Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 18740 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 18740 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/07/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11994/2023 R.G. proposto da: COGNOME elettivamente domiciliato in venezia – mestre INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
CONSIGLIO NOTARILE DEL DISTRETTO DI COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente nonché ricorrente incidentale- nonché contro
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE
-intimata- avverso la DECRETO di CORTE D’APPELLO FIRENZE n. 798/2022 depositata il 11/04/2023, e a ll’esito dell’adunanza camerale partecipata del 12/06/2025.
FATTI DI CAUSA
Su iniziativa del Consiglio notarile del distretto di Lucca, il notaio NOME COGNOME fu sanzionato con la sospensione dall’attività per mesi quattro dalla Commissione regionale di disciplina della Toscana (Co.Re.Di.), limitatamente (tra altri contestati e per i quali era assolto) ai seguenti illeciti disciplinari (così, secondo l’originario ordine di rubricazione): a ) aver redatto atti di conferma ai sensi degli artt. 40 legge n. 47/85 e 46 T.U. Edilizia al di fuori dei relativi presupposti, percependone il corrispettivo, in violazione dell’art. 147, primo comma, lett. a ) e b ) legge notarile; b ) aver ricevuto in deposito mediante atto pubblico dei pareri pro veritate recanti il riconoscimento di titoli nobiliari, allo scopo dell’uso legale del titolo stesso e della sua trasmissibilità agli eredi, in violazione dell’art. 28 legge notarile; d ) aver ricevuto, in relazione a 51 scritture private autenticate di affitto o cessione di azienda per posti mercato, corrispettivi assenti o minimi, in quanto inferiori alle quote di contribuzione previdenziale obbligatoria, in violazione dell’art. 147, primo comma, lett. a ) legge notarile.
Il reclamo proposto dal notaio era parzialmente accolto dalla Corte d’appello di Firenze, che con decreto n. 313 dell’11.4.2023, escluso l’illecito sub capo a ) dell’incolpazione , riduceva la sospensione a due mesi.
Osservava la Corte distrettuale, quanto al capo a ), che il numero esiguo di atti di conferma in relazione all’attività svolta e
alle incertezze normative e giurisprudenziali anteriori sia all’apposito studio del Consiglio nazionale del Notariato sia alla sentenza delle S.U. n. 8230/19, e l’assenza di consequenzialità tra il tipo di atti, la mancata informazione e la richiesta di esborsi non concordati, potevano fondare un giudizio, al più, di eccessiva e superficiale attività, ma non di lesione del prestigio e del decoro della professione.
In ordine alla contestazione di cui al capo b ), la Corte fiorentina riteneva che la certificazione rilasciata, attestante ‘il diritto all’uso legale per sé ed i suoi all’infinito…’ del titolo nobiliare, certificava il contrario di quanto disposto dalla XIV disp. trans. della Costituzione (in base alla quale i titoli nobiliari non sono riconosciuti e i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome), potendo, così, creare in una platea indistinta di persone affidamento sulla bontà della certificazione stessa. Né l’impiego del titolo nobiliare poteva confondersi con la cognomizzazione, trattandosi di concetti diversi anche a stregua della predetta disposizione costituzionale.
Del pari sussistente l’illecito disciplinare sub capo d ). In difetto sia delle ragioni per cui le scritture private fossero stati autenticate gratuitamente o quasi, senza recupero neppure delle spese vive e beneficiando una platea di clienti disomogenea, sia di un’allegata minima rilevanza quantitativa dell’attività contestata, la quale, pertanto, doveva ritenersi corrispondere a quella totale della corrispondente tipologia di atti, dovevano ritenersi integrati i requisiti di non occasionalità della violazione e di compromissione del decoro della professione.
Avverso detta pronuncia il notaio NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Vi resiste con controricorso il Consiglio notarile del distretto di Lucca, che propone, altresì ricorso incidentale sulla base di un mezzo d’annullamento.
Il ricorrente ha depositato controricorso al ricorso incidentale.
Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte.
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
La Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Il primo motivo del ricorso principale lamenta, in relazione al n. 4 e, ‘in subordine’, al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., la violazione degli artt. 132 e 135 c.p.c. e 147, lett. a ) legge notarile, per essere la motivazione del provvedimento impugnato apparente e, comunque, apodittica.
Con riguardo all’illecito disciplinare di cui al capo b ), parte ricorrente sostiene che la motivazione del provvedimento impugnato non dà conto delle specifiche certificazioni ritenute illegittime. Queste, al netto di quelle coperte dalla prescrizione dell’illecito disciplinare, sono soltanto due distinte dai nn. rep. 6963 e 8570 -di cui, però, non v’è espressa menzione ad opera della Corte d’appello.
Oltre a ciò -prosegue parte ricorrente -l’affermazione, contenuta nel decreto impugnato, secondo cui sarebbe «assolutamente incontestabile che la dizione usata afferma il contrario cioè la validità legale del titolo nobiliare e ciò a fronte di una platea indistinta, la quale ben può fare affidamento sulla bontà della certificazione», avrebbe un carattere autoreferenziale e apodittico, così da risultare solo apparente. Per contro, le certificazioni contestate dichiarano non già che il titolo nobiliare sia valido, ma solo che la persona ha diritto a farne l’uso legale, per tale dovendosi intendere qualsiasi uso non vietato dalla legge.
Infine, a fugare ogni dubbio circa la presunta contrarietà delle due certificazioni alla XIV disp. trans. Cost., deporrebbe la circostanza che con il primo ed il secondo comma di detta norma -in base ai quali, rispettivamente, ( i ) i titoli nobiliari non sono
riconosciuti e ( ii ) i predicati nobiliari esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome -il Costituente si è limitato a sancire il ‘non riconoscimento’, ma non certo la loro abolizione. Irrilevanza o disconoscimento escludono l’attribuzione del pregresso status giuridico (in termini di diritti, prerogative e privilegi di varia natura), ma non impediscono il diritto all’uso dei titoli stessi nei modi e nelle forme consentite dal vigente ordinamento repubblicano, tra cui, appunto, il diritto di aggiungere il predicato nobiliare al nome (c.d. cognomizzazione), come affermato dai precedenti di legittimità nn. 2361/78, 2426/91 e 10936/97.
Quest’ultimo non sarebbe che uno dei molteplici usi legittimi del titolo nobiliare. Altri usi, ad esempio, sarebbero possibili -sostiene parte ricorrente -nell’ambito della libertà associativa o dell’esercizio di attività lavorative o ludiche, sicché certificare il solo diritto all’uso legale del titolo non contrast erebbe con la XIV disp. trans. Cost.
1.1. – Il motivo è infondato in ciascuna delle censure che articola.
1.2. – Con riguardo alla preliminare deduzione di nullità del provvedimento impugnato, va osservato che la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, bensì un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (cfr. n. 920/15). In altri termini, la motivazione del provvedimento giurisdizionale non soggiace, a differenza dei motivi di ricorso, al rispetto della c.d. autosufficienza o, se si preferisce, del requisito di specificità, sicché non è indispensabile che essa consenta di localizzare, in atti, il fatto
processuale o sostanziale oggetto di decisione. Ciò che presidia la validità dell’atto è l’esplicitazione della ratio decidendi (cfr. S.U. n. 319/99), purché inerente al thema decidendum e rispettosa del c.d. minimo costituzionale (sulla cui nozione, v. S.U. n. 8053/14 e le successive, tutte conformi).
Oltre a ciò, resta fermo che il principio della strumentalità della forma, per cui la nullità non può essere dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156, comma 3, c.p.c.), è applicabile anche alla sentenza e non solo agli atti di parte (come si desume dalla sentenza n. 22845/10) e si verifica quando si avvera l’evento successivo cui l’atto è preordinato, ossia quel comportamento che rappresenta l’attuazione dell’obbligo, l’adempimento dell’onere o l’esercizio del potere, la cui concretizzazione era prevista quale effetto dell’atto viziato (v. nn. 6678/17 e 17501/02).
1.2.1. – Nella specie, la ratio decidendi relativa all’incolpazione sub capo b ) è esplicita e tutt’altro che apodittica, siccome chiaramente correlata, nella sua componente assertiva, al contenuto delle certificazioni richiamate nel motivo.
Si legge, infatti, a pag. 10 della pronuncia della Corte d’appello fiorentina che «(i)l fatto materiale è la certificazione rilasciata avente ad oggetto ‘ ha il diritto all’uso legale per sé ed i suoi all’infinito… ‘, del titolo nobiliare. Se certo non si può attribuire valore giuridico a qualcosa che non lo ha e pacificamente i titoli nobiliari nel nostro ordinamento repubblicano non lo hanno, tuttavia è assolutamente incontestabile che la dizione usata afferma il contrario cioè la validità legale del titolo nobiliare e ciò a fronte di una platea indistinta, la quale ben può fare affidamento sulla bontà della certificazione. Né certamente è da confondersi la cognomizzazione con l’utilizzazione del titolo nobiliare, concetti affatto diversi e che riposano appunto sulla distinzione di principi costituzionali che governano la Repubblica».
Pertanto, è del tutto evidente che (al netto dell’uso erroneo della congiunzione avversativa ‘tuttavia’, inserita tra la protasi e l’apodosi, che compongono il secondo periodo sopra riportato) la Corte d’appello abbia espressamente fondato la propria decisione sul fatto che la certificazione del diritto di usare un titolo nobiliare sia incompatibile con la XIV disp. trans. Cost.
1.2.2. – Non solo, ma la stessa impugnazione per cassazione del decreto della Corte d’appello anche ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ed in base ad un’interpretazione alternativa della XIV disp. trans. Cost., denota il raggiungimento dello scopo, ex art. 156, ult. comma, c.p.c., con il che è ulteriormente confutata la pretesa invalidità del decreto emesso dalla Corte d’appello.
1.3. – La più volte richiamata XIV disp. trans. Cost. -e si passa, così, ad esaminare le restanti censure del primo motivo di ricorso -recita: I titoli nobiliari non sono riconosciuti (primo comma). I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, valgono come parte del nome (secondo comma). L’Ordine mauriziano è conservato come ente ospedaliero e funziona nei modi stabiliti dalla legge (terzo comma). La legge regola la soppressione della Consulta araldica (quarto comma).
La tesi di parte ricorrente, intesa a sostenere che il non riconoscimento di cui al primo comma attenga al solo status nobiliare, e che il secondo comma, consentendo la c.d. cognomizzazione del predicato, dimostri la possibilità di altri e diversi usi legali del titolo, propone un’interpretazione controletterale della norma, contrastante con il relativo iter di formazione parlamentare e con la pertinente giurisprudenza costituzionale.
Controletterale e contrastante con la ratio , perché l’espresso non riconoscimento non autorizza a trarre l’illazione pretesa, che porrebbe il primo e il secondo comma in contraddizione tra loro. Composto di poteri, diritti e obblighi, lo status, una volta negato,
non lascia residuare altro che non sia normativamente previsto. Il non riconoscimento da parte della Costituzione costituisce un rifiuto radicale e originario dei titoli nobiliari (siccome incompatibile con la forma repubblicana), non un’ abolitio , di cui sia lecito discutere gli effetti. Il secondo comma della disposizione, lungi dal confermare l’esistenza di usi legittimi altri , dimostra l’esatto contrario, ossia che oggetto immediato di protezione non è il titolo, ma il nome, di cui nessuno può essere orbato. Tra i due commi della XIV disp. trans. Cost. non intercede neppure un rapporto di regola a eccezione: lì dove il primo comma nega riconoscimento al titolo , il secondo comma attribuisce il rilievo anzi detto al solo suo predicato , il quale restituisce del primo solo la parte indicante un toponimo.
E infatti, questa Corte ha avuto modo di affermare, al riguardo, che i predicati di titoli nobiliari (purché “esistenti” prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e, in quanto costituenti veri e propri elementi di individuazione e di identità della persona, a queste condizioni “cognomizzati”) fanno parte del nome, e, soltanto come “parte” (il cognome appunto) di esso “valgono” (sono cioè validi ed efficaci) nell’ordinamento. Tale “incorporazione” del predicato di titolo nobiliare “cognomizzato” nel nome, essendo stata costituzionalmente sancita (anche, ma soprattutto) in ossequio al principio di eguaglianza, comporta d’altro canto, che il predicato medesimo, nell’ordinamento giuridico italiano, non può “valere di più”, in quanto tale, di quel che “valgono” le “ordinarie” parti del nome e, più specificamente, del cognome “ordinario” (art. 6, comma secondo cod. civ.); e ciò in quanto, altrimenti opinando, resterebbe frustrata la equilibrata ratio emergente dal combinato disposto del comma primo e secondo della XIV disp. trans. Cost.: da un lato, l’abolizione giuridica – mediante il “non riconoscimento” dei titoli nobiliari -di privilegi derivanti dalla nascita o
dall’appartenenza ad una determinata classe sociale; dall’altro, la riaffermazione del valore del “nome” come fondamentale diritto inerente alla identità della persona in quanto tale, con la conseguente assimilazione, quanto a “valore” giuridico, del predicato di titolo nobiliare “cognomizzato” al nome, e, quindi, di entrambi sul piano della tutela giurisdizionale (così, la sentenza n. 10936/97, la quale da tale premessa ha tratto che è infondata la tesi secondo la quale, allorquando oggetto di tutela ex art. 7 cod. civ. sia un nome comprensivo di predicato di titolo nobiliare “cognomizzato”, siffatta circostanza inciderebbe sulla valutazione della sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela inibitoria, nel senso che essi – e cioè uso indebito e pregiudizio sarebbero, per così dire, automaticamente presenti nell’usurpazione del “predicato”, a causa della particolare forza individualizzante dello stesso rispetto agli “ordinari” cognomi).
Tale esegesi trova riscontro nei lavori della seduta pomeridiana del 5 dicembre 1947 dell’Assemblea Costituente, da cui si ricava che, in allora, quasi unanime fu l’intento di escludere qualsivoglia valore ai titoli nobiliari, al di fuori dell’uso del predicato come parte del nome, in conformità e a somiglianza di quanto disposto da altre Carte costituzionali europee. Tant’è che, a parte gli emendamenti COGNOME e COGNOME (entrambi volti a sopprimere la disposizione, ma per ragioni diametralmente opposte), si discusse solo di una migliore formulazione del primo comma (v. emendamento subordinato Nobile) e del fatto che l’Ordine mauriziano potesse godere di autonomia, statutaria e di amministrazione, soggetta all’approvazione del Presidente della Repubblica italiana (v. emendamento Giua).
Infine, la Corte costituzionale, già con la nota sentenza n. 101 del 1967, osservò che « il divieto di riconoscimento dei titoli nobiliari non attiene solo all’attività giudiziaria o amministrativa necessaria, come accadeva nel precedente ordinamento, per
l’accertamento ed il conseguente legittimo uso di un titolo già di per sé esistente (e ciò conferma che dalla diversa terminologia usata nel primo e nel secondo comma non può trarsi argomento favorevole alla tesi sostenuta dalle parti private), ma comporta che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza: in una parola, essi restano fuori del mondo giuridico. Da questa premessa, che nessuno contesta, inevitabilmente discende che l’ordinamento non può contenere norme che impongano ai pubblici poteri di dirimere controversie intorno a pretese alle quali la Costituzione disconosce ogni carattere di giuridicità. E perciò, una volta attribuiti al primo comma quel contenuto e queste conseguenze, è certo da escludere che il secondo possa essere interpretato in un senso che con l’uno e con le altre sarebbe in contrasto. Ciò accadrebbe ove si accogliesse la tesi che, al fine della cognomizzazione, il giudice debba accertare l’esistenza del titolo in capo a questo o a quel soggetto, valutarne le vicende alla stregua delle regole proprie del regime successorio nobiliare e dare piena applicazione alla legislazione araldica fino al punto – secondo la teoria che appare più coerente con le promesse – da potersi pronunziare solo previo contraddittorio dell’interessato con l’ufficio araldico (legislativamente definito come rappresentante della regia prerogativa) e con provvedimento destinato ad essere iscritto negli appositi libri nobiliari. Né importa che l’accertamento andrebbe compiuto non in funzione del legittimo uso del titolo, ma come strumentale rispetto al diverso diritto relativo all’aggiunta del predicato al nome; ed infatti, nonostante questa finalità, il titolo costituirebbe pur sempre oggetto di un diritto e di una vera e propria tutela giuridica, laddove l’uno e l’altra sono perentoriamente esclusi dal principio enunciato nel primo comma. Tale irrilevanza giuridica dei titoli nobiliari impedisce, dunque, che essi possano essere giudizialmente accertati e perciò il secondo
comma della XIV disposizione va interpretato nel residuo senso che l’aggiunta al nome dei predicati anteriori al 28 ottobre 1922 non trova la sua fonte nel diritto al titolo, non più sussistente, ma nel già intervenuto riconoscimento, che assume il ruolo di presupposto di fatto del diritto alla cognomizzazione ».
Conclusivamente, il secondo comma della XIV disp. trans. Cost. è una norma non già di apertura, ma di chiusura, come depone la restante giurisprudenza di questa Corte, che in materia si è occupata essenzialmente dei casi di c.d. cognomizzazione (cfr. nn. 8955/24, 32155/23, 2426/91, 3779/78, 2361/78, 585/72, 935/69, S.U. 936/69, 987/65, S.U. 986/65, S.U. 751/64, 3189/63 e S.U. 157/61). E nelle poche ipotesi in cui si è pronunciata su altri aspetti, essa ha chiarito (con la sentenza n. 2242/71) che lo stemma nobiliare, come segno distintivo della personalità, non riceve una tutela in norme che ad esso appositamente si riferiscano, ma può solo ritenersi garantito limitatamente alle ipotesi in cui il suo uso indebito possa cagionare un danno; e che attributi e qualità che abbiano pregio negli ambienti nobiliari non concorrono a costituire l’estimazione, e quindi la reputazione, di un soggetto.
Infine, la possibilità che il titolo nobiliare possa essere apprezzato inter cives nell’ambito di libere finalità associative, lavorative, ludiche e simili, non implica minimamente un suo sia pur residuo uso legale, non dovendo confondersi ciò che è lecito con ciò che dall’ordinamento riceve tutela, e in relazione al quale soltanto può configurarsi l’attività certificativa (sicché del tutto inconferente è la lamentata violazione dell’art. 1322 c.c.).
Pertanto, resta smentita ogni sia pur residua ipotesi di protezione legale del titolo nobiliare, e con essa la possibilità di un’inerente potestà certificativa notarile, che dalla legge ripete il proprio fondamento e il proprio limite (art. 1 legge notarile), costituito dal rilevante giuridico.
Di riflesso, deve ritenersi immune da censure di irragionevolezza la valutazione disciplinare compiuta, basata sulla considerazione che una siffatta certificazione è idonea a trarre in inganno la generalità delle persone sulla rilevanza giuridica dei titoli nobiliari.
Nei termini che seguono l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:
« è legittimamente ritenuta, ai sensi dell’art. 147, lett. a ) legge n. 89 del 1913, la responsabilità disciplinare del notaio che certifichi il diritto all’uso legale di un titolo nobiliare, in quanto la XIV disp. trans Cost. esclude in maniera radicale e originaria ogni rilevanza giuridica dei detti titoli (siccome incompatibili con la forma repubblicana) e, pertanto, qualsivoglia ancorché innominata ipotesi d’un loro uso legittimo, essendo consentita dal secondo comma della citata disp. trans., da interpretarsi quale norma di chiusura, la sola aggiunta al nome (c.d. cognomizzazione) del predicato (di titoli esistenti prima del 28 ottobre 1922), il quale ultimo, ai soli fini anzi detti, restituisce del titolo solo la parte indicante un toponimo».
Il secondo mezzo di ricorso allega la violazione dell’art. 3 della legge n. 689/81, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.
Sostiene parte ricorrente che i pareri, le perizie e i conseguenti certificati in questione sono stati utilizzati nell’ambito di altrettanti procedimenti arbitrali, i cui lodi, emessi dalla Corte superiore di Giustizia arbitrale di Massa e di Spoleto, hanno ottenuto l’ exequatur del Presidente del Tribunale. Tale atto di controllo costituisce ben più d’un mero riscontro di regolarità formale, essendo lo strumento con il quale l’ordinamento trasforma il lodo in un provvedimento avente valore di sentenza e idoneità al giudicato. Esso richiede, pertanto, la valutazione ex officio sia del carattere non abusivo delle clausole sottese al diritto fatto valere,
sia della non contrarietà del lodo all’ordine pubblico, come affermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza n. 168/15 del 28.7.2016.
Invece -prosegue parte ricorrente -la Corte d’appello non ha speso una sola riga di motivazione lì dove avrebbe dovuto dedurre l’assenza di colpa del notaio COGNOME che aveva prestato affidamento sulla legittimità di quanto operato dal presidente del Tribunale nel riconoscere efficacia a quei lodi, considerato che una delle certificazioni in oggetto -datata il 12 novembre 2019 -è addirittura successiva alla dichiarazione di esecutorietà del lodo, che era stata emessa il 24 gennaio dello stesso anno.
2.1. – Il motivo -che consta di un’allegazione mediana tra l’errore di diritto, cioè sul divieto, e l’errore sul fatto è privo di fondamento.
Parte ricorrente deduce, a sostegno della mancanza dell’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, un fatto di per sé inidoneo tanto a dimostrare l’ignoranza inevitabile del divieto ( error iuris ), quanto a ingenerare, nello specifico, un affidamento incolpevole dovuto alla condotta di terzi ( error facti ).
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’errore di diritto sulla liceità della condotta può rilevare in termini di esclusione della responsabilità amministrativa, al pari di quanto avviene per la responsabilità penale in materia di contravvenzioni, solo quando esso risulti inevitabile, occorrendo a tal fine, da un lato, che sussistano elementi positivi, estranei all’autore dell’infrazione, che siano idonei ad ingenerare in lui la convinzione della liceità della sua condotta e, dall’altro, che l’autore dell’infrazione abbia fatto tutto il possibile per osservare la legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva, gravando sull’autore dell’infrazione l’onere della prova della sussistenza dei suddetti
elementi, necessari per poter ritenere la sua buona fede (v. fra le tante, nn. 33441/19, 19759/15, 16320/10 e 11253/04).
Pertanto, non dissimilmente da quanto avviene in sede penale e in materia di illecito amministrativo (sul quale ultimo, v. anche nn. 18471/14, 10621/10 e 24803/06), anche nell’ambito della responsabilità disciplinare deve ritenersi operante il principio di cui all’art. 5 c.p., in base al quale l’errore sul divieto in sé, a seguito della sentenza n. 364 del 1988 della Corte cost., costituisce causa di esclusione della responsabilità solo ove l’ignoranza del precetto violato da parte del soggetto agente sia inevitabile, secondo un apprezzamento da effettuare alla luce dell’obbligo di conoscenza della legge, della qualità professionale di lui, del relativo dovere di informazione sulle norme e dell’interpretazione che di esse è data.
Quanto all’estremo soggettivo doloso o colposo, questa Corte ha avuto occasione di affermare che anche in tema di responsabilità disciplinare dei notai deve ritenersi applicabile il principio (tipico di tutti i sistemi sanzionatori, quali quello penale art. 42, ultimo comma cod. pen. – ed amministrativo – art. 3 Legge 689/1981 – ) secondo cui è necessario che l’illecito sia ascrivibile (almeno) a titolo di colpa all’autore del fatto, con la conseguenza che, anche per il notaio, l’errore sulla liceità del fatto deve ritenersi rilevante (e scriminante) qualora esso risulti incolpevole, dovendosi tuttavia desumere il necessario profilo di non colpevolezza dell’errore stesso da elementi positivi (quale un’assicurazione di liceità da parte della P.A. preposta, ovvero un provvedimento dell’autorità giudiziaria) idonei a indurre il professionista all’illecito contestato e non ovviabile con l’uso dell’ordinaria diligenza (v. n. 6383/01).
2.1.1. Nella specie, il fatto che avrebbe ingenerato l’un errore e/o l’altro cioè la concessa esecutorietà del lodo nazionale, ai sensi dell’art. 825, primo comma, c.p.c. è inidoneo, sotto qualunque aspetto, a scriminare la condotta.
Infatti, è indubbio che il notaio, in quanto soggetto professionalmente qualificato e selezionato ai fini del compimento di attività giuridica, ha il dovere di conoscere norme fondamentali, come quelle costituzionali, e la giurisprudenza formatasi al riguardo, sicché tutt’altro che inevitabile è la non conoscenza che i titoli nobiliari non godano nell’ordinamento di tutela alcuna, e che, dunque, non ne sia certificabile alcun uso legale.
Inoltre, lo stesso affidamento, in generale, non è compatibile con l’errore sull’esistenza del divieto (cfr. nn. 24386/23 e 24299/23) e, in particolare, non può derivare dal comportamento di soggetti terzi ( scilicet , diversi dal titolare della potestà sanzionatoria), come, invece, sarebbe avvenuto nel caso di specie.
Infine, il lodo arbitrale nazionale è soggetto ad un controllo di sola regolarità formale (cfr. S.U. n. 8776/21, in motivazione), che lascia impregiudicato ogni ipotetico profilo di nullità per contrarietà all’ordine pubblico, la cui eventuale emersione è affidata non a caso e nei limiti d’una nozione attenuata di ordine pubblico (cfr. n. 8718/24) -alla sola impugnazione ai sensi dell’art. 829, terzo comma, c.p.c.
3. Col terzo mezzo è dedotta la violazione dell’art. 1322 c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. La seconda sanzione sostiene parte ricorrente -è stata inflitta per l’autenticazione di scritture private di cessione o di affitti di posti del mercato ambulante, e motivata con riguardo al disdoro e allo svilimento della professione provocati dalla gratuità della prestazione svolta. Non essendo in questione la violazione della lett. c ) dell’art. 147 legge notarile, il problema non era, dunque, quello di un’ipotetica concorrenza sleale, anche perché si trattava di un numero di autentiche esiguo (51), tanto rispetto agli atti a raccolta (2149), quanto con riguardo a quelli repertoriati (2662) nel medesimo periodo. L’estrema modestia dell’onorario riscosso, definito dalla Corte distrettuale ‘simbolico’ o ‘inesistente’, con la conseguente
censurata gratuità della prestazione, si spiega alla luce del fatto che si trattava di cessione di aziende consistenti in un semplice banchetto del mercato, con un valore di stima compreso tra 1.500,00 e 2.500,00 euro ciascuno.
Ciò posto, l’aver il giudice di merito tratto la consumazione dell’illecito disciplinare dalla semplice gratuità della prestazione, viola il costante insegnamento della Corte di legittimità, che ravvisa nell’onerosità di cui all’art. 2233 c.c. un elemento normale, ma non essenziale del contratto d’opera intellettuale (cfr. nn. 21251/07, 16966/05 e 8787/00 e 10393/94). Pertanto, atteso che le tariffe professionali non sono più obbligatorie, sarebbe stato onere dell’accusa dimostrare la violazione di una norma che vieta la prestazione gratuita, non consentendo che l’attività del notaio COGNOME potesse essere espletata affectionis vel benevolentiae causa , ovvero per ragioni di ordine sociale o anche solo per un indiretto e personale vantaggio. Invece, il notaio, proprio uniformandosi alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Suprema Corte, ha richiesto compensi estremamente modesti, fino ai limiti della quasi inesistenza, in considerazione ( i ) della grave crisi che colpisce il settore commerciale dei mercati e degli ambulanti; ( ii ) della notoria debolezza economica dei relativi operatori economici; e ( iii ) dell’estrema semplicità della prestazione professionale richiesta e del modestissimo impegno professionale profuso. Il notaio -si sostiene -ha agito per ragioni di sensibilità sociale e, quindi, ha accresciuto, e non già diminuito o svilito, il decoro e il prestigio della professione notarile. L’aver la Corte distrettuale ritenuto in re ipsa l’esistenza dell’illecito in oggetto contrasta con i più elementari principi di libertà costituzionale, e viola l’art. 1322 c.c. in materia di autonomia negoziale.
3.1 – Nei termini che seguono, il motivo è fondato.
Nel contratto di prestazione d’opera intellettuale, come nelle altre fattispecie di lavoro autonomo, l’onerosità è elemento normale, ma non essenziale (cfr. n. 23893/16).
L’art. 2, primo comma d el D.L. n. 223/06 (nel testo vigente all’epoca dei fatti, prima della modifica apportata dall’art. 12, primo comma, legge n. 49/23, in materia d’equo compenso delle prestazioni professionali), convertito con modificazioni in legge n. 248/06, ha abrogato per le professioni intellettuali le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti.
Già prima di tale D.L., e v igente il testo originario dell’art. 147 legge notarile, questa Corte aveva, con la sentenza n. 14227/04, incrinato il granitico orientamento (v. per tutte, la n. 1370/79) secondo cui non era lecito derogare in minus alle tariffe notarili. Con tale arresto si era inteso affermare che l’inderogabilità delle tariffe notarili (par. a 3.1 del codice deontologico, approvato dal consiglio nazionale notarile il 24 febbraio 1994, ai sensi della legge n. 220 del 1991), essendo funzionale alla duplice esigenza, prevista dall’art. 147 legge n. 89 del 1913, di garantire il corretto esercizio dell’attività professionale del notaio, impedendo la sleale concorrenza tra professionisti, e di tutelare la dignità della categoria professionale, non comportava l’invalidità della rinuncia, totale o parziale, al compenso che fosse stata motivata da particolari esigenze etico – sociali, oltre che di amicizia e di parentela, anche di semplice convenienza, giustificatrici della totale o parziale gratuità della prestazione, salvo che la rinuncia stessa si risolvesse in un espediente del notaio per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso un non consentito accaparramento di affari futuri; il che andava accertato dal giudice del merito, la cui valutazione, se adeguatamente motivata, doveva ritenersi incensurabile in sede di legittimità.
L’art. 147 legge notarile fu modificato una prima volta dall’ art. 30, comma 1, D.Lgs. n. 249/06 (in vigore dal 26.8.2006), che alla lett. c ) precisò costituire illecito concorrenziale la riduzione degli onorari, diritti o compensi, ovvero il servirsi dell’opera di procacciatori di clienti, di richiami o di pubblicità non consentiti dalle norme deontologiche, o di qualunque altro mezzo non confacente al decoro ed al prestigio della classe notarile.
A seguito della pressoché coeva entrata in vigore del D.L. n. 223/06 cit., questa Corte, con sentenza n. 3715/13 ebbe ad affermare che «il venir meno, dopo l’abrogazione della obbligatorietà delle tariffe fisse o minime, della rilevanza disciplinare della percezione, da parte del notaio, di compensi più contenuti rispetto a quelli stabiliti dalla tariffa, è confermata dall’adeguamento alla nuova disciplina legislativa, da parte del Consiglio nazionale del notariato, dei principi di deontologia professionale dei notai. Mentre, infatti, il testo di quei principi approvato del 26 gennaio 2007 faceva ancora rientrare tra le fattispecie di illecita concorrenza “l’annotazione a repertorio di onorari minori o ridotti rispetto a quelli che devono essere indicati in base alla natura dell’atto” (art. 17, lettera a, terzo alinea); il nuovo testo, approvato con deliberazione n. 2/56 del 5 aprile 2008, per un verso ha eliminato detta previsione e, per l’altro verso, ha omesso il richiamo deontologico alla disposizione dell’art. 147 della legge notarile nel nuovo art. 24, secondo comma, lettera c), relativo ai rapporti del notaio con il Consiglio nazionale del notariato e con la Cassa nazionale del notariato».
Da ciò la ridetta sentenza trasse la conclusione per cui il notaio, il quale, quand’anche sistematicamente, offra la propria prestazione per compensi più contenuti rispetto a quelli previsti dalla tariffa notarile, non pone in essere, per ciò solo, un comportamento di illecita concorrenza, essendo venuta meno la rilevanza sul piano disciplinare di tale condotta per effetto della
generale disciplina introdotta dall’art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248), e risultando altresì applicabile alla medesima attività notarile la disciplina in tema di concorrenza nei servizi professionali di cui agli artt. 9 e 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27) (in senso conforme, v. la n. 9358/13).
Principio, quest’ultimo, ulteriormente confermato e limato dalla sentenza n. 9793/13, secondo cui, pur essendo venuta meno, per effetto dell’art. 2 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248), nonché degli artt. 9 e 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), l’automatica sanzionabilità della condotta del notaio che offra la propria prestazione per compensi più contenuti rispetto a quelli previsti dalla tariffa notarile, la tutela deontologica del decoro della professione in ipotesi di indiscriminate politiche di ribassi, non più affidata ad una rigida equiparazione dei corrispettivi, non priva di rilevanza, sul medesimo piano disciplinare, i comportamenti concorrenzialmente scorretti o predatori, né le attività serialmente prestate di accaparramento della clientela, che incidano sulla qualità delle prestazioni rese.
Nello stesso senso si è poi espressa anche la sentenza n. 2527/17 (non massimata e riferita al testo dell’art. 147, lett. c , come modificato dall’ art. 30, comma 1, D.Lgs. n. 249/06), per cui la concorrenza tra notai è implicitamente riconosciuta, tant’è che di essa sono vietate le sole forme illecite, in quanto lesive del decoro e nel prestigio della classe notarile. Tali forme illecite sono state indicate nell’art. 14 del codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato con deliberazione n. 2/56 del 5 aprile 2008 (vigente all’epoca dei fatti) , con elencazione dichiaratamente esemplificativa, nell’irregolare documentazione della prestazione (tra cui la mancata e documentata specificazione di anticipazioni, onorari, diritti e compensi e l’omissione o l’emissione irregolare di
fatture a fronte di prestazioni rese) e nell’esecuzione delle prestazioni secondo sistematici comportamenti frettolosi o compiacenti.
Successivamente, recependo sia pure soltanto in parte la sollecitazione dell’AGICOM del 4 luglio del 2014 (che chiedeva di sopprimere la lett. c dell’art. 147 l.n.), l’illecito concorrenziale è stato ridefinito dall’art. 1, comma 144, della legge n. 124 del 2017 (‘Legge annuale per il mercato e la concorrenza’), nel senso che esso è integrato se il notaio si serve dell’opera di procacciatori di clienti o di pubblicità non conforme ai principi stabiliti dall’articolo 4 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137. A rticolo, quest’ultimo, in base al quale è ammessa con ogni mezzo la pubblicità informativa, purché funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non posta in essere in violazione dell’obbligo del segreto professionale, non equivoca, ingannevole o denigratoria.
Pertanto, già prima dei fatti in questione (risalenti all’anno 2020) la percezione di compensi inferiori ai minimi tariffari ovvero la loro non percezione deve ritenersi di per sé irrilevante ai fini dell’illecito disciplinare di tipo concorrenziale, il quale, nei limiti anzi detti, resta sussumibile nella vigente previsione di cui alla lett. c ) dell’art. 147 legge notarile.
Di riflesso, la rilevanza di tali condotte, non altrimenti qualificate dalla presenza di circostanze fattuali ulteriori, non può essere recuperata sotto la diversa previsione della lett. a ) del medesimo articolo, in virtù del generico richiamo alla compromissione della dignità e reputazione o del decoro e prestigio della classe notarile.
Una tale operazione viola lo spirito della lett. a ) e contraddice l’evoluzione della lett. c ) del più volte menzionato art. 147. Intesa a reprimere condotte non previste né prevedibili, in un contesto connotato dall’atipicità dell’illecito disciplinare, la previsione di cui
alla lett. a ) dell’art. 147 non può essere piegata per sanzionare condotte che, precedentemente previste nella lett. c ), il legislatore ha inteso privare di rilievo disciplinare. Poiché la concorrenza tra notai è lecita nei limiti fissati dalla lett. c ), la pratica della riduzione, anche se notevole e sistematica, non può rappresentare di per sé, non consentendolo la contraddizione, violazione innominata del decoro e del prestigio professionale.
Nei termini che seguono l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:
«in materia di illecito disciplinare notarile, la percezione di compensi inferiori ai minimi tariffari ovvero la loro non percezione deve ritenersi di per sé irrilevante ai fini dell’illecito di tipo concorrenziale, il quale, nei limiti stabiliti dall’articolo 4 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137, resta sussumibile nella vigente previsione di cui alla lett. c ) dell’art. 147 legge notarile. Di riflesso, la rilevanza di tali condotte, non altrimenti qualificate dalla presenza di circostanze fattuali ulteriori, non può essere recuperata sotto la diversa previsione della lett. a ) del medesimo articolo, in virtù del generico richiamo alla compromissione della dignità e reputazione o del decoro e prestigio della classe notarile».
3.1.1. -Nella fattispecie, il ricorrente risulta essere stato sanzionato per aver autenticato 51 scritture private di cessione d’azienda a corrispettivi minimi o addirittura nulli, sotto l’esclusivo rilievo del «disdoro (…) dato dallo svilimento della professione» (così, a pag. 11 del provvedimento impugnato), non essendo state esplicitate ragioni per cui tale attività potesse essere svolta gratuitamente o quasi.
Così motivata, la decisione viola la norma presupposta, perché connette tra loro la tutela del decoro e del prestigio della classe notarile, di cui alla lett. a ) dell’art. 147 legge n. 89 del 1913, con la
gratuità o quasi della prestazione resa. La quale ultima, per quanto sopra esplicitato, non può assumere rilievo disciplinare se non sotto la -diversa -specie dell’illecito concorrenziale ; il quale ultimo, però, non risulta essere stato oggetto né di contestazione né di decisione.
Pertanto, nel caso in esame neppure mette conto indagare se ed entro quali limiti la gratuità o quasi della prestazione notarile possa assumere, in presenza di eventuali fatti ulteriori, una (sia pur residua) rilevanza ai fini della configurabilità di un illecito concorrenziale. Il relativo tema, indipendentemente dal nomen iuris (di per sé non dirimente) che l’organo di disciplina ha attribuito al fatto, eccede l’ambito della presente vicenda processuale, in parte qua incentrata sulla sola compromissione dei valori generali del decoro e del prestigio della professione.
4. L’unico motivo di ricorso incidentale espone, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 147, primo comma, lett. a ) e b ) legge notarile.
La Corte d’appello, osserva parte ricorrente incidentale, ha accertato per veri i fatti oggetto dell’incolpazione sub a ). Tuttavia, in considerazione del numero esiguo di atti confermati, dell’incertezza normativa e giurisprudenziale e dell’assenza di consequenzialità tra il tipo di atti, la mancata informazione e la richiesta di esborsi non concordati, essa ha ritenuto che l’illecito disciplinare non potesse ritenersi integrato. Ciò lascerebbe intendere che la Corte territoriale abbia ritenuto che le contestate lett. a ) e b ) dell’art. 147 legge notarile fossero riconducibili ad una medesima fattispecie connotata dal requisito di non occasionalità, il che non è, data l’autonomia delle due previsioni (che, difatti, avevano dato luogo a due distinte sanzioni ad opera della Co.Re.Di.).
Nel caso in esame, non può dirsi che la redazione di 15 atti di conferma non dovuti (che gettano un’ombra sull’operato di colleghi
nelle precedenti transazioni) costituisca una condotta occasionale. Tale, e quindi irrilevante ai fini disciplinari, è la condotta ‘singola’ o ‘episodica’, non già quella cronologicamente concentrata entro un periodo temporale non definito, ove idonea a compromettere l’interesse professionale protetto (cfr. nn. 4645/21, 2592/16, 10474/13 e 26961/07). Né rileva, a tal fine, il rapporto tra pratiche illecite e volume complessivo dell’attività professionale calcolato su base annua (cfr. n. 4645/21).
Quanto all’assenza di preventivo scritto dei costi, esso ricorre in ben 7 su 27 atti di conferma redatti dal notaio COGNOME il che dimostra la sistematicità della condotta.
In relazione, poi, al profilo ricondotto alla lett. a ) dell’art. 147 legge notarile, prosegue il motivo, rileva non la frequenza della condotta, ma l’accertamento della violazione di norme deontologiche e l’apprezzamento della relativa gravità. Il primo è dimostrato dal carattere inutilmente ridondante degli atti di conferma, successivi alla sentenza delle S.U. n. 8230/19; il secondo è completamente mancato.
4.1. – Il motivo è fondato sotto due concorrenti ed equi-ordinati profili.
Assente una specifica previsione del codice deontologico, il rilievo disciplinare attribuito alla redazione di atti di conferma, che non siano richiesti ai fini della validità dell’atto, rifluisce, di necessità logica, nell’ambito della sola lett. a ) dell’art. 147 legge notarile, che a differenza della lett. b ) stessa norma non contempla tra i suoi requisiti costitutivi il carattere non occasionale della condotta. Da qui un primo profilo di violazione di legge.
Ricondotta nel suo alveo corretto -e si passa a esporre il secondo profilo -va osservato che l’art. 147 della legge n. 89 del 1913 individua con chiarezza l’interesse meritevole di tutela (dignità e reputazione del notaio, decoro e prestigio della classe notarile) e determina la condotta sanzionabile in quanto idonea a
compromettere l’interesse tutelato, condotta il cui contenuto, sebbene non tipizzato, è integrato dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principi di deontologia oggettivamente enucleabili dal comune sentire di un dato momento storico; ne consegue, da un lato, che la norma menzionata è rispettosa del principio di legalità ex art. 25 Cost. (peraltro, attinente alla sola materia penale), e dall’altro che la concreta individuazione della condotta disciplinarmente rilevante, da parte del giudice di merito, non è sindacabile dalla Corte di cassazione, il cui controllo di legittimità sull’applicazione, da parte del giudice del merito, di concetti giuridici indeterminati e clausole generali può solo mirare a verificare la ragionevolezza della sussunzione in essi del fatto concreto (così, la n. 4720/12).
Inoltre, è «acquisito, nella giurisprudenza di questa Corte, che l’art. 147, lett. a ), della legge n. 89 del 1913, legittimamente configura come illecito disciplinare condotte che, ancorché non tipizzate, siano comunque idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio nonché il decoro e il prestigio della classe notarile; la individuazione in concreto di tali condotte è rimessa agli organi di disciplina dei notai; la valutazione che può essere esercitata in sede di legittimità sulle applicazioni fatte in concreto della citata disposizione è limitata al riscontro della non palese irragionevolezza; un sintomo rilevante ai fini dalla valutazione di ragionevolezza va individuato nelle conseguenze in termini di validità ed efficacia degli atti compiuti dai notai con condotte idonee a ledere la dignità professionale del notaio e il decoro e il prestigio della classe notarile» (così, in motivazione, la sentenza n. 17266/15, ed ivi richiami).
4.2. Nel caso in esame la Corte distrettuale ha escluso l’illecito in considerazione: ( i ) del numero esiguo di atti di conferma rapportati alla complessiva attività svolta e alle incertezze normative e giurisprudenziali, entrambe anteriori sia all’apposito
studio del Consiglio nazionale del Notariato sia alla sentenza delle S.U. n. 8230/19; ( ii ) dell’assenza di consequenzialità tra il tipo di atti, la mancata informazione e la richiesta di esborsi non concordati; e ( iii ) del fatto che tali condotte potevano fondare un giudizio, al più, di eccessiva e superficiale attività, ma non di lesione del prestigio e del decoro della professione.
In tal modo, però, la Corte d’appello non solo ha attribuito rilievo al requisito di occasionalità della condotta, prescritto per le sole fattispecie riconducibili alla lett. b ) dell’art. 147 legge cit., per di più errando lì dove ne ha desunto l’assenza in rapporto alla mole complessiva degli atti repertoriati, ma ha finito, altresì, col sostituire la propria valutazione dei fatti a quella operata dall’organo disciplinare, senza tuttavia predicare come irragionevole la pretesa punitiva. La Corte ha mostrato, infatti, di escludere che l’incolpazione disciplinare potesse giudicarsi irrazionale, lì dove ha giudicato la condotta del notaio ricorrente in termini di ‘eccessiva e superficiale attività’, inidonea a produrre la lesione del decoro e del prestigio della professione.
A ciò va aggiunto, a dimostrazione del carattere non irragionevole dell’incolpazione in oggetto, che la conferma prevista dall’art. 40 legge n. 47/85 e dall’art. 46 T.U. Edilizia presuppone la nullità dell’atto notarile oggetto di conferma, sicché il farne ricorso in assenza delle condizioni di legge ingenera nell’utente medio un’ingiusta opinione negativa sulla pregressa attività del diverso (o dello stesso) notaio che quell’atto aveva rogato.
Nei termini che seguono l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:
«in materia disciplinare notarile, in mancanza di una specifica previsione del codice deontologico, la redazione di atti di conferma, che non siano richiesti dagli artt. 40 legge n. 47 del 1985 e 46 T.U. Edilizia ai fini della validità dell’atto , costituisce illecito disciplinare
ai sensi della lett. a ) dell’art. 147 legge n. 89 del 1913 (che a differenza della lett. b stessa norma non contempla tra i suoi requisiti costitutivi il carattere non occasionale della condotta), poiché ingenera nell’utente medio un’ingiusta opinione negativa sulla pregressa attività del diverso (o dello stesso) notaio che quell’atto aveva rogato ».
-In conclusione, accolti entrambi i ricorsi nei limiti rispettivamente detti, il provvedimento impugnato va cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il terzo motivo del ricorso principale, respinti i restanti, accoglie, altresì, il ricorso incidentale, cassa il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda