Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 32789 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 32789 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 879/2023 R.G. proposto da :
COGNOME, COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-controricorrente-
nonchè
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in COLLEFERRO INDIRIZZO DOMICILIO DIGITALE, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
nonchè contro COGNOME NOME COGNOME NOME, COGNOME NOME
-intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 6693/2022 depositata il 25/10/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa
1. -I signori NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME erano soci di una società commerciale, che ebbero, ad un certo punto, l’intenzione di vendere. Per poterlo fare, occorreva che la società fosse rivalutata rispetto al valore iniziale di quando era stata costituita. A tale scopo i soci incaricarono due commercialisti, dapprima il ragioniere NOME COGNOME ed in seguito il dott. NOME COGNOME.
2. -Il ragionier COGNOME effettuò una prima rivalutazione, cui fece seguito quella del dott. COGNOME. Entrambe le stime però vennero rifiutate da Agenzia delle Entrate che notò delle irregolarità, di cui meglio si dirà nel corso della motivazione, che portarono il Fisco a
sanzionare la società ed a recuperare parte delle imposte che l’errore dei commercialisti aveva sottratto.
3. -I soci, dunque, all’esito dell’accertamento fatto dal Fisco nei loro confronti, a cui aderirono, hanno citato in giudizio i due commercialisti sul presupposto che costoro avevano erroneamente effettuato la rivalutazione e comunque la determinazione ed il versamento dei tributi conseguenti.
I convenuti hanno resistito alla domanda, ed hanno ottenuto la chiamata in causa delle rispettive società di assicurazione, RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE, ora assorbite da RAGIONE_SOCIALE
4. -Il Tribunale di Velletri ha rigettato la domanda. Ha ritenuto che l’incarico ai due commercialisti riguardasse soltanto la rivalutazione della società e non già il calcolo dell’imposta, con la conseguenza che l’erronea determinazione di quest’ultima non poteva essere a costoro imputata.
5. -La decisione è stata impugnata: nelle more dell’appello sono però deceduti i signori NOME COGNOME e NOME COGNOME e la causa è stata riassunta nei confronti dei loro eredi.
La Corte di Appello di Roma, a differenza di quanto aveva ritenuto il giudice di primo grado, ha accolto la tesi secondo cui nel contratto di incarico professionale era compresa altresì la stima del tributo da assolvere, ed ha di conseguenza esaminato le posizioni dei due commercialisti in modo distinto. Quanto al Colonna, la Corte di Appello ha ritenuto che, per quanto attiene specificamente alla prima rata, Agenzia delle Entrate ha contestato l’inefficacia della operazione di rivalutazione, ai fini della agevolazione, poiché la prima rata era stata versata in misura inferiore al dovuto.
Ha dunque ritenuto il Colonna responsabile delle conseguenze negative di tale erroneo calcolo dell’imposta, che ha poi comportato gli avvisi di accertamento da parte del Fisco.
Quanto al COGNOME, invece, era contestato a costui di avere compensato parte della imposta dovuta per la seconda
rivalutazione con quella pagata a seguito della prima. La Corte di Appello ha, si, ritenuto che questa compensazione, poi smentita da Agenzia delle Entrate, non era ammissibile, ma ha accertato che la legge vigente in quel momento era di dubbia interpretazione; che infatti, solo dopo che la stima del Frasca era stata effettuata, la stessa Agenzia delle Entrate ha precisato meglio che la compensazione non poteva farsi. Ne ha ricavato che si è trattato di un errore scusabile, tale da non comportare responsabilità professionale.
-Questa decisione è ora oggetto di ricorso da parte dei due soci superstiti, NOME COGNOME e NOME COGNOME con cinque motivi di ricorso, illustrati da memoria, cui hanno fatto seguito il controricorso di Frasca e quello delle Generali spa, entrambi illustrati da memoria.
Ragioni della decisione
1. -Il ricorso ha ad oggetto la sola responsabilità del COGNOME, in quanto non c’è impugnazione sul capo di sentenza che ha riguardato il Colonna.
Il primo motivo di ricorso prospetta violazione degli articoli 1176 e 2236 c.c., nonché delle norme dello Statuto del contribuente. La tesi è la seguente.
Al COGNOME, come si è detto, era stato dato incarico di determinare anche l’imposta da pagare sulla operazione di rivalutazione. Egli l’ha, si, calcolata, ma ha ritenuto che parte di essa potesse compensarsi con quella già versata nella prima operazione di rivalutazione, ossia quella curata dal Colonna. Ed è stato un errore. L’idea di compensare era basata sulla interpretazione della legge 448 del 2001, su cui era intervenuta la successiva legge n. 282 del 2002. Quest’ultima, secondo una successiva circolare interpretativa del Fisco, era da intendersi come mera proroga delle facoltà
previste nella legge precedente, non già come estensione del contenuto di esse.
Ma, i giudici di appello, pur prendendo atto che la legge, cosi combinata, non intendeva consentire la compensazione, hanno tuttavia ritenuto che la tesi secondo cui invece la consentiva era comunque prospettabile, o almeno, in quel momento, l’averla intesa in quei termini ha costituito errore scusabile.
Inoltre, hanno sostenuto che rispetto ad errori consistenti nella interpretazione di atti normativi, la responsabilità del professionista va valutata alla stregua della colpa grave, che era da escludersi nella condotta del COGNOME, proprio a cagione della mancanza di una prassi interpretativa fruibile al momento dell’espletamento dell’incarico.
Con il primo motivo dunque si censura questa ratio decidendi , osservando come, al contrario di quanto deciso in secondo grado, deve ritenersi responsabilità del commercialista in quanto era principio vigente, e lo è tuttora, ed è pacifico, che la compensazione di tributi può farsi solo ove autorizzata dalla legge. E la legge non la autorizzava, per l’appunto.
Ed il principio per cui la compensazione opera solo se autorizzata dalla legge era già noto ai tempi in cui l’incarico è stata espletato. Era già un principio giurisprudenziale affermato. Ed inoltre era stato codificato nello Statuto del Contribuente.
I ricorrenti osservano come, tempo dopo, la giurisprudenza di questa Corte abbia chiaramente escluso che la legge applicata dal commercialista consentisse la compensazione (e si riferiscono in particolare a Cass. 24057 del 2014).
In conclusione, il commercialista doveva sapere che la compensazione poteva essere fatta solo se autorizzata dalla legge e l’ignoranza di tale principio non può, secondo i ricorrenti, considerarsi scusabile.
Questo motivo è infondato.
I giudici di merito non hanno considerato scusabile l’ignoranza del principio di ‘legalità’ della compensazione, che invece il commercialista conosceva; hanno considerato scusabile il fatto di aver ritenuto erroneamente che la legge che lui applicava quella compensazione autorizzasse, che dunque quella legge fosse espressione di quel principio.
Più precisamente: il commercialista ha previsto e suggerito alle parti la compensazione in quanto ha interpretato la legge nel senso che quella compensazione autorizzava. Di conseguenza, l’errore non è stato nell’avere negato l’esistenza del principio secondo il quale la compensazione può farsi solo ove la legge lo consenta o di averlo ignorato, cioè non è stato nell’avere fatto una compensazione sul presupposto che si potesse fare pur se la legge non la autorizzava. L’errore è consistito nell’avere ritenuto che la legge vigente, per l’appunto, autorizzasse la compensazione.
E questa è la ratio della decisione impugnata: che il COGNOME ha inteso la norma in un senso diverso da quello che doveva alla norma attribuirsi.
Ma questa ratio è censurata in modo insufficiente, poiché i ricorrenti si soffermano sulla violazione del principio di ‘legalità’ della compensazione, e dunque ne traggono la conclusione che l’errore non poteva essere scusabile, ossia l’errore, secondo loro, di avere ignorato il principio suddetto, ma non dicono alcunché sulla scusabilità del vero errore, ossia quello di avere ritenuto che la legge vigente fosse espressione di quel principio. In altri termini, mentre da un lato si dice che l’errore di avere ignorato il principio sulla compensazione tributaria è stato grave, ed è errore che non è stato commesso, alcunché si dice invece sulla gravità dell’errore vero, quello di aver ritenuto che la legge vigente consentisse la compensazione e fosse dunque espressione di quel principio.
Comunque sia, anche ad ammettere che questo motivo censuri l’erronea attribuzione alla legge di un significato errato, esso è comunque infondato.
E’ emerso infatti che, al momento della consulenza, sia la legge del 2001 che quella del 2002 erano in vigore da poco, non vi erano ancora prassi interpretative, ed il testo della legge non era chiarissimo: prova ne sia che la stessa Agenzia delle Entrate, dopo qualche mese dalla conclusione della consulenza, ha chiarito come dovesse interpretarsi la norma, e prova ne sia che le decisioni di questa Corte sul significato di quelle leggi, e dunque sul fatto che non se ne potesse ricavare la facoltà di compensazione, sono di qualche anno successivo.
Ed allora, l’errore interpretativo – che, si ripete, starebbe nel fatto di avere inteso quelle norme come tali da autorizzare la compensazione, e dunque come tali da costituire specificazione del principio di ‘legalità’ della compensazione tributaria -è un errore scusabile, che non manifesta violazione degli obblighi di diligenza e perizia imposti al professionista.
Ma questo argomento consente di scrutinare il terzo motivo, in anticipo sul secondo.
-Il terzo motivo infatti prospetta violazione dell’articolo 2236 c.c.
La Corte di appello, nell’escludere la responsabilità del professionista, ha ritenuto che la colpa nella interpretazione di norme debba essere valutata rigorosamente e che quindi il professionista risponde se è in colpa grave e non risponde se è in colpa lieve, e che, nel caso presente, la ambiguità di significato, il fatto che non vi fosse alcuna indicazione su come intendere correttamente la norma, fanno escludere una colpa grave, che invece è violazione di regole cautelari evidenti, o di più agevole osservazione.
Questa ratio è censurata dai ricorrenti sostenendo che invece il professionista, in assenza di indicazioni, avrebbe dovuto chiedere parere all’autorità amministrativa, o comunque avrebbe dovuto propendere per la soluzione meno rischiosa, o ancora avrebbe dovuto fare applicazione del già ricordato principio di ‘legalità’ della compensazione.
Anche questo motivo è infondato.
E’ principio di diritto che nei casi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la responsabilità del professionista nei confronti del suo cliente a meno di dolo o colpa grave (Cass. 1161/ 1990; Cass. 10068/ 1996; Cass. 16846/ 2005; Cass. 974/ 2007; Cass. 20828/ 2009). Regola, questa, che sebbene dettata per la prestazione dell’avvocato, è altresì valida per ogni altra prestazione professionale simile.
Ora, l’accertamento della speciale difficoltà della prestazione, e dunque l’accertamento del livello di difficoltà di interpretazione di disposizioni dubbie, è rimesso al giudice di merito, ed è insindacabile in Cassazione se non per difetto di motivazione (Cass. 7618/ 1997; Cass. 5945/ 2000; Cass. 2836/ 2002; Cass. 10297/ 2004).
Ma, anche a prescindere da ciò, non può ritenersi che costituisca colpa grave il fatto di non avere chiesto parere alla autorità amministrativa, perché altrimenti dovrebbe dirsi che è imposta ad ogni professionista la cautela (generica) di chiedere la corretta interpretazione della legge ad altri: il che non è ricavabile da alcuna norma del sistema. E senza tacere che sarebbe imposta una generale cautela di chiedere la corretta interpretazione ad una autorità amministrativa, che non ha ovviamente di suo il potere di esprimerla in modo vincolante. Colpa grave, infatti, è violazione di una regola cautelare, che, potendo essere seguita da tutti, e non solo da chi abbia una particolare attitudine o competenza, a tutti si rivolge. Ma è da dimostrare che il prestatore d’opera abbia una
simile cautela a suo carico, che gli imponga di rivolgersi ad una -peraltro non precisata -autorità amministrativa per avere responso sul significato di una legge dubbia.
-Il secondo motivo prospetta violazione degli articoli 1176 e 2236 c.c.
Sempre riguardo alla erronea interpretazione della legge all’epoca vigente, osservano i ricorrenti che, nel dubbio, il commercialista avrebbe dovuto avvisare i clienti e prospettare loro le due diverse interpretazioni, o le possibili diverse interpretazioni.
In particolare, secondo i ricorrenti, il commercialista avrebbe violato l’obbligo di informare il cliente, in due modi: intanto, perché non lo ha informato della esistenza di una difficoltà interpretativa della norma; in secondo luogo, perché non ha consigliato loro la soluzione più prudente.
Questo motivo è inammissibile.
Esso risulta infatti prospettato qui per la prima volta.
Non vi è traccia di una tale questione nei giudizi di merito, dove non risulta che il comportamento del commercialista sia stato censurato per violazione del dovere di informazione verso il cliente. Non vi è traccia di tale questione nella decisione impugnata, né i ricorrenti allegano di averla prospettata, in qualche modo, in precedenza.
-Il quarto motivo , che denuncia violazione dell’articolo 91 c.p.c., attiene ad altro.
Il giudice di appello ha condannato i ricorrenti alle spese del giudizio di secondo grado, tenendo conto del valore iniziale della causa (che era di oltre 600 mila euro) e dunque applicando lo scaglione tra 560 mila ed 1 milione.
E tuttavia, poiché nel corso del giudizio due delle parti attrici sono morte, e gli eredi, nei cui confronti è stata fatta riassunzione, non si sono costituiti, il valore della causa deve ritenersi diminuito, con conseguente diverso scaglione di riferimento.
Il motivo è infondato.
Il valore della causa non è affatto diminuito per via del fatto che due parti sono morte e gli eredi non si sono costituiti: la circostanza che gli eredi non si siano costituti, infatti, non comporta diminuzione del valore iniziale della domanda.
Il valore della controversia si stabilisce infatti con riferimento alla domanda introduttiva, rispetto alla quale risultano irrilevanti le successive modificazioni, anche se dovute al venir meno di alcune delle parti in causa, salvo che ovviamente il disputatum non cambi in appello, come nel caso in cui il giudizio di secondo grado abbia ad oggetto, per l’appunto, solo l’entità delle spese liquidate nel primo (Cass. 18465/ 2024).
-Il quinto motivo ripropone una quesitone assorbita nel giudizio di appello, a cagione del rigetto della domanda, ossia quella del danno da riconoscere ai ricorrenti; questione che ovviamente resta assorbita anche qui.
Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese, in ragione della specificità della questione, che verte su difficoltà interpretative imputabili al professionista nella imminenza della entrata in vigore delle leggi da interpretare, possono compensarsi.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi quattro motivi. Dichiara assorbito il quinto. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 .
Così deciso in Roma, il 02/12/2024.
Il Presidente
NOME COGNOME