnata senza indicazione del motivo di appello ritenuto fondato e senza specificare le parti della pronunzia impugnata ritenute meritevoli di riforma.
Il primo motivo è inammissibile, contemplando in un’unica censura diverse ipotetiche violazioni di norme processuali senza che sia possibile inferirne lo specifico contenuto in termini di chiarezza ed analiticità. La ricorrente, infatti, prospetta gradatamente la nullità della sentenza, il difetto di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunziato, la violazione del principio della domanda d’appello, la nullità del difetto di forma ex art. 156
comma 2° c.p.c., non confrontandosi con l’apparato motivazionale della sentenza impugnata, che dopo avere riassunto il contenuto dell’oggetto del contendere e le ragioni poste dal Tribunale di RAGIONE_SOCIALE a fondamento della decisione di accoglimento della domanda della RAGIONE_SOCIALE nei confronti della Regione RAGIONE_SOCIALE, le ha analiticamente confutate sulla base dei motivi di appello sunteggiati alle pagine 6 e 7 della sentenza e della difesa esposta dall’appellata, all’interno di un corredo motivazionale puntuale e dettagliato. Ed è, poi, il caso di evidenziare l’inammissibilità per difetto di autosufficienza delle censure di extrapetizione che la ricorrente ha dedotto con riferimento all’appello proposto senza, tuttavia, consentire a questa Corte di valutare a quali parti dell’atto di impugnazione si riferisse la censura. Del tutto fuori bersaglio risulta, poi, la censura che riguarda l’asserita mancata specificazione delle parti della sentenza di primo grado investite dal gravame, non risultando la censura calibrata sul complessivo contenuto motivazionale della sentenza impugnata, ampiamente idonea a rendere palese le ragioni che non consentivano, secondo la Corte d’Appello, di ritenere la Regione RAGIONE_SOCIALE obbligata al pagamento delle rette relative a prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE erogate sulla base di un contratto stipulato fra la RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE (vedi in tal senso su identico motivo in fattispecie analoga Cass. ord. n.34287/2023).
7) Col secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 1372 comma 2° cod. civ., dell’art. 1 comma 10° del D.L. n. 324 del 27.8.1993, convertito dalla L. n. 423 del 27.10.1993 e dell’art. 345 c.p.c. La Corte di appello, escludendo che la Regione RAGIONE_SOCIALE fosse tenuta a corrispondere quanto richiesto dalla ricorrente in quanto estranea alla convenzione sottoscritta con l’RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013, si sarebbe adeguata ad alcuni precedenti disattendendo altre pronunzie anche a sezioni unite, senza per nulla considerare la portata precettiva dell’art. 1 comma 10° del D.L. n. 324/1993, dal
quale si sarebbe dovuto desumere che la Regione RAGIONE_SOCIALE era incaricata del pagamento delle rette in quanto ente finanziatore delle RAGIONE_SOCIALE. Avrebbe quindi errato la Corte d’Appello nel ritenere ininfluente tale previsione normativa rispetto al caso di specie, per di più erroneamente invocando l’assenza di legislazione RAGIONE_SOCIALE.
Col terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 comma 2° cod. civ., degli articoli 17 e 18 della L.R. RAGIONE_SOCIALE n. 22 del 2007, dell’art. 41 comma 4° della L.R. RAGIONE_SOCIALE n. 69 del 27.12.2012, della L.R. RAGIONE_SOCIALE n.12 del 21.4.2015, dell’art. 9 della L.R. RAGIONE_SOCIALE n. 40 del 2.12.2016 e dell’art. 16 comma 6° della L.R. RAGIONE_SOCIALE n. 44 del 27.12.2016. Secondo la ricorrente, la normativa RAGIONE_SOCIALE di riferimento sopra indicata, laddove prevedeva la copertura a carico della Regione RAGIONE_SOCIALE dei debiti pregressi delle strutture che erogano servizi socio-sanitari da parte della Regione costituiva una sorta di interpretazione autentica in ordine all’esistenza di una precisa legittimazione passiva della Regione RAGIONE_SOCIALE rispetto alle quote socio-assistenziali coperte dal RAGIONE_SOCIALE, riconoscendo un effetto diretto nei rapporti Regione/struttura privata, con ciò ponendosi in antitesi con i principi affermati dalla Corte d’Appello sulla base di quanto affermato da Cass. n. 11925/2017 e dagli altri precedenti indicati.
Col sesto motivo si deduce la violazione degli articoli 2041 e 2042 cod. civ. e dell’art. 1 comma 10° del D.L. n. 324 del 1993. Secondo la ricorrente, il ricordato art. 1, comma 10° del D.L. n.324 del 1993, impedirebbe di agire nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, ricorrendo dunque il requisito della sussidiarietà postulato dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ.
Il secondo, il terzo ed il sesto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili ai sensi dell’art. 360 bis n. 1) c.p.c.
La questione qui al vaglio del Collegio è infatti sovrapponibile, quanto alla riferibilità alla Regione RAGIONE_SOCIALE delle obbligazioni nascenti dalle convenzioni stipulate da imprese che offrono servizi socio-assistenziali e RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE locali nella Regione RAGIONE_SOCIALE, remunerate in parte con somme provenienti dal RAGIONE_SOCIALE, a quelle già ripetutamente decise da questa Corte (Cass. ord. n. 34287/2023; Cass. n. 18604/2020; Cass. n. 7745/2020). Con tale consolidato orientamento, dal quale non c’è ragione di discostarsi, si è riconosciuto che la disciplina che demanda alle RAGIONE_SOCIALE (o ARAGIONE_SOCIALE) ogni potere d’intervento diretto in materia di assistenza socio-RAGIONE_SOCIALE nella Regione RAGIONE_SOCIALE, ivi compresa l’instaurazione di rapporti contrattuali con le strutture pubbliche e private chiamate a rendere le relative prestazioni in regime di accreditamento, riserva alla Regione i soli compiti di programmazione, coordinamento e vigilanza, tra i quali è compresa anche la ripartizione tra le RAGIONE_SOCIALE (o ARAGIONE_SOCIALE) delle risorse economiche necessarie per l’effettuazione dei predetti interventi, cosicché deve escludersi che l’esecuzione delle prestazioni rese dalla CSB in favore degli assistiti abbia potuto far sorgere obbligazioni a carico della Regione RAGIONE_SOCIALE, essendo questa rimasta estranea alla stipulazione della convenzione con l’RAGIONE_SOCIALE e priva di ogni competenza al riguardo; né rilevava in contrario il richiamo all’art. 7 della L.R. n. 23 del 2003, che ha posto a carico del RAGIONE_SOCIALE una quota del corrispettivo delle predette prestazioni, trattandosi di una disposizione che, oltre ad essere stata superata dalla successiva evoluzione legislativa, non poteva comportare una responsabilità diretta a carico della Regione nei confronti delle strutture accreditate, essendo destinata ad assumere rilievo esclusivamente sul piano interno dei rapporti finanziari tra la Regione e l’ARAGIONE_SOCIALE (o ARAGIONE_SOCIALE) competente per territorio (vedi in tal senso Cass. ord, n.34287/2023; Cass. n. 38187/2021; Cass. n. 11924/2017).
Orbene, le conclusioni appena riassunte sono state parimenti fatte proprie anche da Cass. n. 25851/2020, chiamata ad esaminare un ricorso omogeneo rispetto alle questioni qui accennate, nel quale, a sostegno del ricorso proposto contro la sentenza di appello che aveva escluso il diritto della struttura privata a pretendere dalla Regione RAGIONE_SOCIALE il pagamento per prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE sulla base di accordo concluso con l’RAGIONE_SOCIALE, era stato sostenuto che il giudice di appello: a) non aveva fatto corretta applicazione della normativa, male interpretando l’art. 1 comma 10° del D.L. n. 324 del 1993, per il quale, nei rapporti con le strutture private convenzionate, si deve considerare debitore inadempiente l’ente incaricato del pagamento del corrispettivo, anziché la RAGIONE_SOCIALE; b) aveva travisato la giurisprudenza di legittimità – Cass. n. 12295/2017 – applicandola erroneamente al caso esaminato, escludendo, in ragione della delega di ogni potere di intervento diretto in materia di assistenza socio-RAGIONE_SOCIALE alle A.S.L., che la Regione avesse compiti diversi da quelli di programmazione, coordinamento e vigilanza, compresa la ripartizione tra le A.S.L. delle risorse economiche; c) aveva sostenuto senza un’adeguata motivazione, oltre che erroneamente, che in tali disposizioni non vi fosse alcun riferimento alle possibili forme di responsabilità della Regione; d) aveva violato le disposizioni regionali di natura finanziaria regolanti l’istituzione e il funzionamento del fondo RAGIONE_SOCIALE in materia socio-RAGIONE_SOCIALE – L.R. n. 69 del 2012, L.R. n. 47 del 2011, L.R. n. 12 del 2015, ritenendo irragionevolmente e senza motivazione che esse non contenessero alcun riferimento a possibili forme di responsabilità della Regione ed avrebbe omesso di leggere la normativa RAGIONE_SOCIALE in parallelo con il D.L. n. 324 del 1993, convertito in L. n. 423 del 1993, così non avvedendosi della ricorrenza dell’obbligo della Regione di pagare il 30% delle prestazioni erogate dalle strutture accreditate.
Nel disattendere le superiori censure sopra sintetizzate la sentenza n.25851/2010 della Corte di Cassazione (nello stesso senso Cass. ord. n.34287/2023) ha ritenuto che dovesse escludersi che l’esecuzione delle prestazioni rese in favore degli assistiti avesse fatto sorgere obbligazioni a carico della Regione. Il fatto che il 30% della tariffa gravasse sul RAGIONE_SOCIALE non poteva comportare una responsabilità diretta a carico della Regione nei confronti delle strutture accreditate, essendo destinato ad assumere rilievo esclusivamente sul piano interno dei rapporti finanziari tra Regione ed ente erogante, escludendo, in assenza di una disposizione di legge comportante un vincolo per l’Ente RAGIONE_SOCIALE di instaurare rapporti con i terzi, ogni obbligo della Regione, rimasta estranea alla concreta gestione dei servizi sociosanitari, di provvedere, sia pure parzialmente, al pagamento delle rette. Più specificamente, è stato ritenuto pacifico che né l’art. 7 della L.R. n. 23 del 2003, riferibile esclusivamente ai rapporti finanziari interni all’area dei servizi socio-sanitari, né l’art. 13 della L.R. n. 24 del 2008, il quale esclude l’efficacia diretta di tali contratti nei confronti della Regione, (Cass. ord. n. 34287/2023; Cass. 31.10.2016, nn. 22037, 22038 e 22039; Cass. 11.11.2016 n. 23067) e tantomeno la Deliberazione n. 685 del 30.7.2002 della Giunta RAGIONE_SOCIALE, siano fonte di instaurazione ex lege da parte della Regione RAGIONE_SOCIALE di rapporti con i terzi (in tal senso, con specifico riferimento alla funzione della Deliberazione della Giunta RAGIONE_SOCIALE vedi Cass. 5.7.2018 n. 17587). Deve essere ribadita, dunque, la conclusione più volte affermata da questa Corte (Cass. ord. n.34287/2023; Cass. 28/02/2019, n. 5982; Cass. 5.7.2018 n.17587; Cass. 12.5.2017 n. 11924) nel senso dell’estraneità della Regione RAGIONE_SOCIALE alla concreta gestione dei servizi socio-sanitari e soprattutto dell’irriferibilità ad essa degli effetti degli atti posti in essere dalle ARAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE. (o A.S.P.), e deve confermarsi in capo alla Regione RAGIONE_SOCIALE solo la competenza riguardante la sfera della
programmazione, del coordinamento e della vigilanza sugli enti operanti nel settore. Si tratta, come pure è stato specificato da questa Corte, di una precisa scelta della Regione RAGIONE_SOCIALE, perché se è vero che “il sistema sanitario nazionale istituito con la L. n.833 del 1978, è stato attuato attraverso il D.Lgs. n. 502 del 1992, che ha “regionalizzato la sanità”, ” le diversità strutturali ed il minore o maggiore accentramento delle competenze devono essere ricercati all’interno delle differenti legislazioni regionali attraverso le quali, tenendo conto delle specifiche caratteristiche territoriali, è stata riorganizzata sia la struttura operativa RAGIONE_SOCIALE locale che l’esercizio delle funzioni amministrative necessarie per il suo funzionamento ” (Cass. ord. n.34287/2023; Cass. n. 17587/2018).
Sulla base di tale diritto vivente e dell’unicità del precedente di segno opposto – Cass. n. 11258 dell’11.6.2020 – tale indirizzo merita di essere condiviso ed allo stesso va data continuità, anche dovendosi evidenziare che, come correttamente ritenuto dalla Corte d’Appello, l’art. 1 comma 10° del D.L. n. 324 del 1993, convertito nella L. n. 423 del 1993, non può avere alcuna valenza nel caso di specie, in relazione alla ratio che fu posta alla base di tale previsione normativa all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del sistema sanitario nazionale di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992, e con specifico riferimento alla titolarità passiva per i debiti contratti dalle RAGIONE_SOCIALE (o ARAGIONE_SOCIALE) nell’ipotesi in cui la Regione abbia delegato ad un unico ente le attività di liquidazione e pagamento delle prestazioni, dato che non vi è alcun elemento di collegamento fra la posizione dell’incaricato al pagamento alla quale si riferisce il citato articolo 1 e la posizione della Regione RAGIONE_SOCIALE, esterna rispetto al soggetto, RAGIONE_SOCIALE . Quest’ultima, nel rispetto della previsione dell’art. 13 comma 2° della L.R. n. 24 del 2008 ha concluso con la struttura privata la convenzione relativa alle prestazioni socio-assistenziali (sulla quale vedi diffusamente Cass. n.13333/2015).
Neppure può indurre a mutare l’indirizzo appena ricordato l’esame delle disposizioni normative invocate dalla ricorrente, concernenti provvedimenti legislativi relativi al riconoscimento di provvidenze finanziarie per debiti pregressi relativi a prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE erogate dalla Regione (art. 41 della L.R. RAGIONE_SOCIALE n.69/2012, art. 9 della L.R. n. 12 del 2015, ed art. 16 comma 6° della L.R. n. 44 del 2016).
Ed invero, ritiene il Collegio che tali misure di ordine finanziario non possano che operare sul piano interno dei rapporti finanziari tra Regione ed enti tenuti alle prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE in forza di precedenti accordi o comunque riferirsi a prestazioni direttamente erogate dalla Regione RAGIONE_SOCIALE, evidentemente diverse da quelle qui in contestazione (vedi in tal senso Cass. ord. n. 34287/2023), trattandosi di prestazioni rese incontestabilmente – per come premesso dalla stessa RAGIONE_SOCIALE – sulla base di accordi stipulati dalla casa di riposo con l’RAGIONE_SOCIALE Ed è appena il caso di evidenziare che proprio in forza della disciplina normativa specificamente introdotta dalla Regione RAGIONE_SOCIALE in tema di servizi sociali integrati, risultano numerosi i soggetti tenuti alla gestione ed erogazione di prestazioni socioRAGIONE_SOCIALE -vedi art. 1 comma 7° della L.R. n. 23 del 2003 – e di tipologia di prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE -vedi articoli 4 e 7 della L.R. RAGIONE_SOCIALE n. 23 del 2003 – non potendosi, dunque, inferire da tale quadro normativo sopravvenuto la volontà legislativa di modificare l’assetto convenzionale dei rapporti in essere, concernenti i servizi socio-assistenziali erogati da case di riposo in base a quanto previsto dalla medesima normativa RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE.
D’altra parte, proprio l’accertata esistenza di un’azione contrattuale della RAGIONE_SOCIALE nei confronti della parte contrattuale –RAGIONE_SOCIALE -è stata correttamente ritenuta ragione idonea ad escludere il profilo censorio in ordine alla prospettata violazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., in ragione dell’esistenza di un
titolo negoziale che la casa di cura può azionare nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE con la quale ha stipulato la convenzione, ciò incidendo, come ritenuto correttamente dal giudice di appello, sulla proponibilità dell’azione di indebito arricchimento in ragione dell’assenza del carattere della sussidiarietà (vedi Cass. sez. un. 5.12.2023 n. 33954; Cass. n.843/2020; Cass. n. 2350/2017).
11) Col quarto motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 345 c.p.c. Si duole la RAGIONE_SOCIALE che la Corte d’Appello abbia ritenuto non rituale la pretesa di pagamento del 50% del compenso per le prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE erogate nel 2013 da lei avanzata nel giudizio di secondo grado, non più sulla base del titolo costitutivo rappresentato dal contratto concluso con la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013, e ritenuto vincolante ex lege anche per la Regione RAGIONE_SOCIALE, ma sulla base del diverso contratto concluso il 15.3.2013 dalla RAGIONE_SOCIALE direttamente con la Regione RAGIONE_SOCIALE. Sostiene la ricorrente che l’impugnata sentenza non avrebbe dovuto considerare nuova e contraria al divieto dell’art. 345 c.p.c., e quindi inammissibile, tale domanda, in quanto era stata la stessa Regione RAGIONE_SOCIALE, con la memoria di costituzione nel giudizio davanti al Tribunale di RAGIONE_SOCIALE (pagina 3 righe 11 e ss), ad aver prodotto il contratto da essa concluso con la RAGIONE_SOCIALE Il 15.3.2013, e ad aver sostenuto che la regolamentazione delle prestazioni afferenti all’anno 2013 sarebbe avvenuta tra le parti sulla base di quel contratto, impugnando poi con specifico motivo di appello la sentenza di primo grado, per non avere questa considerato che, per assicurare il necessario raccordo tra le prestazioni esigibili e la spesa pubblica gravante sul fondo RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, la Regione RAGIONE_SOCIALE aveva sottoscritto anche con la RAGIONE_SOCIALE il menzionato contratto del 15.3.2013, col quale si era impegnata a remunerare
le prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE erogate nei limiti della disponibilità finanziaria di € 15.000.000,00 all’epoca esistente in bilancio.
Il quarto motivo è infondato, in quanto non trattandosi di diritti autodeterminati, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto allegare già nel ricorso ex art. 702 bis c.p.c. il contratto concluso con la Regione RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013 come fondamento della sua pretesa di pagamento del residuo 50% del compenso spettante per le prestazioni socioRAGIONE_SOCIALE erogate nel 2013 presso la casa protetta San Pio e Madonna dell’Immacolata di Corigliano Calabro, che ha invece avanzato sulla base del diverso contratto concluso con la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013, ritenendo che l’obbligazione da esso nascente fosse stata estesa ex lege alla Regione RAGIONE_SOCIALE . Tesi, quest’ultima, che negli anni 2016-2017 è stata ripetutamente smentita da questa Suprema Corte (si rinvia sul punto alla trattazione dei motivi secondo, terzo e sesto del ricorso). Solo dopo che era emersa l’infondatezza in diritto della tesi sostenuta nel ricorso ex art. 702 bis c.p.c. la RAGIONE_SOCIALE, nella comparsa conclusionale del giudizio di appello, in palese violazione dell’art. 345 c.p.c., e con evidente disorientamento della difesa avversaria (che nella sua comparsa conclusionale di secondo grado nulla aveva argomentato sul punto), ha per la prima volta fondato la sua pretesa di pagamento del 50% del compenso dovutole per le prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE del 2013 sul diverso titolo costitutivo rappresentato dal contratto concluso con la Regione RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013, del quale, peraltro, era evidentemente a conoscenza già prima dell’introduzione del procedimento sommario di primo grado. La circostanza che la Regione RAGIONE_SOCIALE avesse prodotto nel giudizio di primo grado il contratto concluso con la RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013, peraltro solo allo scopo di smentire la tesi avversaria che l’obbligazione di pagamento del 50% del compenso sorta dal contratto concluso dalla RAGIONE_SOCIALE con la RAGIONE_SOCIALE l’11.6.2013 si fosse trasmessa ex lege alla Regione RAGIONE_SOCIALE, per essersi quest’ultima unicamente
obbligata ad assicurare la copertura finanziaria delle prestazioni entro i limiti dello stanziamento operato in bilancio alla data del 15.3.2013 di € 15.000.000,00, e che avesse poi riproposto in appello tale sua tesi difensiva a fronte dell’accoglimento in primo grado della domanda avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE, non significa che il contratto concluso dalla Regione RAGIONE_SOCIALE con la RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013 fosse stato individuato dalla pretesa creditrice come causa petendi alternativa a quella fatta valere nel ricorso ex art. 702 bis c.p.c.
12) Col quinto motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 115 c.p.c., degli articoli 1362 e 1363 cod. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. La Corte d’Appello, nel pronunciarsi comunque per il rigetto della pretesa della RAGIONE_SOCIALE di pagamento del 50% del compenso per le prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE basata sul contratto concluso dalla RAGIONE_SOCIALE con la Regione RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013, avrebbe violato il principio di non contestazione, in quanto la stessa Regione RAGIONE_SOCIALE, a pagina 3 rigo 11 della memoria di costituzione in primo grado, aveva sostenuto che tale contratto si riferiva alle prestazioni erogate nel 2013 e non nel 2014, come erroneamente indicato nell’impugnata sentenza. Aggiunge la ricorrente che la Corte d’Appello non si sarebbe conformata ai canoni dell’interpretazione letterale (non tenendo conto del 2°, 3° e 4° periodo della premessa del contratto e della clausola c del contratto, che chiaramente si riferivano anche al fabbisogno finanziario per le prestazioni del 2013) e della comune intenzione delle parti, e non avrebbe considerato il comportamento anteriore e successivo al contratto del 15.3.2013 della Regione RAGIONE_SOCIALE, che col decreto dirigenziale n. 1148 del 30.1.2013, tenendo conto dell’obbligo al contributo retta in favore delle strutture socioRAGIONE_SOCIALE accreditate di cui al D.P.G.R. n.1/2011 con riferimento alle prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE relative all’anno 2013, aveva assunto l’obbligo di stanziare sull’apposito capitolo di bilancio
€15.000.000,00, ed aveva poi provveduto il 22.5.2013 al versamento in acconto di €385.383,40 a favore della RAGIONE_SOCIALE per le prestazioni rese nel 2013, ed il 13.2.2014 ad inviarle la nota prot. n. 51300 del 13.2.2014, con la quale aveva invitato la RAGIONE_SOCIALE a trasmetterle apposita asseverazione in ordine alla contabilità predisposta per il pagamento delle prestazioni rese nel 2013, con l’impegno, una volta acquisita la documentazione, da parte del competente Settore, previa verifica amministrativo-contabile, all’immediata liquidazione delle competenze. Da ultimo la ricorrente sostiene che, per il principio di vicinanza alla prova, la Regione RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto fornire la prova, solo a lei accessibile, dell’esaurimento degli stanziamenti di bilancio effettuati per il pagamento delle prestazioni socio-RAGIONE_SOCIALE del 2013 e, quindi, del mancato verificarsi della condizione posta al pagamento del residuo 50% del compenso spettante alla RAGIONE_SOCIALE
Il quinto motivo è inammissibile, in quanto l’impugnata sentenza ha riformato la decisione di primo grado respingendo la pretesa avanzata in secondo grado dalla RAGIONE_SOCIALE sulla base del contratto concluso con la Regione RAGIONE_SOCIALE il 15.3.2013 con una duplice ratio decidendi, sia per contrarietà al divieto di domande nuove in appello dell’art. 345 c.p.c., sia per infondatezza (vedi sulla sussistenza della doppia ratio decidendi in rito ed in merito quando sia compatibile col dispositivo adottato ed entrambe le rationes decidendi siano compiutamente motivate Cass. n. 28364/2022; Cass. n. 7995/2022). Pertanto, una volta respinto il quarto motivo di appello, che era volto ad ottenere il riconoscimento dell’insussistenza della ritenuta violazione dell’art. 345 c.p.c., viene a mancare l’interesse della RAGIONE_SOCIALE ad ottenere una pronuncia sul merito della domanda in esame, ormai preclusa in rito.
La giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, infatti, ha stabilito che ove la motivazione di un capo della sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna
delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto (nella specie sia la decisione in rito che quella in merito sono compatibili col dispositivo adottato), l’omessa o infruttuosa impugnazione di una di esse, rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua , della sentenza (Cass. n. 26801/2023; Cass. n.4355/2023; Cass. n. 4738/2022; Cass. n.22697/2021; Cass. sez. un. n.10012/2021; Cass. n. 3194/2021; Cass. n.15075/2018; Cass. n.18641/2017; Cass. n. 15350/2017).
13) Col settimo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione degli art. 345, 352, 189, 153 comma 2° e 294 c.p.c. e dell’art. 24 della Costituzione. La Corte d’Appello, accogliendo la domanda di restituzione delle somme versate alla RAGIONE_SOCIALE ed ai suoi difensori in adempimento dell’ordinanza di primo grado, avrebbe ritenuto erroneamente ammissibile la domanda in sede di precisazione delle conclusioni e la produzione documentale avvenuta nella stessa sede, nonché al momento del deposito delle note conclusionali. La Corte d’Appello, in particolare, non avrebbe considerato che incombeva sulla parte richiedente l’onere di provare che il pagamento fosse avvenuto in epoca successiva alla proposizione dell’appello, non potendo valere la generica allegazione operata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE nel foglio di precisazione delle conclusioni ed al momento del deposito delle note conclusionali. Il giudice di appello avrebbe poi errato nel considerare ritualmente prodotti i documenti indicati genericamente nel foglio di precisazione delle conclusioni e nelle note conclusionali (ordinanze di assegnazione).
14) Con l’ottavo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 della Costituzione, degli articoli 112 e 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., per assenza di motivazione
laddove era stato ritenuto apoditticamente l’intervenuto pagamento delle somme in favore della RAGIONE_SOCIALE e dei legali distrattari sulla base della documentazione versata.
15) Col nono motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 cod. civ., 2729 cod. civ, 553 c.p.c. e 2928 cod. civ.. Si duole la RAGIONE_SOCIALESRAGIONE_SOCIALEBRAGIONE_SOCIALE che la Corte d’Appello, nell’affermare a pagina 21 ” l’insussistenza di qualsivoglia elemento di prova che conduca a ritenere che essi (ordinanze di assegnazione rese dal giudice nell’ambito di procedimento di pignoramento presso terzi) non siano giunti a buon fine “, abbia di fatto posto a carico della RAGIONE_SOCIALE l’onere di provare che le ordinanze di assegnazione non fossero andate a buon fine, così violando l’art. 2697 cod. civ., posto che era invece la Regione RAGIONE_SOCIALE a dover provare l’effettuazione dei pagamenti dei quali chiedeva la restituzione, e che pur in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti ex art. 2729 cod. civ. abbia presunto puramente e semplicemente dall’emissione delle ordinanze di assegnazione a seguito di pignoramento presso terzi, equiparabili ad ordini giudiziali di pagamento, la prova che tali pagamenti fossero realmente avvenuti senza compiere una preventiva valutazione separata della precisione e gravità degli indizi per poi accertarne la concordanza (in tal senso si invoca Cass. 2.11.2017 n. 26061). Si duole ulteriormente la ricorrente che l’impugnata sentenza abbia violato l’art. 553 c.p.c. attribuendo all’ordinanza di assegnazione un’efficacia immediatamente satisfattiva, mentre essa si limitava a sostituire il creditore assegnatario al debitore nella titolarità del credito verso il terzo pignorato, e l’art. 2928 cod. civ., secondo il quale se oggetto dell’assegnazione è un credito, il diritto dell’assegnatario verso il debitore che ha subito l’esecuzione si estingue solo con l’effettiva riscossione del credito (in tal senso si invoca Cass. ord. 27.7.2017 n. 18719).
16) Col decimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma primo n.4) c.p.c., la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato i legali distrattari della ricorrente, avvocati NOME e NOME COGNOME, alla restituzione delle spese distratte in loro favore in quanto non qualificabili come parti del procedimento. La decisione impugnata avrebbe errato nell’esaminare la domanda di restituzione delle spese distratte senza la presenza dei difensori come parti del processo, visto che il presupposto della domanda di restituzione concerneva l’avvenuto versamento delle somme a favore dei difensori e sullo stesso non sarebbe stato possibile provvedere in assenza degli stessi, altrimenti privandoli del diritto di interloquire sull’effettivo pagamento totale o parziale delle stesse sulle prove prodotte dalla parte soccombente in primo grado e sul diritto ad impugnare la statuizione sfavorevole sul punto eventualmente adottata dal giudice di appello.
17) Il settimo, ottavo, nono e decimo motivo del ricorso vanno esaminati congiuntamente, in quanto tutti relativi alle domande di restituzione delle somme asseritamente pagate in esecuzione dell’ordinanza conclusiva del giudizio di primo grado poi riformata in appello, avanzate dalla Regione RAGIONE_SOCIALE nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e dei suoi legali distrattari.
Va premesso che le sezioni unite di questa Corte con la sentenza del 13.6.1989 n. 2841 hanno ritenuto che l’azione di restituzione di somme pagate in base alla sentenza d’appello poi annullata (e più in generale l’azione di restituzione o riduzione in pristino che in relazione alle “prestazioni eseguite” venga proposta, a norma dell’art. 389 cod. proc. civ., dalla parte vittoriosa nel giudizio di cassazione) non è riconducibile nello schema della condictio indebiti , perché si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza. Analoga natura giuridica è stata riconosciuta alla richiesta di restituzione
delle somme, corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata. Ne consegue che il presupposto di tale domanda di restituzione è dato dall’avvenuta corresponsione delle somme, in esecuzione della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, mentre la natura è quella ripristinatoria della situazione anteatta. Ciò comporta che tale richiesta deve essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di appello, se proposto successivamente all’esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione. Resta in ogni caso inammissibile la domanda di restituzione proposta con la comparsa conclusionale in appello, atteso che tale comparsa ha carattere meramente illustrativo di domande già proposte, non rilevando in contrario che l’esecuzione della sentenza sia successiva all’udienza di conclusioni ed anteriore alla scadenza del termine per il deposito delle comparse (Cass. ord. 5.2.2024 n. 3187; Cass. 3.8.2004 n. 14816; Cass. 8.8.2002 n. 12011).
Orbene, nel caso di specie risulta dalla sentenza impugnata che la domanda di restituzione azionata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE venne proposta in sede di precisazione delle conclusioni sulla base di pagamenti successivi all’appello e sotto questo profilo va esclusa, alla luce della giurisprudenza appena ricordata, la tardività della stessa.
Quanto alla domanda di restituzione nei confronti dei legali distrattari, l’istanza di distrazione delle spese processuali consiste nel sollecitare l’esercizio del potere/dovere del giudice di sostituire un soggetto (il difensore) ad altro (la parte) nella legittimazione a ricevere dal soccombente il pagamento delle spese processuali e non introduce, dunque, una nuova domanda nel giudizio, perché non ha fondamento in un rapporto di diritto sostanziale connesso a
quello da cui trae origine la domanda principale; ne consegue da un lato che non sono applicabili le norme processuali sui rapporti dipendenti e che l’impugnazione della sentenza non deve essere rivolta anche contro il difensore distrattario, benché il capo della sentenza reso sull’istanza di distrazione sia destinato a cadere nello stesso modo in cui cade quello sulle spese reso nell’ambito dell’unico rapporto processuale, dall’altro che il difensore distrattario subisce legittimamente gli effetti della sentenza di appello di condanna alla restituzione delle somme già percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, benché non evocato personalmente in giudizio (vedi in tal senso Cass. ord. 5.2.2024 n.3187; Cass. 25.10.2017 n. 25247; Cass. n.9062/2010). La sentenza n. 9062/2010 della Suprema Corte ha, poi, dato atto che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che il difensore distrattario assume la qualità di parte, sia attivamente che passivamente, esclusivamente quando sorga controversia sulla distrazione e cioè quando la sentenza impugnata non abbia pronunciato sull’istanza di distrazione o l’abbia respinta, o quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione (vedi nello steso senso Cass. n. 12104/2003; Cass. n. 3624/2001; Cass. n.3356/1999; Cass. n. 5664/1998). In base a tale indirizzo, dunque, il legale distrattario è parte limitatamente al capo di pronuncia con il quale gli sono state attribuite le spese ed alle censure che tale capo specificamente e direttamente investono, ed è dunque legittimato a partecipare in proprio al giudizio d’impugnazione soltanto se, con questo, sia investito il capo di pronuncia concernente la distrazione e nei limiti ed ai fini di tale censura.
Orbene, la Corte d’Appello si è pienamente conformata ai principi sopra succintamente ricordati e ben poteva pronunciarsi sulla domanda di restituzione avanzata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei legali distrattari della RAGIONE_SOCIALE, ancorché gli stessi non
fossero stati convenuti in giudizio personalmente in appello, in quanto non vi era contestazione sulla disposta distrazione delle spese processuali di primo grado.
I motivi in esame sono invece fondati nella parte in cui censurano l’impugnata sentenza per motivazione apparente, per inversione dell’onere probatorio e per violazione dell’art. 2729 cod. civ. nella parte in cui richiede che le presunzioni siano basate su indizi gravi, precisi e concordanti.
La Corte d’Appello, infatti, al capoverso di pagina 21 ha ritenuto sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda di restituzione delle somme versate avanzata dalla Regione RAGIONE_SOCIALE all’udienza di precisazione delle conclusioni nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e dei legali distrattari della stessa nel giudizio di primo grado ‘ la documentazione versata in atti al momento del deposito delle note conclusionali avuto riguardo alla natura dei provvedimenti esecutivi ed all’insussistenza di qualsivoglia elemento di prova che conduca a ritenere che essi (ordinanze di assegnazione rese dal giudice nell’ambito di procedimento di pignoramento presso terzi) non siano giunti a buon fine’.
La suddetta motivazione assolutamente lacunosa, è meramente apparente, in quanto non consente di comprendere quali siano i documenti specifici presi in considerazione per la RAGIONE_SOCIALE e per gli avvocati NOME e NOME COGNOME, a quando risalgano, se siano riferibili all’esecuzione dell’ordinanza conclusiva del giudizio di primo grado, se siano stati prodotti dalla Regione RAGIONE_SOCIALE soltanto con le note conclusionali di appello e quindi tardivamente, o in sede di precisazione delle conclusioni in appello. A ciò va aggiunto che le ordinanze di assegnazione dei crediti emesse a conclusione dei procedimenti di pignoramento presso terzi determinano solo la sostituzione del creditore procedente al debitore esecutato nella titolarità del credito, ma di per sé non offrono alcuna prova del
pagamento del credito a favore del creditore procedente, tanto che l’art. 2928 cod. civ. specifica che il diritto dell’assegnatario verso il debitore che ha subito l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato, per cui le ordinanze di assegnazione non possono di per sé costituire prove di pagamento delle somme assegnate, ma al più semplici indizi, che solo insieme ad altri indizi gravi e precisi che depongano concordemente nel senso del sopravvenuto pagamento possono dare dimostrazione di quest’ultimo, mentre nella specie la Corte d’Appello ha valorizzato a tal fine solo il fatto che le controparti, che non erano però gravate dall’onere della prova dei pagamenti dei quali la Regione RAGIONE_SOCIALE chiedeva la restituzione, non avessero fornito elementi di prova per dimostrare che le ordinanze di assegnazione non fossero giunte a buon fine, per di più non considerando la tardività della produzione delle ordinanze di assegnazione, ostativa all’esercizio del diritto di difesa della RAGIONE_SOCIALE e dei suoi legali distrattari del giudizio di primo grado.
In relazione ai motivi accolti, pertanto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie nei termini di cui in motivazione il settimo, ottavo, nono e decimo motivo del ricorso, dichiara inammissibili il primo, secondo, terzo, quinto e sesto motivo di ricorso, ed infondato il quarto, cassa l’impugnata sentenza e rinvia alla Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE in diversa composizione, che provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso nella camera di consiglio del 5.3.2024