Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9723 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9723 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22012/2023 R.G. proposto da :
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in CATANIA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
NOME
-intimato-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANIA n. 1328/2023 depositata il 09/07/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 7 luglio 2010, NOME COGNOME nella qualità di titolare della omonima ditta individuale esercente l’attività di ‘bar e caffè’, conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Catania, NOME NOME COGNOME assumendo che questi, quale ragioniere commercialista incaricato di prestare attività di consulenza fiscale e tributaria in favore della predetta ditta individuale, aveva colposamente omesso di redigere e trasmettere telematicamente la dichiarazione dei redditi consegui ti dall’impresa negli anni 2001 e 2003-2006, in violazione delle obbligazioni assunte al momento della accettazione dell’incarico professionale. In conseguenza di tali omissioni l’Agenzia delle Entrate aveva notificato al Marino cinque avvisi di accertamento che non erano stati impugnati per colpevole inerzia del commercialista medesimo. Chiedeva pertanto accertarsi la responsabilità professionale di quest’ultimo con condanna al pagamento della somma di euro 133.000 circa.
Si costituiva il professionista contestando la fondatezza delle domande e deducendo di non avere ricevuto l’incarico relativo alla compilazione delle dichiarazioni dei redditi atteso che l’attività di consulenza prestata dal professionista, come concordato con il cliente, sarebbe stata limitata alla sola tenuta delle scritture e dei libri contabili e alla assistenza relativa alle pratiche per condoni contributivi.
Con due successivi atti di citazione NOME COGNOME assumeva che il COGNOME aveva posto in essere due atti di disposizione del proprio patrimonio immobiliari in favore della sorella NOME e, rispettivamente, della convivente NOME COGNOME in modo da rendersi impossidente rispetto alle pretese creditorie dell’attore. Chiedeva
dichiararsi la simulazione assoluta dei due atti o, in subordine, l’inefficacia relativa ai sensi dell’articolo 2901 c.c.
Disposta la riunione delle cause, il Tribunale con sentenza del 21 dicembre 2018 rigettava la domanda di risarcimento danni, dichiarava inammissibile quella di accertamento della simulazione assoluta, rigettava la domanda subordinata di revocatoria, condan nando l’attore al pagamento delle spese nei confronti dei convenuti.
Il Tribunale rilevava che non era possibile far discendere l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi dal solo fatto che il contribuente avesse conferito al commercialista l’incarico di tenuta della contabilità; sotto tale profilo sarebbero generiche e irrilevanti le prove costituende espletate. Sotto altro aspetto, il Tribunale rilevava la macroscopica negligenza della condotta di parte attrice che dopo un primo presunto inadempimento del commercialista per l’anno 2001 non avrebbe in alcun modo verificato la propria posizione fiscale. L’insussistenza di ragioni creditizie da tutelare nei confronti del convenuto farebbe discendere l’inammissibilità per mancanza di interesse ad agire dell’azione di accertamento della simulazione assoluta e la assenza dei presupposti per l’azione revocatoria.
Avverso tale decisione proponeva appello NOME COGNOME con atto notificato il 26 febbraio 2019 contestando la ricostruzione del Tribunale secondo cui non sarebbe stato provato il conferimento del dell’incarico specifico di redazione dei modelli 770 dell’inoltro telematico degli stessi e, conseguentemente censurando la pronunzia di inammissibilità della domanda di accertamento della simulazione e di infondatezza di quella subordinata di revocatoria. Si costituivano NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione e l’infondatezza nel merito.
La Corte d’appello di Catania con sentenza del 9 luglio 2023 in riforma della sentenza del Tribunale accertava l’inadempimento contrattuale posto in essere dal professionista, condannandolo al risarcimento dei danni quantificati in euro 29.513,28; dichiarava inefficaci, ai sensi dell’articolo 2901 c.c., nei confronti di NOME COGNOME, l’atto di compravendita del 9 marzo 2010 stipulato tra NOME e la COGNOME e quello del 12 marzo 2010 concluso tra NOME e la sorella NOME. Condannava gli appellati al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio in favore del Marino.
Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME affidandosi a quattro motivi.
La parte intimata non svolge attività processuale in questa sede.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’articolo 360, n. 4 c.p.c. per violazione dell’articolo 112 c.p.c. Gli odierni ricorrenti avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’articolo 342 c.p.c. poiché gli app ellanti si erano limitati a riproporre le difese formulate in primo grado, trascrivendo le deposizioni testimoniali raccolte, senza muovere alcuna puntuale contestazione e senza evidenziare i passaggi motivazionali da emendare, riferiti alla decisione di primo grado. Rispetto a tale eccezione la Corte territoriale non avrebbe espresso alcuna motivazione.
Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. poiché la deduzione non consente di apprezzare quali specifici motivi di impugnazione siano stati obliterati dalla Corte territoriale. Parte ricorrente avrebbe dovuto allegare o trascrivere il testo dei motivi di appello e i relativi passaggi della sentenza del Tribunale (Cass. n. 8462 del 5 maggio 2020 e Cass. 7 aprile 2017, n. 9122); infatti, quando il ricorrente censuri, come nel caso di specie, la statuizione di ammissibilità e conseguente rigetto dell’eccezione di
inammissibilità ex art. 342 c.p.c. dell’appello, ha l’onere di individuare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e non sufficientemente specifico, invece, il gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Sez. 5 – , Ordinanza n. 22880 del 29/09/2017, Rv. 645637 – 01); analogo onere riguarda l’allegazione, trascrizione o l’indicazione della sede processuale nella quale è stata prodotta la sentenza di primo grado, in quanto il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c. esige che, ad argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (decisione di primo grado), vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico giuridico. Ciò si risolve in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure. Pertanto, la specificità dei motivi di appello da commisurare all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice comporta l’onere, a pena di inammissibilità, della produzione della sentenza di primo grado.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’articolo 360, n. 3 c.p.c. la violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. La Corte territoriale avrebbe fatto applicazione del ragionamento inferenziale induttivo ritenendo provato un fatto ignoto (conferimento dell’incarico di redazione della dichiarazione dei redditi e successivo invio telematico) partendo da fatti certi che però non sono stati indicati nella motivazione e dei quali è stato omesso ogni giudizio sulla
gravità, precisione e concordanza, incorrendo così nell’errore di sussunzione.
Il motivo è infondato.
Parte ricorrente intende dimostrare che i fatti che il giudice ha ritenuto gravi precisi e concordanti in realtà non lo sono.
Trovano applicazione i principi da ultimo affermati da Cass. Sez. U, Sentenza n. 1785 del 2018
La denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 cod. civ. si può prospettare (Cass. n. 19485 del 2017) deducendo che il giudice di merito avrebbe fondato la presunzione su un fatto storico, privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 cod. civ. fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione.
In sostanza, si assume che il giudice di merito avrebbe solo apparentemente applicato la regola della presunzione nel suo contenuto astratto, ma, in concreto la avrebbe riferita ad una fattispecie che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.
Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, il suo ragionamento è censurabile alla stregua dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 cod. civ., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3 dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave, precisa o concordante una presunzione (cioè un’inferenza) che non
lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. Parte ricorrente, seppure in maniera estremamente sintetica, ha spiegato che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Ha individuato l’argomentazione ritenuta irrispettosa di uno o di tutti i paradigmi prospettando l’ipotesi di c.d. falsa applicazione.
Nel caso di specie il passaggio motivazionale individuato è quello con il quale la Corte territoriale afferma che ‘peraltro, deve rilevarsi, che ben può presumersi che ogni qualvolta al professionista venga conferito l’incarico di prestare la propria attiv ità di consulenza contabile, lo stesso si occupi anche di redigere le dichiarazioni fiscali’.
La censura non coglie nel segno. La motivazione della Corte d’appello non si fonda affatto sulla errata applicazione delle norme in tema di presunzione, quanto piuttosto su una nuova e completa valutazione delle risultanze della prova testimoniale, corroborate da un riferimento ‘ ad colorandum ‘ relativo ad un criterio di ragionevolezza (che è quello censurato dal ricorrente).
La Corte ha esaminato l’intera dichiarazione resa dal teste NOME COGNOME fratello dell’appellante e da questi impiegato quale banconista all’interno del Bar Marino dal maggio 2004.
Il teste, osserva la Corte territoriale, ha riferito: ‘E’ a mia diretta conoscenza che il rag. NOME, incaricato da mio fratello NOME della tenuta dell’intera contabilità aziendale del Bar Marino, ivi compresa la compilazione del modello 770, la redazione del modello unico e del relativo inoltro, prima cartaceo e indi telematico, dello stesso, nonché del pagamento di imposte e contributi, venisse mensilmente al bar Marino, ove, o io o mio fratello NOME, gli consegnavamo la relativa documentazione’ ‘… mi consta
personalmente, perché se ne parlava sempre, che il Ciraldo gestisse anche il cassetto fiscale di mio fratello, tanto che quest’ultimo spesso lo interpellava in mia presenza in ordine all’avvenuto pagamento di tasse e imposte e che il Ciraldo lo rassicurava in ordine agli avvenuti pagamenti; ricordo anzi in particolare che in una circostanza mio fratello NOME ebbe bisogno di una copia della dichiarazione dei redditi, mi pare in relazione alla richiesta di un mutuo e la richiese al Ciraldo, che lo rassicu rò che gliela avrebbe fatta avere’.
La Corte, con valutazione non sindacabile in questa sede, ha ritenuto tali dichiarazioni concludenti e specifiche valorizzando la circostanza che il NOME NOME non solo svolgeva le mansioni di banconista -e quindi era costantemente presente all’inte rno del bar -ma era anche il fratello del proprietario dell’attività e, conseguentemente, era assolutamente credibile che lo stesso seguisse le questioni attinenti la gestione dell’esercizio commerciale e fosse a conoscenza diretta delle vicende che lo riguardavano. Inoltre, aveva conoscenza diretta delle circostanze narrate e ciò confermava il conferimento dell’incarico al COGNOME il quale si occupava non solo della tenuta della contabilità ma altresì delle attività fiscali conseguenziali alla stessa, ossia della predisposizione delle dichiarazioni dei redditi e poi dell’invio cartaceo e telematico – dei modelli, tanto che il professionista aveva rassicurato più volte l’appellante circa il corretto svolgimento dell’incarico affidatogli.
Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’articolo 360, n. 4 c.p.c., per violazione dell’articolo 112 c.p.c., con riferimento all’articolo 346 c.p.c. Nella comparsa di costituzione di primo grado NOME aveva eccepito l’eventu ale concorso di colpa del contribuente, quale creditore, ai sensi dell’articolo 1227, secondo comma c.c. L’eccezione era stata riproposta ai sensi dell’articolo 346 c.p.c. nella comparsa di costituzione in appello. Su tale questione la Corte etnea avrebbe omesso di pronunziarsi precisando che
‘l’eventuale concorso colposo, in ogni caso, non è stato oggetto di specifica deduzione in sede di comparsa di costituzione in appello’. Il motivo è infondato.
Parte ricorrente ha dedotto nel rispetto dell’articolo 366, n. 6 c.p.c. di avere reiterato in sede di appello la questione relativa al concorso colposo del creditore ai sensi dell’articolo 1227 c.c. e assume che tale profilo non sia stato preso in esame dal giudice di secondo grado. In realtà, la questione è stata valutata dalla Corte territoriale la quale pur avendo affermato che la stessa non era stata nuovamente dedotta in appello, ha escluso la sussistenza di un concorso colposo del cliente, precisando che non ‘può rilevare l’even tuale negligenza della condotta del Marino (…) per aver omesso di vigilare sulla concreta presentazione delle dichiarazioni, condotta che viceversa appare giustificata dalla lunga durata del rapporto professionale tra l’appellante e l’appellato e della con seguente fiducia che il primo riponeva sul secondo’. Tale argomentazione, comunque ragionevole, non è censurata in questa sede.
Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3 c.p.c., la violazione dell’articolo 115 c.p.c. La Corte territoriale nel ritenere sussistente l’elemento soggettivo dell’azione revocatoria ha fatto riferimento a una circostanza fattuale (il Marino avrebbe prontamente allertato il commercialista degli avvisi di accertamento ricevuti con conseguente consapevolezza del pregiudizio arrecato al cliente) mai dedotta da parte del Marino.
Il motivo è inammissibile perché dedotto in violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente l’elemento soggettivo in capo al debitore/venditore, ‘non potendosi dubitare che il RAGIONE_SOCIALE fosse consapevole di arrecare pregiudizio alle ragioni dei creditori (c.d. scientia damni). Ed infatti, lo stesso fu avvisato prontamente dal COGNOME in merito agli avvisi di accertamento ricevuti e quindi era consapevole del danno arrecato all’appellante’.
Orbene, la parte che intenda contestare davanti al giudice di legittimità le circostanze di fatto poste a sostegno della motivazione della sentenza impugnata ha l’onere di trascrivere il corrispondente passaggio dell’atto di costituzione e risposta gli eventuali ulteriori scritti difensivi al fine di dimostrare che non vi sarebbe stato alcun riconoscimento riguardo al fatto di essere stato avvisato dal cliente delle sanzioni conseguenti all’inadempimento professionale. Sotto tale profilo il motivo è assolutamente generico traducendosi in una contestazione di quanto affermato nella sentenza impugnata.
Il ricorso, pertanto, va rigettato con declaratoria di sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento del doppio contributo.
PTM
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte