Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 29167 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 29167 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21935 – 2019 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO dalla quale è rappresentata e difesa con l’AVV_NOTAIO, giusta procura in calce al ricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso da ll’ AVV_NOTAIO, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 135/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 15/1/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
29/1/2025 dal consigliere COGNOME;
lette le memorie della parte ricorrente.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 3/8/2009, la RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Pavia, AVV_NOTAIO e, premesso che quest’ultimo le aveva appaltato, con contratto à forfait chiuso del 24/11/2006, la costruzione di una villetta unifamiliare, ne chiese la condanna al pagamento della somma di euro 128.386,00 a titolo di prezzo delle opere extracapitolato, ancora non corrisposto o, in subordine, di indebito arricchimento; rappresentò, infatti, che aveva ricevuto il corrispettivo di Euro 230.000,00, ma dall’accertamento tecnico preventivo svolto ad istanza dello stesso appaltante, era emersa la realizzazione di più interventi in modifica del progetto originario, senza accordo scritto.
1.2. Costituendosi, NOME COGNOME eccepì di non dovere nulla, perché i lavori extracapitolato non erano stati concordati e, in ogni caso, non erano stati terminati ed erano affetti da vizi che avevano legittimato la risoluzione del contratto, intimata il 6/11/2008; rappresentò altresì che, con ricorso del 1/11/2008, aveva chiesto un accertamento tecnico preventivo per il riscontro dei vizi e delle difformità dell’opera; lamentò, altresì, gravi errori di progettazione e di esecuzione e chiese, perciò, di chiamare in causa la progettistadirettrice dei lavori, NOME COGNOME.
Pertanto, il convenuto COGNOME chiese, in riconvenzionale, la condanna della società attrice e, in solido, della terza chiamata direttrice dei lavori, AVV_NOTAIO, al risarcimento dei danni,
quantificandoli in euro 84.000,00 oltre euro 50.000,00 a ristoro degli ulteriori pregiudizi patrimoniali e non.
Nel contraddittorio con quest’ultima e con la Curatela del fallimento RAGIONE_SOCIALE, subentrata in corso di giudizio per intervenuto fallimento della società attrice, il Tribunale di Pavia, con sentenza n. 1144/2014, per quel che ancora qui rileva, rigettata la domanda della Curatela del Fallimento e dichiarata improcedibile la domanda riconvenzionale di COGNOME, accolse, invece, parzialmente, la domanda di respons abilità proposta da quest’ultimo nei confronti dell’architett a, terza chiamata, condannandola al pagamento di euro 9.000,00, oltre interessi e rivalutazione; riconobbe, infatti, la direttrice dei lavori responsabile soltanto per non avere predisposto la documentazione necessaria alla regolarizzazione e all’abitabilità dell’unità abitativa .
Avverso questa sentenza, COGNOME propose appello soltanto nei confronti di COGNOME, avverso il rigetto della domanda di sua condanna in solido, quale direttrice dei lavori, per i vizi lamentati.
L’AVV_NOTAIO COGNOME propose appello incidentale avverso il riconoscimento della sua responsabilità per omessa predisposizione della documentazione dovuta e avverso la condanna alle spese.
3.1. Con sentenza n. 135/2019, la Corte d’appello di Milano , rigettato l’appello incidentale, in accoglimento dell’appello principale, condannò NOME COGNOME al pagamento dell’ulteriore somma di euro 66.840,00 oltre accessori: per quel che ancora qui rileva, ritenne che i numerosi vizi emersi dall’ accertamento tecnico preventivo e la mancata presenza in cantiere della direttrice per circa nove mesi costituissero fondamento del l’inadempimento imputabile delle obbligazioni qualificanti ed essenziali della direzione dei lavori, cioè di alta sorveglianza e di vigilanza.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a sei motivi, illustrati da successiva memoria; NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., NOME COGNOME ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli art. 1669 e 2055 cod. civ. per avere l a Corte d’appello totalmente omesso di esaminare le singole tipologie di vizi delle opere, riscontrati dal c.t.u. e imputabili all’appaltatrice e di verificare se, in relazione a ciascuno di detti vizi e difetti, le sue azioni od omissioni avessero o non concorso effettivamente a produrre i difetti accertati; la rilevata inesatta esecuzione dell’opera non sarebbe sufficiente a ritenere sussistente la sua responsabilità che, al contrario, sarebbe potuta risultare soltanto da azioni e omissioni costituenti autonomi fatti illeciti che avessero contribuito causalmente a produrre il fatto dannoso.
Con il secondo motivo, la ricorrente ha sostenuto, pure in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione del l’art. 2230 e ss. cod. civ.: la Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato la sua responsabilità soltanto a causa della sua assenza dal cantiere: la responsabilità del direttore dei lavori consiste, infatti, in culpa in vigilando , sicché la valutazione della sua diligenza avrebbe dovuto essere svolta in concreto, secondo un criterio di esigibilità, considerato che la sua obbligazione è di mezzi e non di risultato.
2.1. I primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente per continuità di argomentazione sono infondati.
La Corte d’appello ha ricostruito la responsabilità della direttrice dei lavori NOME COGNOME, rappresentando che la colpa gravante sull’appaltatore non è stata semplicemente trasposta a suo carico, ma
è stata fondata sulla sua «latitanza» dal cantiere calcolata, secondo l’ipotesi più severa, in oltre un anno, a far data dal fax del 2 aprile 2007, con cui è stato da lei verbalizzato il sopralluogo del 30 marzo dello stesso anno, fino al verbale di sopralluogo del 19 maggio 2008, in assenza di qualsiasi traccia documentale di una sua attività per il corrispondente periodo ; in ogni caso, secondo l’ipotesi più favorevole alla direttrice, asseritamente da lei provata con la produzione di alcune fotografie, comunque risulta un’assenza dal c antiere per nove mesi e, in conseguenza, «un eloquente vuoto probatorio in punto di presenza, controllo, interventi correttivi e intimazioni»: «in presenza di una qualità edificatoria che è eufemistico definire scarsa, coinvolgente la maggior parte dei distretti dell’immobile, attinti da una congerie di vizi e difetti progressivamente stratificatosi per un periodo di almeno nove mesi» non risulta alcuna prova, anzi risulta prova contraria, «circa l’avv enuto adempimento delle obbligazioni qualificanti ed essenziali della direzione dei lavori e, cioè, quelle dell’alta sorveglianza e della vigilanza finalizzate al raggiungimento del risultato utile perseguito dal committente».
Così decidendo, la Corte d’appello ha correttamente applicato i principi consolidati di questa Corte in materia di responsabilità del direttore dei lavori, secondo cui il direttore dei lavori, pur prestando un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche e deve utilizzare le proprie risorse intellettive e operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committentepreponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della diligentia quam in concreto : rientrano, pertanto, nelle obbligazioni a suo carico, l’accertamento della conformità sia della
progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi; sicché non si sottrae a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente (Cass. Sez. 2, n. 27045 del 18/10/2024; Sez. 3, n. 9572 del 09/04/2024; Sez. 2, n. 2913 del 07/02/2020).
Neppure argomentando le sue censure, invero, la direttrice COGNOME ha enucleato vizi non riconducibili alla sua omissione di controllo e alla sua inerzia, limitandosi a ribadire la sua estraneità alle cause dei vizi; in tal senso nessuno dei due motivi coglie nel segno.
Con il terzo motivo la ricorrente ha lamentato, in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione de ll’art. 2697 cod. civ. e dell’art. art. 115 cod. proc. civ. per avere la Corte d’appello valutata come non provata la sua presenza in cantiere e lo svolgimento dei suoi compiti, a fronte delle inequivocabili risultanze della prova documentale e testimoniale come acquisite nel giudizio di primo grado, ritenendo, di contro, ammesse circostanze non provate, quale il fatto che le riunioni si sarebbero tenute soltanto nel mese di aprile 2007, laddove un teste aveva riferito di più riunioni senza, tuttavia, ricordare l’arco temporale in cui si fossero svolte.
3.1. Il motivo è inammissibile in entrambi i profili, per sua formulazione.
Quanto al primo profilo di censura, questa Corte ha sempre ribadito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia
attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c.) (Sez. 6 – 3, n. 18092 del 31/08/2020; Sez. 3, n. 13395 del 29/05/2018).
Quanto al secondo profilo, per principio altrettanto consolidato, per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio); la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre è, invece inammissibile perché questa attività valutativa è consentita dall’art. 116 cod. proc. civ..
La censura di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è, a sua volta, ammissibile soltanto ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento; ove si deduca, invece, l’esercizio non corretto del «prudente apprezzamento» della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, I comma, n. 5, cod. proc. civ., soltanto nei
rigorosi limiti in cui ancora è consentito il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Sez. U, n. 20867 del 30/09/2020; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021).
Il ricorrente per cassazione non può, infatti, rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Sez. 5, n. 32505 del 22/11/2023).
Con la sua censura la ricorrente ha proprio tentato di rimettere in discussione la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove operate dal Giudice di merito.
Con il quarto motivo, NOME COGNOME ha sostenuto, in riferimento al n. 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e, cioè, le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel giudizio di primo grado secondo cui i difetti riscontrati non erano imputabili a suoi errori progettuali o a mancanza di vigilanza.
4.1. Il motivo è infondato. La Corte d’ appello, a pag. 5 della sentenza impugnata, dopo avere riscontrato la «latitanza» di COGNOME per almeno nove mesi e fino al mese di maggio 2008, quando il cantiere fu abbandonato, ha sottolineato che ogni intervento della direttrice («tutti i sopralluoghi e le contestazioni rimanenti») sono stati «per così dire postumi, siccome successivi a tale data».
Sul punto, come riportato dalla stessa ricorrente, il nominato c.t.u. si era limitato ad affermare, anche in risposta al c.t. di parte, che «eventuali responsabilità» del Direttore dei lavori avrebbero dovuto essere «idoneamente comprovate», nel senso che avrebbe dovuto essere dimostrato che la direttrice non fosse tempestivamente intervenuta «per contestare, registrare e, laddove possibile, emendar e» le inadempienze dell’impresa.
È evidente, allora, che il nominato c.t.u. non ha affatto escluso la responsabilità della Direttrice, rimettendo correttamente la valutazione delle prove dell’adempimento dei suoi compiti di alta sorveglianza al Giudice: la Corte ha escluso quell’adempimento valutando le prove.
Con il quinto motivo, la ricorrente ha prospettato, pure in riferimento al n. 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., l’omesso esame della raccomandata a.r. inviata dallo stesso committente in data 1/10/08 al legale della appaltatrice e della successiva comunicazione di risoluzione del contratto del 6/11/2008, decisive per una diversa definizione della controversia perché attestante che all’ultima data del 6/11/08 l’impresa ancora era sul ca ntiere, sicché gli interventi della direttrice sarebbero risultati ancora tempestivi e utili alla prevenzione dei vizi.
5.1. Anche questo motivo è infondato. Il contenuto delle due missive come riportate non è affatto decisivo per una diversa definizione della controversia, perché quel che la Corte ha posto in rilievo è la lunga «assenza» della Direttrice dal cantiere per almeno nove mesi e il suo totale disinteresse, ciò che già implica responsabilità (Sez. 3, n. 20557 del 30/09/2014; Sez. 3, n. 39448 del 13/12/2021).
In particolare, come riportato dal controricorrente, proprio nella missiva del 1/10/08 il legale dell’impresa rappresentava che il cantiere era stato consegnato nel maggio 2008 e la stessa ricorrente ha riferito
che nei primi mesi del 2008 l’appaltante si era trasferito con la famiglia nella villetta e aveva potuto riscontrare i numerosi vizi: la Corte d’appello, raccordando i fatti, ha evidenziato sul punto proprio che le denunce della Direttrice sono avvenute «a cose fatte», cioè quando l’omissione di vigilanza si era già verificata.
Con il sesto motivo , infine, l’AVV_NOTAIO COGNOME ha lamentato, in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.: l a Corte d’appello avrebbe erroneamente confermato a suo carico le spese di lite del giudizio di primo grado e della CTU, mentre avrebbe dovuto parzialmente compensarle per «la quasi integrale soccombenza del COGNOME, nel primo grado di giudizio», atteso che le domande da lui proposte erano state accolte limitatamente all’importo di euro 9.000,00.
6.1. La censura è inammissibile per sua prospettazione.
L’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. (Sez. U, n. 32061 del 31/10/2022).
Il sindacato della Corte di cassazione ex n. 3 comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., tuttavia, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, sicché vi esula la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte perché questa statuizione rientra nel l’esercizio del potere discrezionale del giudice di
merito (Sez. 6 – 3, n. 24502 del 17/10/2017; Sez. 5, n. 8421 del 31/03/2017).
Il ricorso è perciò, respinto, con conseguente condanna della ricorrente NOME COGNOME al rimborso delle spese processuali in favore di NOME COGNOME, liquidate in dispositivo in relazione al valore.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore di NOME COGNOME, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte suprema di Cassazione del 29 gennaio 2025.
La Presidente NOME COGNOME