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Responsabilità del dipendente: prova e ricorso

Un dipendente di un istituto di credito, condannato in appello al risarcimento di oltre 8 milioni di euro per ammanchi di cassa, ha presentato ricorso in Cassazione. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. La decisione si fonda sulla genericità dei motivi di ricorso, che si limitavano a contestare la valutazione delle prove (come la consulenza informatica e le testimonianze) già effettuata dai giudici di merito. La Suprema Corte ha ribadito che la responsabilità del dipendente può essere provata anche attraverso le registrazioni contabili riconducibili al suo codice utente, specialmente se era l’unico a poter compiere quelle operazioni.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

La responsabilità del dipendente per ammanchi: quando la prova informatica è sufficiente?

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato un caso di notevole rilevanza in materia di responsabilità del dipendente, confermando una condanna al risarcimento di oltre 8 milioni di euro. La pronuncia chiarisce importanti principi sulla validità delle prove informatiche e sui limiti del ricorso per cassazione, offrendo spunti fondamentali per lavoratori e datori di lavoro.

I Fatti di Causa

Un ex dipendente di un istituto di credito, con mansioni di responsabile dell’ufficio incassi e pagamenti, era stato condannato in primo e secondo grado a risarcire l’ex datore di lavoro per una somma ingente, quantificata in oltre 8,3 milioni di euro. L’accusa era di aver sottratto indebitamente tali somme nell’arco di un decennio, dal 2002 al 2013. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, il dipendente riceveva denaro contante per il pagamento di bollettini postali per conto dei clienti, ma provvedeva solo in parte a tali pagamenti, occultando gli ammanchi attraverso complesse operazioni contabili registrate nel sistema informatico della banca.

Le prove a suo carico includevano una dettagliata consulenza tecnica d’ufficio (CTU), che aveva ricondotto in maniera analitica le operazioni sospette al suo codice utente e alla sua password personale. A ciò si aggiungevano le dichiarazioni concordanti di alcuni suoi colleghi e una precedente sentenza penale di condanna per il reato di appropriazione indebita.

I Motivi del Ricorso e la responsabilità del dipendente

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. Nullità della consulenza tecnica: Sosteneva la nullità della CTU e la violazione di norme di diritto, criticando la mancata analisi informatica del suo computer personale, che avrebbe potuto, a suo dire, rivelare eventuali intrusioni da parte di terzi (hackeraggio).
2. Inattendibilità delle prove: Contestava il valore probatorio delle dichiarazioni rese dai suoi colleghi e la mancanza di prove dirette della consegna di denaro contante nelle sue mani.

In sostanza, il ricorrente cercava di smontare l’impianto accusatorio che fondava la sua responsabilità del dipendente sull’utilizzo esclusivo delle sue credenziali informatiche.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato entrambi i motivi di ricorso inammissibili, confermando la decisione della Corte d’Appello. La motivazione dei giudici si articola su diversi punti cruciali.

In primo luogo, il ricorso è stato giudicato generico. Il dipendente non ha indicato con precisione quale norma o principio di diritto sarebbe stato violato, limitandosi a riproporre le stesse argomentazioni già esaminate e respinte nei precedenti gradi di giudizio. La Cassazione ha ribadito che il suo ruolo non è quello di un terzo grado di giudizio sui fatti, ma di un controllo sulla corretta applicazione della legge. Le critiche del ricorrente rappresentavano un mero dissenso rispetto alla valutazione delle prove operata dai giudici di merito, valutazione che è stata ritenuta logica, coerente e ben motivata.

In particolare, la Corte ha sottolineato come i giudici d’appello avessero correttamente valorizzato il complesso delle prove, affermando la responsabilità del dipendente non solo sulla base della prova diretta, ma attraverso un ragionamento presuntivo forte e coerente. Le operazioni di occultamento contabile, pacificamente ricondotte alle sue credenziali personali, e il suo ruolo specifico all’interno della banca, che lo rendeva l’unico in grado di compiere tali manovre, costituivano un quadro probatorio solido.

Infine, la Corte ha rilevato che la contestazione per vizio di motivazione era preclusa dall’art. 348 ter c.p.c., dato che le sentenze di primo e secondo grado erano giunte alla medesima conclusione sulla base di ricostruzioni fattuali sostanzialmente identiche.

Conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza un principio fondamentale: la responsabilità del dipendente per illeciti commessi tramite sistemi informatici può essere validamente provata attraverso le registrazioni digitali (log) associate alle sue credenziali di accesso uniche. A meno che non si forniscano prove concrete di un’intrusione esterna o di un uso improprio da parte di terzi, l’utilizzo di username e password personali costituisce un elemento di prova di primaria importanza. Inoltre, la decisione ribadisce la natura del giudizio di cassazione, che non consente di rimettere in discussione l’apprezzamento dei fatti e delle prove compiuto dai giudici di merito, se adeguatamente motivato. Per il lavoratore, ciò significa che contestare genericamente le prove a proprio carico senza sollevare specifiche questioni di diritto si traduce, molto probabilmente, in una declaratoria di inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna al pagamento delle spese legali.

Un dipendente può essere condannato per ammanchi basandosi principalmente sulle registrazioni del sistema informatico a lui associate?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che le registrazioni contabili riconducibili in modo analitico al codice utente e alla password di un dipendente costituiscono una prova solida della sua responsabilità, specialmente se il suo ruolo era l’unico a consentire quel tipo di operazioni e se non vengono fornite prove di intrusioni esterne.

È sufficiente criticare la valutazione delle prove fatta da un giudice per vincere un ricorso in Cassazione?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che riproporre le medesime contestazioni già esaminate e respinte dai giudici di merito, esprimendo un mero dissenso sulla valutazione delle prove (come l’attendibilità di una perizia o di testimoni), non è un motivo valido per l’ammissibilità del ricorso. Il ricorso deve denunciare una violazione di legge, non un riesame dei fatti.

Cosa accade se un ricorso in Cassazione è ritenuto ‘generico’?
Se il ricorso è considerato generico, cioè non indica in modo specifico la norma di diritto che si assume violata o il principio giuridico leso, viene dichiarato inammissibile. Ciò comporta che la Corte non esamina il merito della questione e la decisione impugnata diventa definitiva. Inoltre, la parte che ha proposto il ricorso viene condannata al pagamento delle spese legali e a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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