Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 209 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 3 Num. 209 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15334/2022 R.G., proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona dei procuratori speciali dott. NOME COGNOME e dott. NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo Studio dell’Avvocato NOME COGNOME ), che la rappresenta e difende, in virtù di procura in calce al ricorso;
-ricorrente-
nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ; elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocato NOME COGNOME ), dell’Area Legale Territoriale Centro di Poste Italiane, che la
rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato NOME COGNOME in virtù di procura a margine del controricorso;
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza n. 676/2021 del TRIBUNALE di TRIESTE emessa in grado di appello, depositata il 2 dicembre 2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13 settembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
udito l’Avvocato NOME COGNOME
udito l’Avvocato NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso, ribadendo le conclusioni già formulate in forma scritta.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio, dinanzi al Giudice di pace di Trieste, RAGIONE_SOCIALE deducendo che:
aveva stipulato con la convenuta un contratto di conto corrente bancario cui accedeva il servizio di collegamento telematico Banco RAGIONE_SOCIALE (BPIOL);
tra i servizi cui Poste italiane si era contrattualmente obbligata figurava quello di dare esecuzione ai cc.dd. ‘bonifici domiciliati’ in favore di soggetti sprovvisti di conto corrente bancario o dei quali fossero ignote le relative coordinate; bonifici che essa RAGIONE_SOCIALE, grazie al predetto servizio RAGIONE_SOCIALE, poteva disporre direttamente in via telematica, inserendo nel sistema i dati del beneficiario e comunicando a quest’ultimo le indicazioni e il codice di riferimento per il ritiro dell’importo presso un ufficio postale;
utilizzando questo servizio, essa aveva disposto, tra gli altri, un bonifico domiciliato dell’importo di Euro 800,00 in favore di un suo creditore, tale NOME COGNOME comunicandogli la password per l’incasso e le altre istruzioni necessarie per il ritiro della somma, nonché l’invito a presentarsi, a tal fine, presso un qualsiasi sportello postale;
RAGIONE_SOCIALE aveva però eseguito il pagamento a persona diversa dal beneficiario, la quale aveva falsamente dichiarato di essere il creditore dopo essersi presentata all’incasso munita di documento di identità presumibilmente falso;
essa aveva quindi dovuto procedere ad un nuovo pagamento, per soddisfare il reale creditore.
Sulla base di queste deduzioni -ed assumendo altresì che, in ragione dell’indebito pagamento a persona diversa dal beneficiario, Poste Italiane s.p.a. dovesse ritenersi inadempiente rispetto all’obbligazione contrattualmente assunta domandò la condanna della convenuta al risarcimento del danno subìto in ragione della duplicazione del pagamento.
Il Giudice di pace di Trieste accolse la domanda e condannò Poste Italiane al pagamento in favore di Genertel della somma da questa richiesta, oltre interessi, sul presupposto che, ai sensi dell’art. 43, secondo comma, del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (legge sugli assegni) la convenuta fosse responsabile, nei confronti della disponente, del pagamento effettuato a persona non legittimata, a prescindere dalla sussistenza della colpa nell’identificazione del beneficiario.
La decisione è stata integralmente riformata, in appello, dal Tribunale di Trieste, il quale, in accoglimento dell’impugnazione proposta da Poste Italiane, ha rigettato la domanda di Genertel, sulla base dei seguenti rilievi:
il bonifico domiciliato, quale sistema di pagamento che consente ai correntisti di Poste Italiane s.p.a., sulla base di specifica convenzione, di effettuare pagamenti in contanti su tutto il territorio nazionale, anche a favore di chi non ha, invece, un conto postale o bancario, avrebbe natura di delegatio solvendi , che si inserisce nel rapporto di mandato sotteso a quello di conto corrente, per effetto della quale l’istituto depositario riceve l’incarico dall’ordinante di accreditare al beneficiario la somma oggetto della provvista;
-quale delegazione titolata, ma non ‘cartolarizzata’, il bonifico domiciliato concreterebbe dunque un istituto ontologicamente diverso rispetto all’assegno, sia pure munito della clausola di non trasferibilità, il quale è invece un titolo di credito, sicché non sarebbe applicabile a tale diverso istituto la regola di cui all’art. 43, secondo comma, del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, dettata per l’assegno bancario non trasferibile ed estesa all’assegno circolare per effetto del richiamo contenuto nell’art. 86 dello stesso regio decreto;
-esclusa l’applicabilità dell’art. 43, secondo comma, della legge sugli assegni, doveva però riconoscersi che l’assetto contrattuale vigente tra le parti comportava, nella fattispecie, una deroga alla regola generale dell’art. 1189 cod. civ., non potendo la mandataria reputarsi liberata in ragione dell’apparente legittimazione a ricevere dell’ accipiens , ma dovendo essa ritenersi onerata, secondo i principi generali che presiedono all’esperimento delle azioni contrattuali, della dimostrazione dell’esatto ad empimento o della non imputabilità dell’inadempimento, provando o di aver pagato al reale creditore o di avere adoperato la dovuta diligenza nella identificazione della persona presentatasi all’incasso;
nel caso concreto, la prova della prima circostanza era mancata ma era stata fornita la dimostrazione della seconda, poiché Poste s.p.a. aveva proceduto con diligenza all’identificazione dell’ accipiens nel rispetto delle condizioni generali di contratto, che imponevano, da un lato, di riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica effettuata dall’ordinante con quelli riportati sui documenti di riconoscimento presentati dal beneficiario per la riscossione; e, dall’al tro lato, di ricevere, da parte del beneficiario, la comunicazione del proprio codice fiscale e della parola chiave fornitagli dall’ordinante, per controllarne la coincidenza con quelli presenti nel flusso del mandato elettronico;
in particolare, la carta di identità in corso di validità e il codice fiscale esibiti dalla persona presentatasi all’incasso erano stati verificati e annotati nella quietanza;
la quietanza, dunque, riportava, oltre al codice fiscale del richiedente (corrispondente a quello dell’effettivo beneficiario), anche gli estremi di un documento di identità, verificato unitamente al codice fiscale e alla password per l’incasso, comunicata dalla società che aveva ordinato il bonifico; circostanze che consentivano di ritenere assolto l’onere di avere adoperato la dovuta diligenza nell’identificazione del destinatario del pagamento;
in proposito, doveva altresì negarsi portata precettiva alla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001, relativa all’opportunità per la banca negoziatrice dell’assegno di traenza di richiedere due documenti d’identità muniti di foto grafia al presentatore del titolo, e doveva conclusivamente ritenersi che l’aver pagato al beneficiario (ancorché presunto) di un bonifico domiciliato, individuato come tale nella persona che aveva mostrato un documento di identità con le generalità del beneficiario stesso e che, inoltre, era in possesso del codice fiscale e della password per l’incasso, costituisse una condotta adeguata con riferimento all’obbligazione contrattualmente assunta;
-d’altra parte, il flusso telematico conteneva l’indicazione del nominativo, dell’indirizzo e del codice fiscale del beneficiario, ma Genertel aveva omesso di indicare elementi ulteriori, come la data di nascita o il documento di identificazione, che avrebbero potuto consentire all’operatore postale di riscontrare l’eventuale diversa identità del soggetto richiedente il pagamento.
Ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE sulla base di tre motivi. Ha risposto con controricorso Poste Italiane s.p.a..
La trattazione del ricorso è stata fissata in pubblica udienza.
Il Procuratore Generale, anticipando le medesime richieste formulate in udienza, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
La società ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo viene denunciata « violazione e falsa applicazione dell’art. 43, secondo comma, del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736 (Legge Assegni) e dell’art. 12 Disp. sulla legge in generale, a’ sensi dell’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ. ».
La sentenza d’appello è censurata nella parte in cui esclude l’applicazione analogica, alla fattispecie in esame, dell’art. 43, secondo comma, del R.D. n. 1736 del 1933 (legge assegni).
La società ricorrente sostiene che il servizio di bonifico domiciliato presenti evidenti tratti di somiglianza con la struttura dell’assegno bancario non trasferibile, poiché, da un lato, anche il primo risponderebbe alla funzione di individuare un unico beneficiario della disposizione, non sostituibile, il cui diritto al pagamento deriva dall’ordine effettuato dal correntista all’Istituto; mentre dall’altro lato, il secondo, munito della clausola di non trasferibilità, avrebbe ormai perduto il proprium legato alla sua natura di titolo di credito, in ragione del regime di « circolazione attenuata » progressivamente assunto a seguito dei reiterati interventi legislativi in materia di tracciabilità e controllo dei redditi e dei flussi finanziari.
Pertanto, la lacuna di disciplina ravvisabile in ordine alla fattispecie del bonifico domiciliato dovrebbe essere colmata attraverso l’estensione analogica di quella dettata per l’assegno bancario non trasferibile, con la conseguenza che, in caso di erroneo pagamento a persona diversa dal beneficiario, l’istituto negoziatore dovrebbe risponderne verso l’ordinante ai sensi del citato art. 43, secondo comma, del R.D. n. 1736 del 1933.
Tra l’altro, aggiunge la società ricorrente, avuto riguardo al prevalso orientamento giurisprudenziale (viene citata la sentenza n. 12477 del 2018 delle Sezioni Unite di questa Corte), la responsabilità della banca negoziatrice dell’assegno verso il traent e, ex art. 43 cit. , ad onta del testo della disposizione, non andrebbe qualificata come responsabilità oggettiva ma come responsabilità per colpa, sicché la questione della sua applicabilità o meno alla fattispecie del bonifico
domiciliato assumerebbe una portata meramente teorica, trovando comunque applicazione le regole generali in materia di inadempimento delle obbligazioni.
1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
1.1.a L’inammissibilità del motivo emerge anzitutto alla luce dell’ultimo rilievo formulato dalla stessa società ricorrente, atteso che la doglianza concerne l’asserita violazione di una norma di legge la cui applicazione, alla stregua delle stesse deduzioni della denunciante, sarebbe irrilevante.
1.1.b. L’inammissibilità del motivo emerge anche in considerazione della reale ratio decidendi della sentenza impugnata, con la quale esso non sembra adeguatamente confrontarsi (v., già, in tal senso, con riguardo ad una fattispecie sovrapponibile alla presente, Cass. 13/09/2022, n. 26866).
Il giudice di appello, infatti, pur affermando che alla fattispecie in esame non può estendersi la disciplina contenuta nell’art. 43, secondo comma, R.D. n. n. 1736 del 1933, ha ritenuto soggetta la fattispecie medesima al regime della responsabilità contrattuale, correttamente sancendo, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, che gravava su Poste Italiane s.p.a. l’onere di dimostrare, alternativamente, o di avere esattamente adempiuto (pagando al reale beneficiario) o (nell’ipotesi in cui avess e pagato a persona diversa) di avere comunque eseguito la prestazione con la dovuta diligenza (che è quella nascente, ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 cod. civ., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve), con conseguente non imputabilità dell’inadempimento.
Tale regime di responsabilità (con la connessa regola di riparto dell’onere probatorio), a seguito dell’interpretazione evolutiva dell’art. 43, secondo comma, della legge sugli assegni, offerta dalla giurisprudenza di legittimità, non si differenzia dal regime che connota la responsabilità della banca negoziatrice verso il traente
per l’ipotesi di pagamento dell’assegno bancario non trasferibile a persona diversa dal prenditore.
Infatti, questa Corte, nel suo massimo consesso (con la sentenza n. 12477 del 2018 delle Sezioni Unite di questa Corte, richiamata anche dalla ricorrente) ha affermato -e il principio è stato successivamente più volte ribadito a sezione semplice (Cass. 11/05/2023, n. 12861; Cass. 12/02/2021, n. 3649) -che la responsabilità della banca negoziatrice ha carattere contrattuale da contatto sociale e, pertanto, non ha natura di responsabilità oggettiva, la quale è ravvisabile solo laddove difetti un rapporto in senso lato ‘contrattuale’ tra danneggiante e danneggiato, ed il primo sia chiamato a rispondere del fatto dannoso nei confronti del secondo, non per essere con questi entrato in contatto, ma in ragione della particolare posizione rivestita o della relazione che lo lega alla res causativa del danno.
Da tale principio è stata tratta l’implicazione che la norma dell’art. 43, secondo comma, R.D. n.1736 del 1933 non comporta alcuna deroga ai principi generali in tema di identificazione del presentatore del titolo, talché la responsabilità della banca non si configura ‘in ogni caso’, anche a prescindere dall’elemento della colpa nell’errore sulla identificazione del prenditore, essendo la debitrice ammessa, nell’ipotesi di tale errore, alla prova liberatoria di avere comunque usato la dovuta diligenza nel procedere all’identificazione medesima.
Anche alla luce della ratio decidendi della sentenza impugnata, pertanto, l’applicazione o meno del citato art. 43, secondo comma, della legge sugli assegni, non avrebbe mutato, nella sostanza, il regime di responsabilità concretamente applicabile nella fattispecie, desumibile, pur sempre, dalle regole generali contenute negli artt. 1176, secondo comma, e 1218 cod. civ..
1.1.c. In ogni caso, ove pure fosse stato possibile delibarlo nel merito, il primo motivo di ricorso sarebbe stato infondato.
Correttamente il giudice di appello ha inquadrato il bonifico domiciliato nello schema della delegazione di pagamento, la quale, con riguardo al regime di responsabilità del delegato nei confronti del delegante per l’erronea individuazione del delegatario, è soggetta alla disciplina del mandato, che, a sua volta, ripete quella generale di cui all’art. 1218 cod. civ.
La fattispecie del bonifico domiciliato, pertanto, risulta debitamente disciplinata dalla legge, non ponendosi alcuna necessità di ricorrere, attraverso il procedimento analogico, a « disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe » (arg. ex art.12 preleggi) e quindi, nella specie, alla regola che disciplina la responsabilità della banca negoziatrice verso il traente di un assegno non trasferibile, a prescindere dalla asserita ‘somiglianza’ tra i due istituti.
Con il secondo motivo viene denunciata « violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1362, 1366 e 1370 cod. civ.; 1218, 1175 e 1176, II comma, cod. civ.; 2697 cod. civ., 35, comma 2, D.P.R. n. 445 del 2000), a’ sensi dell’art. 360, I comma, n. 3, cod. proc. civ., in tema di individuazione del contenuto del contratto concluso tra le parti ed in tema di riparto della prova liberatoria dell’inadempimento gravante sul debitore relativamente al grado di diligenza richiesto ed alla non imputabilità dell’impossibilità della prestazione. Tema della falsità materiale ictu oculi riconoscibile del documento di identità.
(b) Ulteriore profilo di nullità assoluta della sentenza per violazione e falsa applicazione dei principi processuali in materia di prova -ex artt. 115 e 116 c.p.c. -ma nella diversa prospettiva del radicale travisamento della prova ex art. 360, I comma n. 5 c.p.c.: utilizzo da parte del giudice di una prova (più correttamente di una informazione probatoria) inesistente e mai acquisita agli atti di causa».
Il motivo, nel suo complesso, investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che Poste Italiane s.p.aRAGIONE_SOCIALE pur non fornendo la prova dell’esatto adempimento ( cioè, di aver pagato al reale
creditore), avesse però fornito quella della non imputabilità del proprio inadempimento, dimostrando di aver tenuto una condotta diligente nell’identificazione della persona presentatasi come beneficiario.
Esso muove dall’assunto che la violazione della regola di diligenza di cui all’art. 1176, secondo comma, cod. civ. sarebbe censurabile in Cassazione quando, come nella specie, « il caso concreto sia idoneo a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi », sicché il giudice di legittimità può essere chiamato a sindacare il relativo giudizio reso dal giudice di merito per verificarne la coerenza o il contrasto con gli « standard valutativi esistenti nella realtà sociale ».
L’articolata doglianza si specifica in quattro censure.
2.a. Sotto un primo profilo, la sentenza impugnata è censurata nella parte in cui ha affermato che il flusso telematico relativo alla disposizione posta in essere da RAGIONE_SOCIALE, nel momento in cui aveva ordinato il bonifico domiciliato, recava le indicazioni del nominativo, dell’indirizzo e del codice fiscale del beneficiario, ma non anche ulteriori «informazioni di carattere anagrafico», che l’ordinante aveva omesso di indicare.
La ricorrente deduce che, contrariamente a quanto rilevato dal giudice di appello, non sussisteva, per l’ordinante, la possibilità di allegare alla richiesta di bonifico domiciliato un maggior numero di informazioni, utili a identificare il destinatario del pagamento, non essendo ciò permesso dalla piattaforma informatica predisposta da Poste Italiane s.p.a.; osserva che lo standard di informazioni richieste al cliente, ai fini dell’esecuzione del bonifico domiciliato, era stabilito dall’attuale controricor rente, cosicché la richiesta telematica veniva attivata in conformità alle prescrizioni della detta piattaforma e previo inserimento nel ‘ form ‘ dei dati richiesti dalla stessa banca e reputati sufficienti per prendere in carico il bonifico, il quale, quindi, doveva essere da essa correttamente eseguito, senza possibilità di
imputare le conseguenze dell’inadempimento alla condotta dell’ordinante.
2.b. Sotto un secondo profilo, la sentenza di appello è censurata per avere giudicato diligente la (o, in altri termini, per avere escluso il carattere negligente della) condotta di Poste Italiane s.p.a. diretta ad identificare il presunto beneficiario del bonifico attraverso la verifica -oltre che del codice fiscale e della password posseduti -dell’ unico documento di identità da lui esibito allo sportello.
La società ricorrente sostiene, al contrario, che l’operazione di identificazione del preteso creditore avrebbe potuto considerarsi conforme al modello sociale di diligenza qualificata di cui all’art. 1176, secondo comma, cod. civ., solo se fosse stata condotta attraverso l’esame di due documenti di riconoscimento.
2.b.I. In tal senso, ad avviso di RAGIONE_SOCIALE, deponeva anzitutto il regolamento contrattuale concluso tra le parti, il quale, all’art. 3, obbligava espressamente Poste Italiane s.p.a., in qualità di delegata al pagamento, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui « documenti di riconoscimento », così imponendo testualmente la presentazione (e la conseguente verifica), non già di un solo documento, bensì di più documenti di identità corrispondenti ai tipi individuati nell’art.35, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000.
2.b.II. Nello stesso senso, al di là dell’espressa previsione contrattuale, deponevano, inoltre, sempre secondo la ricorrente, gli standard valutativi del modello di diligenza qualificata esistenti nella realtà sociale, il mancato rispetto dei quali, nel giudizio di responsabilità (o, come nella specie, di irresponsabilità) formulato dal giudice del merito, sarebbe sempre denunciabile in sede di legittimità; infatti, la proliferazione delle ipotesi di accesso abusivo alle informazioni personali e di furto di dati anagrafici e di identità, conseguita alla diffusione del mezzo telematico di trasmissione delle predette informazioni, avrebbe reso socialmente esigibile dal soggetto chiamato all’esecuzione di un pagamento delegato e,
dunque, conforme al modello di comportamento del c.d. bonus argentarius -una condotta rigorosa diretta alla « ferrea » e « inequivocabile » identificazione del preteso beneficiario, in conformità alla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001, che suggerisce agli operatori bancari di identificare il prenditore di un assegno non trasferibile mediante due documenti d’iden tità muniti di fotografia.
2.c. Sotto un terzo profilo, la sentenza impugnata è censurata per avere ritenuto che Poste Italiane s.p.a.RAGIONE_SOCIALE abbia provato, in alternativa all’esatto adempimento, il carattere non imputabile del proprio inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., dimostr ando di avere tenuto una condotta conforme al modello di diligenza qualificata (ex art. 1176, secondo comma, cod. civ.) nell’identificazione del beneficiario del pagamento.
La società ricorrente evidenzia che non è stata prodotta in giudizio una copia dei documenti che la banca esecutrice avrebbe asseritamente esaminato ai fini dell’identificazione del percettore, sicché della concreta effettuazione di tale esame essa non avrebbe dato alcuna prova, pur essendovi onerata
Omettendo di rilevare tale mancanza, il Tribunale avrebbe violato sia le regole sul riparto dell’onere della prova, sia l’art. 1176 cod. civ.: atteso, sotto il primo aspetto, che la mancanza in atti di copia del documento di identità avrebbe implicato la non prefigurabilità in astratto della dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di identificazione, ed in particolare della verifica della coincidenza tra i dati anagrafici riportati nei documenti presentati allo sportello e le indicazioni inserite dal richiedente il bonifico nel «flusso informatico» digitato nella piattaforma poste; e considerato, sotto il secondo aspetto, che la mancata conservazione di copia del documento asseritamente esaminato si porrebbe comunque in contrasto con gli standard sociali valutativi del modello di diligenza professionale.
2.d. Sotto un quarto profilo, la sentenza d’appello è censurata nella parte in cui, al rilievo che nella quietanza di pagamento Poste Italiane s.p.a. aveva annotato gli estremi del documento di identità unitamente al codice fiscale, recati dalla persona presentatasi all’incasso, ha aggiunto l’ulteriore rilievo secondo cui RAGIONE_SOCIALE ha prodotto in giudizio il documento di identità autentico del soggetto vero ed effettivo beneficiario del bonifico domiciliato. Ad avviso della ricorrente, la firma del titolare vero legittimato sul suo documento autentico sarebbe ictu oculi totalmente diversa da quella che Banca Poste ha raccolto dall’impostore in calce alla quietanza -ricevuta sottoscritta al momento della illecita riscossione delle somme. A tale riguardo n ella sentenza gravata si legge che la ‘ firma apposta sulla quietanza, ad avviso del Tribunale, appare sufficientemente riconducibile nel cognome al COGNOME e che riporta, al pari di quella -pacificamente autentica -in calce alla carta d’identità, prima il cognome e poi il nome ‘
La sentenza impugnata sarebbe quindi censurabile, in quanto il Tribunale afferma che vi sarebbe stata la verifica del documento nonostante la documentazione di tale attività non sarebbe agli atti di causa e, anzi, vi sarebbe «la prova che la Banca ha proceduto al pagamento senza neppure guardare la quietanza: altrimenti si sarebbe accorta … che le due firme non sono identiche» e il vizio che inficerebbe la sentenza si collocherebbe al di fuori dell’ attività di valutazione delle prove bensì nel diverso ambito del contenuto oggettivo di un documento e, quindi, di un’attività di percezione sindacabile in sede di legittimità.
Assume inoltre la ricorrente che il tema della sottoscrizione della quietanza avrebbe dovuto costituire « oggetto di specifica ed effettiva indagine da parte del nonché di idonea e sostanziale motivazione » e che la valutazione delle prove non potrebbe essere arbitraria, sicché la sentenza impugnata sarebbe censurabile sotto i profili di cui ai nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c.
2.1. Il secondo motivo di ricorso, avuto riguardo alle quattro censure in cui si articola, è in parte inammissibile e in parte infondato.
2.1.a. È, anzitutto, inammissibile la prima censura con cui si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto -evidentemente sulla base di un accertamento di fatto -che il flusso della disposizione telematica effettuata da RAGIONE_SOCIALE conteneva l’indicazione del nominativo, dell’indirizzo e del codice fiscale del beneficiario, ma non anche gli ulteriori dati anagrafici, non indicati negli appositi ‘ campi ‘ informatici, che avrebbero potuto consentire all’operatore postale di riscontrare l’eventuale diversa identità del soggetto richiedente il pagamento.
Questa censura, oltre che tendente a suscitare dalla Corte di legittimità un apprezzamento dei fatti alternativo a quello svolto dal giudice del merito (in ordine alla asserita non corrispondenza al vero della circostanza relativa alla possibilità per l’or dinante, di inserire dati ulteriori nella piattaforma telematica), non si confronta con la reale ratio decidendi della statuizione impugnata.
Il giudice di appello, infatti, non ha diminuito o escluso la responsabilità contrattuale della debitrice Poste Italiane s.p.a. in ragione del rilievo di un fatto colposo esclusivo o concorrente della creditrice Genertel s.p.a., ma ha escluso la responsabilità della debitrice per avere questa dimostrato di aver tenuto una condotta diligente nella identificazione del preteso beneficiario del bonifico domiciliato, pagando -dopo avere compiuto le verifiche previste dalle condizioni generali di contratto -alla persona che aveva esibito un documento di identità con le generalità del reale creditore, e che inoltre era in possesso del codice fiscale e della password per l’incasso.
Rispetto a questa ratio decidendi resta evidentemente estraneo il rilievo relativo alla mancata comunicazione telematica di dati ulteriori relativi alla persona del beneficiario che ne avrebbero consentito una più completa individuazione; rilievo che deve
reputarsi svolto ad abundantiam da parte del giudice del merito, con conseguente inammissibilità della censura ad esso rivolta.
2.1.b. La seconda censura del secondo motivo, invece, è in parte inammissibile e in parte infondata.
2.1.b.I. È inammissibile nella parte in cui critica l’interpretazione compiuta dal giudice di appello del contratto concluso tra RAGIONE_SOCIALE e Poste Italiane, sull’assunto che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, il detto regolamento contrattuale (art. 3) avrebbe obbligato espressamente Poste Italiane s.p.a., in qualità di delegata al pagamento, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui « documenti di riconoscimento », così imponendo testualmente la presentazione (e la conseguente verifica), non già di un solo documento, bensì di più documenti di identità corrispondenti ai tipi individuati nell’art. 35, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000.
Secondo il pacifico e consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto, traducendosi in un’operazione di ricerca ed individuazione della comune volontà dei contraenti, costituisce un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per violazione delle regole ermeneutiche (ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.), oppure per inadeguatezza di motivazione (ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, ove applicabile), oppure, ancora, nel vigore del novellato testo di detta norma, per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti (Cass. 14/07/2016, n. 14355; v. anche, tra le altre, Cass. 22/06/2005, n. 13399).
Quale che sia la censura in concreto formulata, nessuna di esse può, peraltro, risolversi in una critica del risultato esegetico raggiunto dal giudice del merito, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione, atteso che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data al contratto dal giudice del merito non deve essere l’unica possibile, né la
migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni ( ex multis , Cass. 2/05/2006, n. 10131; Cass. 20/11/2009, n. 24539; Cass. 15/11/2017, n. 27136; Cass. 28/11/2017, n. 28319).
Nel caso di specie, il giudice di appello ha espressamente considerato il testo delle condizioni generali di contratto che imponevano a Poste Italiane s.p.a. di riscontrare « la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui documenti di riconoscimento presentati dal beneficiario della riscossione » ed ha plausibilmente interpretato l’espressione « documenti di riconoscimento presentati » come riferita al documento di identità di volta in volta esibito allo sportello dal richiedente il pagamento. D’altra parte, la plausibilità di tale interpretazione trova conferma nella circostanza che la clausola contrattuale non prevedeva che il beneficiario dovesse presentare due documenti ma si limitava, genericamente, a fare riferimento ai « documenti di riconoscimento presentati dal beneficiario », così rendendo evidente che, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligazione contrattualmente assunta, era sufficiente che la verifica dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica fosse condotta controllandone la corrispondenza con quelli presenti nel documento di identità di volta in volta esibito dai richiedenti.
La circostanza che il giudice del merito abbia fornito una interpretazione del contratto sicuramente plausibile (se non decisamente corretta) esclude la possibilità di dolersene in sede di legittimità sol perché la parte che propone la censura aveva interesse a che fosse privilegiata una diversa interpretazione rimasta disattesa.
La seconda censura veicolata con il secondo motivo di ricorso, appare, dunque, sotto questo aspetto, inammissibile, in quanto si risolve nella mera critica del risultato interpretativo raggiunto dal Tribunale e nella non consentita contrapposizione, a quella fornita
dal giudice di merito, di una diversa e più favorevole interpretazione del contratto.
2.1.b.II. La seconda censura del secondo motivo di ricorso è, invece, infondata nella parte in cui -sull’assunto che il giudizio di osservanza o di violazione della regola di diligenza di cui all’art. 1176 cod. civ., formulato dal giudice del merito, sarebbe censurabile in Cassazione quando si ponga in contrasto con gli « standard valutativi esistenti nella realtà sociale » nell’ipotesi in cui « il caso concreto sia idoneo a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi » -sostiene che il necessario esame di due documenti di identità, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligo di identificazione del beneficiario del bonifico, sarebbe stato comunque imposto, a prescindere dalle previsioni contrattuali, dall’esigenza di conformarsi al modello di diligenza professionale di cui all’art. 1176, secondo comma, cod. civ., in conformità alla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001.
Al riguardo va osservato che -sebbene sia condivisibile, in linea generale, l’assunto secondo il quale il giudizio di inadempimento (o di adempimento) e il conseguente giudizio di responsabilità (o irresponsabilità) contrattuale, pur essendo riservati al giudice del merito, restano sindacabili in Cassazione quando si pongano in contrasto con i principi dell’ordinamento, come espressi dalla giurisprudenza di legittimità, e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i menzionati principi, a comporre il diritto vivente (entrambi idonei a riempire di contenuto la nozione ‘elastica’ di diligenza professionale richiesta dall’art.1176, secondo comma, cod. civ.: in tal senso, ad es., Cass. 21/03/2019, n. 8047 e Cass. 19/12/2019, n. 34107) -nella fattispecie non solo deve recisamente escludersi tale contrasto, ma deve riconoscersi che, al contrario, tanto i principi ordinamentali espressi dal diritto vivente quanto gli standard sociali integrativi dello stesso sarebbero stati violati proprio se fosse stata affermata la necessità della esibizione di due documenti di identità.
In tal modo, infatti, per un verso, sarebbero stati disattesi i principi affermati da questa Corte circa il carattere non precettivo della raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001 (Cass. 19/12/2019, n. 34107 e Cass. 13/09/2022, n. 26866, citt. ); per altro verso, sarebbe stata disapplicata la regola, desumibile dalle disposizioni di legge sull’efficacia certificativa dei singoli documenti d’identità e comunque socialmente riconosciuta, secondo cui l’attività di identificazione delle pe rsone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento di identità personale.
2.1.c. La terza censura del secondo motivo è infondata, sia nella parte in cui deduce la violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio, sia nella parte in cui deduce la violazione dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ.
Il giudice di appello ha ritenuto che RAGIONE_SOCIALE avesse fornito la prova di avere adoperato la dovuta diligenza professionale nella identificazione della persona presentatasi all’incasso, da un lato procedendo, nel rispetto delle condizioni generali di contratto, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica effettuata da RAGIONE_SOCIALE con quelli riportati sul documento di riconoscimento presentato allo sportello dal preteso beneficiario per la riscoss ione; e, dall’altro lato, ricevendo, da parte di quest’ultimo, la comunicazione del proprio codice fiscale e della parola chiave fornitagli dall’ordinante, onde controllarne la coincidenza con quelli presenti nel flusso del mandato elettronico.
Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto accertato, in fatto, che il documento di identità esibito dalla persona presentatasi all’incasso (unitamente al suo codice fiscale) era stato annotato nella quietanza di pagamento.
Movendo da tale accertamento di fatto, il giudice di appello ha dunque inferito che il documento, i cui estremi erano stati annotati sulla quietanza di pagamento insieme al codice fiscale, fosse stato
debitamente verificato senza poterne evidentemente apprezzare, prima facie , l’eventuale falsità; e ha concluso che l’aver proceduto all’attività di identificazione mediante riscontro di un documento di identità apparentemente autentico (tra l’altro esibito da persona in possesso del codice fiscale e della password per l’incasso comunicata dalla società ordinante il bonifico) fosse condotta perfettamente conforme al modello sociale di diligenza professionale, escludendo l’esigibilità dalla banca mandataria d i ulteriori cautele.
Viene, dunque, in considerazione un motivato accertamento di merito (come tale, incensurabile in sede di legittimità), all’esito del quale il giudice di appello, lungi dall’attribuire l’onere probatorio ad una parte diversa da quella cui sarebbe spettato secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni (nel che soltanto sarebbe ravvisabile la violazione dell’art. 2697 cod. civ.: cfr., ex multis , Cass. 29/05/2018, n. 13395 e Cass. 23/10/2018, n. 26769), ha invece ritenuto che Poste Italiane s.p.a. avesse debitamente assolto quello impostole dalla norma generale di cui all’art. 1218 cod. civ., pur traendo questa dimostrazione, anziché dal mezzo di prova precostituita rappresentato dalla copia del documento (che non è stata prodotta agli atti), dal ragionamento inferenziale fondato su una presunzione che, movendo dal fatto accertato dell’annotazione del documento sulla quietanza di pagamento, ha consentito di risalire al fatto ignoto della verifica della sua -almeno prima facie -apparente autenticità.
Da un lato, dunque, la mancata produzione in giudizio della copia del documento rileva, non come fatto sostanziale indice della ontologica non prefigurabilità in astratto della dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di identificazione, bensì come mera omissione processuale e probatoria, ovverosia come mancata allegazione di un mezzo probatorio precostituito del fatto oggetto della prova liberatoria della debitrice, che il giudice del merito, nel pieno esercizio delle proprie prerogative, ha tuttavia reputato irrilevante, ritenendo di potere desumere la predetta prova
liberatoria da un diverso mezzo istruttorio, costituito dal ragionamento presuntivo; al riguardo, va ricordato il consolidato principio secondo il quale tanto l’accertamento dei fatti, quanto l’apprezzamento – ad esso funzionale – delle risultanze istruttorie è attività riservata al giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 4/07/2017, n. 16467; Cass. 23/05/2014, n. 11511; Cass. 13/06/2014, n. 13485; Cass. 15/07/2009, n. 16499).
Dall’altro lato, l’accertata posizione in essere, da parte di Poste s.p.a., di una attività di identificazione della persona presentatasi allo sportello, fondata sulla previa verifica -oltre che della corrispondenza della password e del codice fiscale a quelli indicati nel flusso telematico -anche dell’apparente autenticità del documento di identità da essa esibito, non può essere considerata in contrasto né con i principi ordinamentali né con gli standard valutativi sociali della diligenza professionale, dal momento che essa attività, al contrario, appare perfettamente conforme alla regola, socialmente riconosciuta, secondo cui l’identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro del documento di identità di volta in volta esibito (Cass. 19/12/2019, n. 34107, cit. ); né, in mancanza di specifica prescrizione normativa, può reputarsi esistente una best practice che impone al delegato di pagamento l’estrazione di copia e la conseguente conservazione del documento esaminato in funzi one dell’identificazione del delegatario, anche in ragione della necessità di bilanciare le esigenze dell’attività di identificazione con quelle di tutela della riservatezza della persona identificata, che consentono la conservazione della copia riprodotta solo in casi stabiliti selettivamente dalla legge e non oltre il tempo necessario in rapporto alle finalità perseguite (cfr. la delibera del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 27 ottobre 2005).
Il Tribunale, infatti, sulla base di un accertamento di merito -debitamente motivato e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità -ha reputato che quella firma, pur apposta dal falso beneficiario, fosse sufficientemente riconducibile nel cognome al COGNOME e che riportasse al pari di quella pacificamente autentica in calce alla carta di identità prodotta come doc. 5 da NOME, prima il cognome e poi il nome.
Inoltre, sulla base di un ragionamento presuntivo allo stesso modo motivato (e dunque incensurabile), movendo dalla circostanza ignota della annotazione della carta di identità esibita dal preteso beneficiario, unitamente al codice fiscale, nella quietanza di pagamento, da quegli debitamente firmata, il giudice di appello è risalito alla circostanza nota che la banca delegata avesse debitamente proceduto alla verifica del documento di identità, evidentemente riscontrandone l’apparente autenticità, così dand o prova di avere tenuto una condotta professionalmente diligente nell’identificazione del soggetto richiedente il pagamento del bonifico (pp. 12-13 della sentenza impugnata).
2.1.d. Del pari infondata è la quarta censura del secondo motivo, sia nella parte in cui denuncia omesso esame di fatto decisivo e controverso, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sia nella parte in cui denuncia travisamento della prova, oltre a vizio motivazionale, ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ. nonché non meglio precisate violazioni di legge sostanziale, laddove richiama il n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (v. p. 33 del ricorso).
Inoltre, va ribadito che, sulla base di un ragionamento presuntivo allo stesso modo motivato (e dunque incensurabile), movendo dalla circostanza ignota della annotazione della carta di identità esibita dal preteso beneficiario, unitamente al codice fiscale, nella quietanza di pagamento, da quegli debitamente firmata, il giudice di appello è risalito alla circostanza nota che la banca delegata avesse debitamente proceduto alla verifica del documento di identità, evidentemente riscontrandone l’apparente auten ticità, così dando
prova di avere tenuto una condotta professionalmente diligente nell’identificazione del soggetto richiedente il pagamento del bonifico (p. 17-18 della sentenza impugnata).
La statuizione censurata con il motivo in esame costituisce, pertanto, espressione dell’essenza della discrezionalità valutativa del giudice di merito nell’attività, ad esso riservata, di apprezzamento dei fatti e di valutazione delle prove, sicché rispetto ad essa neppure è configurabile il dedotto vizio del travisamento probatorio, il quale, anche per l’orientamento che ne ammette la censurabilità per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. (ma la questione, oggetto di contrasto, è attualmente all’esame delle Sezioni Unite di questa Corte: Cass., Sez. Lav., Ord. 29/03/2023, n. 8895; Cass., Sez. III, Ord. 27/04/2023, n. 11111), postula che l’errore del giudice di merito cada, non sulla espressione del giudizio di valutazione della prova, ma sulla descrizione del contenuto oggettivo della medesima, traducendosi nell’utilizzazione di prove che non esistono nel processo ovvero che hanno un contenuto oggettivamente ed inequivocabilmente diverso da quello loro attribuito (cfr., in tema, Cass. 4/03/2022, n. 7187; Cass. 26/04/2022, n. 12971; Cass. 9/02/2003, n. 3955).
La statuizione censurata con il motivo in esame costituisce, pertanto, espressione dell’essenza della discrezionalità valutativa del giudice di merito nell’attività, ad esso riservata, di apprezzamento dei fatti e di valutazione delle prove, sicché rispetto ad essa neppure è configurabile il dedotto vizio del travisamento probatorio, il quale, anche per l’orientamento che ne ammette la censurabilità per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. (ma la questione, oggetto di contrasto, è attualmente all’esame delle Sezioni Unite di questa Corte: Cass., Sez. Lav., Ord. 29/03/2023, n. 8895; Cass., Sez. III, Ord. 27/04/2023, n. 11111), postula che l’errore del giudice di merito cada, non sulla espressione del giudizio di valutazione della prova, ma sulla descrizione del contenuto oggettivo della medesima, traducendosi nell’utilizzazione di prove che non esistono nel processo
ovvero che hanno un contenuto oggettivamente ed inequivocabilmente diverso da quello loro attribuito (cfr., in tema, Cass. 4/03/2022, n. 7187; Cass. 26/04/2022, n. 12971; Cass. 9/02/2003, n. 3955). L’articolato secondo motivo di ricorso va, dunque, nel complesso, rigettato.
Con il terzo motivo viene denunciato « Omesso esame, a’ sensi dell’art. 360, I comma, n. 5 cod. proc. civ., circa un fatto decisivo per il giudizio (la mancata produzione, da parte della Banca negoziatrice, di una copia del documento di identità presentato dal falso prenditore al momento della riscossione) che è stato oggetto di discussione tra le parti. Travisamento dell’informazione probatoria. Nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione dedotta dalla parte, a’ sensi dell’art. 360, I comm a, n. 4 c.p.c. ».
La ricorrente imputa alla sentenza impugnata di non avere considerato che non vi è mai stato, gli atti del processo, il dato materiale della documentazione dell’attività di verifica della legittimazione del prenditore attraverso documento di identità.
Tale omissione, ad avviso di RAGIONE_SOCIALE, concreterebbe non solo il vizio di omesso esame di fatto controverso e decisivo ma anche quello di omessa pronuncia, in quanto il rilievo della mancanza in atti della predetta documentazione sarebbe stato da essa ricorrente ripetutamente compiuto nei propri atti difensivi.
3.1. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
In primo luogo, infatti, il vizio di omesso esame si può configurare solo in ipotesi di omessa considerazione di un fatto ‘storico’ decisivo e controverso, non anche in ipotesi di omessa valutazione di un elemento istruttorio ( ex multis , a partire da Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053, Cass. 8/09/2016, n. 17761; Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 8/11/2019, n. 28887).
Nella fattispecie, con riguardo alla circostanza della mancata produzione in giudizio della copia del documento di identità, si è già sopra evidenziato che essa circostanza rileva, non come fatto sostanziale indice della ontologica non prefigurabilità in astratto della
dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di identificazione, bensì come mera omissione processuale e probatoria, ovverosia come mancata allegazione di un mezzo probatorio precostituito del fatto storico oggetto della prova liberatoria della debitrice; fatto storico (la concreta verifica del documento di identità, con esito che non ne escludeva -prima facie -la presumibile autenticità) che, invece, è stato debitamente preso in considerazione dal giudice del merito, il quale ne ha tratto la dimostrazione da un diverso mezzo di prova.
In secondo luogo, il vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., si può configurare solo rispetto ad una domanda o ad una eccezione (la quale consiste nell’allegazione di un fatto impeditivo, modificativo od estintivo del diritto azionato), non anche rispetto ad un argomento difensivo, sia pure ripetutamente ribadito negli atti processuali di parte.
In definitiva, il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE deve essere complessivamente rigettato.
In ragione del rilievo sistematico della questione sottoposta alla Corte, le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra le parti.
Sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto (Cass., Sez. Un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza