Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21079 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21079 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13865/2023 R.G. proposto da:
NOME, rappresentato e difeso da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrente-
contro
PRESIDENZA DEL RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’ RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di GENOVA n. 456/2023 depositata il 24/04/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/06/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 4 ottobre 2018 NOME COGNOME convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE,
R.G. 13865/2023
COGNOME.
Rep.
C.C. 13/6/2024
C.C. 14/4/2022
RESPONSABILITÀ CIVILE MAGISTRATI.
davanti al Tribunale di Genova, chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni in suo favore, ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117, conseguenti all’operato di tre magistrati, cioè il COGNOME NOME COGNOME e la COGNOMEssa NOME COGNOME, entrambi della Procura della Repubblica di Arezzo, e il COGNOME NOME COGNOME, magistrato del Tribunale della medesima città.
A sostegno della domanda prospettò a carico dei suindicati magistrati una serie di negligenze conseguenti alla sua iscrizione nel registro degli indagati in qualità di probabile mediatore dell’azione usuraria compiuta da altri soggetti. In particolare, ai limitati fini che interessano in questa sede, il COGNOME lamentò di aver subito, a seguito di un decreto emesso dal dottAVV_NOTAIO COGNOME in data 13 maggio 2014, la perquisizione locale e personale nella sua abitazione, con contestuale sequestro di una serie di beni, asseritamente in assenza di indizi e prove del reato contestato e senza un’adeguata motivazione. Aggiunse che, proposta istanza di dissequestro al Tribunale del riesame di Arezzo, quest’ultimo aveva accolto la richiesta con provvedimento del 6 giugno 2014, ordinando il dissequestro dei beni. Tuttavia, nonostante numerose sue sollecitazioni, era stata disposta la proroga delle indagini e solo in data 26 gennaio 2017 il AVV_NOTAIO aveva disposto l’archiviazione del procedimento a suo carico.
Si costituì in giudizio la RAGIONE_SOCIALE, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda. Rilevò quel Giudice, in rapporto al decreto di perquisizione, che il termine di decadenza fissato dalla legge per l’esercizio dell’azione di responsabilità da ritenere biennale ratione temporis -fosse decorso, dovendo esso avere inizio dalla scadenza del termine per proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento pronunciato dal Tribunale del riesame; termine che, nella specie, decorreva dal 21 giugno 2014 e
che, pertanto, era ampiamente consumato al momento della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio.
La decisione è stata impugnata dall’attore soccombente e la Corte d’appello di Genova, con sentenza del 24 aprile 2023, ha rigettato l’appello e ha condannato l’appellante alla rifusione delle spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di residuo interesse in questa sede, che in ordine all’azione di responsabilità relativa al decreto di perquisizione del 13 maggio 2014 doveva confermarsi l’intervenuta decadenza per decorso del termine.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Genova propone ricorso NOME COGNOME con atto affidato ad un solo motivo.
Resiste la RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 132, n. 4) cod. proc. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., per non avere la Corte d’appello risposto alle critiche mosse nell’atto di appello avverso la sentenza del Tribunale.
Il ricorrente riporta i passaggi dell’atto di appello nel quale aveva sostenuto che la decorrenza del termine dalla data del 21 giugno 2014 era errata, posto che, in considerazione del segreto istruttorio, soltanto con il decreto di archiviazione egli era stato messo in condizione di conoscere il contenuto degli atti di indagine. Solo dal gennaio 2017, quindi, egli aveva potuto esaminare gli atti della Guardia di finanza, in mancanza dei quali non si sarebbe potuta proporre l’azione di responsabilità; e la Corte d’appello nulla avrebbe risposto sul punto, incorrendo nel vizio di omessa
pronuncia o, comunque, fornendo una motivazione al di sotto del c.d. minimo costituzionale.
L’esame del motivo richiede alcune considerazioni preliminari.
2.1. La prima, desumibile dal contenuto del ricorso e dal complesso delle argomentazioni proposte, è che la censura deve intendersi ormai ristretta al solo operato del COGNOME COGNOME, con conseguente esclusione degli altri due magistrati suindicati. Tanto si deduce sia dal richiamo della motivazione resa in primo grado dal Tribunale -che il ricorrente trascrive in parte alla p. 7 del ricorso, motivazione dalla quale emerge che la questione riguardava il decreto di perquisizione, emesso appunto dal COGNOME COGNOME -sia dall’esposizione dei motivi di appello, che il ricorrente riporta alle pp. 11-14 del ricorso.
2.2. La seconda considerazione, in diritto, è che tanto il Tribunale quanto la Corte d’appello hanno correttamente stabilito che nel caso in esame il termine di decadenza dell’azione risarcitoria era biennale e non triennale. Occorre tenere presente, infatti, che la modifica dell’art. 4, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, disposta dall’ art. 3, comma 1, lettera a ), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 -secondo cui il termine di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria è stato innalzato da due a tre anni -non può trovare applicazione nel caso in esame, nel quale il comportamento asseritamente fonte di responsabilità, costituito dal decreto di perquisizione del 13 maggio 2014, si è consumato uno actu in data antecedente all’entrata in vigore della riforma del 2015, senza che sia ipotizzabile un’applicazione retroattiva della normativa sopravvenuta.
Tale ricostruzione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte la quale, prendendo le mosse dalla constatazione per cui la novella del 2015 non ha previsto anche una normativa transitoria, ha escluso che le modifiche da questa introdotte possano trovare
applicazione anche in relazione a fatti intervenuti in epoca antecedente rispetto alla sua entrata in vigore (v. in tal senso le sentenze 15 dicembre 2015, n. 25216, e 7 aprile 2016, n. 6810).
D’altra parte, la circostanza per cui il fatto dannoso è costituito dal decreto di perquisizione fa sì che alla data di notifica dell’atto introduttivo del presente giudizio di responsabilità (4 ottobre 2018) il termine di decadenza era sicuramente perento, anche volendo (per mera ipotesi teorica) supporre che quel termine fosse triennale.
2.3. Ciò premesso, la Corte osserva che nell’unico motivo di ricorso è stata posta una censura di omessa pronuncia, consistente nel fatto che la Corte d’appello non avrebbe risposto al motivo di gravame col quale l’appellante, odierno ricorrente, aveva sostenuto che soltanto col decreto di archiviazione egli sarebbe venuto a conoscenza di tutti gli atti di indagine in base ai quali il dottAVV_NOTAIO COGNOME aveva disposto la perquisizione. Di talché, nell’assunto del COGNOME, nessuna decadenza dall’azione risarcitoria poteva sussistere a suo carico, posto che il relativo termine -biennale o triennale che fosse -non poteva decorrere, dato che l’art. 4, comma 5, della legge n. 117 del 1988 dispone che quel termine non decorre «nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto».
Si deve rilevare, esaminando il motivo di censura, che esso è carente, innanzitutto, là dove non illustra con chiarezza le ragioni per le quali, una volta intervenuto il dissequestro dei beni del COGNOME in virtù del provvedimento favorevole emesso dal Tribunale del riesame di Arezzo (già in data 6 giugno 2014), sarebbe stato necessario attendere il provvedimento di archiviazione, intervenuto il 26 gennaio 2017, per conoscere il contenuto di tutti gli atti di indagine. Ed invero, anche volendo dare credito alla versione del ricorrente, formulata alla p. 4 del ricorso, secondo cui il COGNOME aveva depositato presso il Tribunale del riesame non la
comunicazione della notizia di reato della Guardia di finanza del 2013, bensì la «diversa nota n. 0036139/14 del 4 febbraio 2014», resta il fatto che il Tribunale provvide comunque immediatamente al dissequestro dei beni; per cui i danni conseguenti alla presunta impossibilità di svolgere il proprio lavoro (in considerazione della perquisizione e del conseguente sequestro) dovevano considerarsi, a quel punto, venuti meno.
Detto questo, la Corte rileva che è corretta la decisione di merito là dove ha collocato la data di esordio del termine di decadenza al 21 giugno 2014, «momento in cui il provvedimento di perquisizione è divenuto definitivamente inoppugnabile», in ossequio alla regola generale di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988 (esaurimento dei mezzi ordinari di impugnazione). Ma si deve anche osservare, proprio in considerazione dell’esito favorevole della richiesta di riesame avanzata dall’odierno ricorrente al Tribunale di Arezzo, che non è affatto chiaro quale interesse avrebbe potuto avere il COGNOME all’impugnazione di un provvedimento che era stato, nei suoi confronti, di pieno accoglimento. A meno che non si voglia sostenere -ma nulla in tal senso emerge dal ricorso -che la vera doglianza che il ricorrente intende proporre non è tanto il fatto di aver subito il decreto di perquisizione e il sequestro, quanto quello di essere rimasto formalmente ancora indagato fino al momento in cui non venne emesso il decreto di archiviazione; ma è chiaro che questa è una censura diversa, non prospettata e, come tale, neppure ipotizzabile in questa sede.
Rileva il Collegio, infine, che, anche volendo trascurare la mancanza di chiarezza in ordine all’effettivo pregiudizio subito dal ricorrente, la Corte d’appello, esaminando l’operato dei magistrati asseritamente responsabili del fatto dannoso, ha messo in luce, proprio in relazione al decreto di perquisizione con conseguente
sequestro, una serie di elementi dei quali il ricorso non si è in alcun modo occupato.
Dalla lettura del provvedimento impugnato si apprende, infatti, che dalle note informative della Guardia di finanza acquisite agli atti emergeva come a carico del COGNOME vi fossero una serie di elementi astrattamente idonei a considerarlo come possibile mediatore di attività usuraria. Sulla base di tali elementi erano state disposte anche intercettazioni telefoniche a carico del COGNOME, dalle quali erano risultati i suoi contatti con alcuni dei soggetti coinvolti nel procedimento per reati di usura. Quegli elementi sono stati considerati dalla Corte d’appello come «sufficienti a descrivere un quadro indiziario riferibile al reato di mediazione in usura nei confronti del COGNOME, tale da poter integrare i presupposti necessari per l’iscrizione dell’appellante nel registro degli indagati, in presenza della relativa notizia di reato».
Ne consegue che, anche volendo ipotizzare che la lamentata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sia realmente esistente per non essersi la Corte d’appello pronunciata in modo esplicito sulla censura ad essa proposta -resta il fatto, decisivo, per cui il ricorrente nulla ha osservato rispetto a tale ratio decidendi del provvedimento impugnato, la quale è autonoma e di per sé idonea a sorreggerne il fondamento. Con l’ovvia conseguenza che l’aver omesso ogni censura in ordine a queste considerazioni si traduce in una ragione di inammissibilità del ricorso, come da pacifica giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, l’ordinanza 26 febbraio 2024, n. 5102).
Il citato passaggio della motivazione della Corte d’appello dà anche piena giustificazione, poi, della decisione dei magistrati inquirenti di procedere all’iscrizione del COGNOME nel registro degli indagati. E questa considerazione costituisce un’ulteriore ragione di inammissibilità del ricorso in esame.
Rileva la Corte, infine, che, alla luce del complesso delle considerazioni svolte e della ricostruzione di quella che è la motivazione resa dalla Corte d’appello nella sua globalità, si debba escludere con certezza che sussista l’ipotizzata ex art. 132, secondo coma, n. 4 c.p.c. – nullità della pronuncia impugnata per asserita motivazione al di sotto del «minimo costituzionale».
Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile.
A tale esito segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 3.000, oltre spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza