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Responsabilità in cantiere: la condotta della vittima

La Cassazione conferma la condanna di un’impresa edile per un infortunio, chiarendo i limiti della responsabilità in cantiere. Il ricorso dell’impresa è stato respinto per vizi formali e per la mancata riproposizione di domande in appello, ritenendo irrilevante la presunta condotta imprudente della vittima non provata correttamente nei gradi di merito.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Responsabilità in cantiere: quando la condotta della vittima non basta

L’ordinanza n. 6774/2024 della Corte di Cassazione offre importanti spunti sulla responsabilità in cantiere in caso di incidenti, analizzando i limiti entro cui la condotta del danneggiato può incidere sul diritto al risarcimento. Il caso riguarda un infortunio avvenuto in un cantiere edile, dove un soggetto è stato colpito alla testa da un mattone caduto dall’alto.

I fatti di causa

Un privato conveniva in giudizio un’impresa di costruzioni, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un incidente verificatosi all’interno di un cantiere della società. La vittima sosteneva di essere stata colpita da una pietra precipitata dall’alto. L’impresa si costituiva in giudizio negando la propria responsabilità e chiamando in causa sia il proprio dipendente, presunto autore materiale della caduta dell’oggetto, sia la propria compagnia di assicurazioni.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda. Successivamente, la Corte d’Appello ribaltava la decisione, condannando l’impresa e il suo dipendente in solido al risarcimento del danno, quantificato in oltre 18.000 euro. Secondo i giudici di secondo grado, era stata provata la dinamica dell’incidente e la negligenza del dipendente, configurando un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c.

L’analisi del ricorso e la responsabilità in cantiere

L’impresa edile proponeva ricorso per Cassazione, affidandosi a quattro motivi principali. I primi due motivi, strettamente connessi, lamentavano che la Corte d’Appello non avesse considerato la condotta della vittima, la quale si trovava presumibilmente sul luogo di lavoro senza autorizzazione. Tale comportamento, secondo la ricorrente, avrebbe interrotto il nesso di causalità o, in subordine, configurato una cooperazione colposa, riducendo l’entità del risarcimento.

Un terzo motivo denunciava il vizio di ultrapetizione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse liquidato un danno superiore a quello richiesto dalla vittima. Infine, il quarto motivo contestava la decisione di considerare abbandonata la domanda di manleva nei confronti della compagnia assicuratrice.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in toto, dichiarando inammissibili o infondati tutti i motivi.

Per quanto riguarda i primi due motivi sulla condotta della vittima, la Corte ha rilevato una grave carenza nella formulazione del ricorso. L’impresa, infatti, non aveva rispettato il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, rendendo impossibile per la Suprema Corte verificare se e come tali difese fossero state proposte e discusse nei precedenti gradi di giudizio. La Cassazione ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare il merito dei fatti, ma di controllare la corretta applicazione della legge. Pertanto, le censure sono state ritenute un tentativo inammissibile di ottenere una nuova valutazione delle prove.

Anche il motivo sull’ultrapetizione è stato dichiarato inammissibile. La società ricorrente non aveva allegato al ricorso l’atto di appello della controparte, impedendo alla Corte di verificare quale fosse l’effettiva domanda risarcitoria. Inoltre, la Corte ha sottolineato che la somma liquidata comprendeva anche la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi, calcolati dalla data del fatto a quella della liquidazione, il che poteva giustificare la differenza di importo.

Infine, riguardo alla domanda di manleva, la Cassazione ha ritenuto il motivo infondato. Richiamando un consolidato orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 11799/2017), ha chiarito che quando una domanda (in questo caso, quella di manleva) non viene esaminata in primo grado perché assorbita dal rigetto della domanda principale, la parte interessata ha l’onere di riproporla espressamente in appello. In assenza di una specifica riproposizione, la domanda si intende rinunciata e non può essere fatta valere in Cassazione.

Le conclusioni

Questa ordinanza ribadisce due principi fondamentali in materia processuale e di merito. In primo luogo, sottolinea l’importanza di una corretta formulazione del ricorso per Cassazione, che deve essere autosufficiente e non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sui fatti. In secondo luogo, conferma la regola secondo cui le domande non esaminate per assorbimento devono essere esplicitamente riproposte in appello, pena il loro definitivo abbandono. Per quanto riguarda la responsabilità in cantiere, emerge che le difese basate sulla condotta colposa della vittima devono essere allegate e provate con precisione nei gradi di merito per poter essere prese in considerazione.

Quando una domanda accessoria, come quella di manleva, si considera abbandonata in appello?
Secondo la Corte, richiamando le Sezioni Unite, se la domanda non è stata esaminata in primo grado perché la domanda principale è stata rigettata, la parte ha l’onere di riproporla esplicitamente nell’atto di appello. Se non lo fa, la domanda si considera a tutti gli effetti rinunciata.

La condotta imprudente della vittima di un incidente in cantiere esclude automaticamente il risarcimento?
No, non automaticamente. Dalla decisione emerge che tale circostanza deve essere specificamente sollevata e provata dalla parte convenuta (l’impresa) nei giudizi di merito (primo grado e appello). Non è possibile lamentare la mancata valutazione di tale condotta per la prima volta in Cassazione, soprattutto se il ricorso è formulato in modo generico.

Perché un motivo di ricorso per ultrapetizione può essere dichiarato inammissibile?
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo perché la società ricorrente non ha fornito alla Corte gli elementi necessari per la valutazione, omettendo di allegare e trascrivere il contenuto dell’atto di appello della controparte. Senza poter verificare la domanda originaria, la Corte non può stabilire se il giudice abbia effettivamente pronunciato oltre i limiti della richiesta.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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