Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10196 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10196 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3528/2023 R.G. proposto da :
Avv. COGNOME (TRTDRN76C16F205G) (TRTDRN76C16F205G), rappresentato e difeso da sé stesso e dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE , con domiciliazione digitale ex lege
-ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende ), con domiciliazione digitale ex lege
-controricorrente- nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimata- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO ROMA n. 8063/2022 depositata il 13/12/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato a mezzo PEC il 10 febbraio 2023, illustrato da successiva memoria del 3/02/2025, l’Avv. NOME COGNOME per l’annullamento della sentenza n. 8063/2022 del 13.12.2022 emessa dalla Corte di Appello di Roma, notificata in data 31.01.2023, con la quale, pronunciando sull’appello proposto dal medesimo avverso l’ordinanza pronunciata ex art. 702 ter c.p.c. del Tribunale di Roma in un giudizio volto ad accertare, su domanda di Digital Video, l’inadempimento al proprio mandato professionale, rigettava l’appello e per l’effetto confermava l’ordinanza di restituzione del compenso emessa con rito sommario, condannando l’appellante alle spese sostenute dalla appellata RAGIONE_SOCIALE e dalla compagnia assicuratrice chiamata in giudizio perché lo manlevasse. RAGIONE_SOCIALE ha notificato controricorso.
In particolare, nel confermare la sentenza di primo grado, con riferimento al primo motivo di impugnazione in cui si deduceva il vizio di ultrapetizione, la Corte d’appello statuiva che ‘ nel caso di specie, nel ricorso ex art. 702 c.p.c. è stata chiesta la restituzione dei compensi corrisposti, dovendo pertanto ritenersi implicitamente proposta la domanda di risoluzione ‘ In riferimento, invece, al secondo motivo di gravame attinente al merito della domanda, condividendo le argomentazioni svolte dal giudice di prime cure, lo rigettava assumendo che l’Avv. COGNOME avesse espletato il mandato difensivo conferitogli con negligenza. Anche in relazione agli altri motivi di gravame, la
Corte d’Appello, con motivazioni speculari a quelle della sentenza di primo grado, li rigettava, sull’assunto che l’avere l’Avv. COGNOME deciso di agire in sede amministrativa alla luce degli orientamenti -contrari- della giurisprudenza si palesava sin da allora come una strategia difensiva inopportuna. Sul punto osservava che il giudice amministrativo, nel provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare proposta, aveva chiaramente deciso in base al principio della ragione più liquida esaminando il merito ‘a prescindere dalle questioni di rito’. Quanto alle azioni proposte innanzi al Giudice Ordinario riteneva che esse risultavano del pari prive di fondamento giuridico alla luce, anche in questo caso, dei costanti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in tema di garanzia a prima richiesta, di sussistenza dei presupposti per la modifica soggettiva dell’ATI ed infine di legittimazione attiva della mandante dell’ATI.
Assumeva la Corte di merito adita che, ai fini della valutazione da operarsi con riferimento al mandato alle liti, ‘ secondo ormai costante e consolidata giurisprudenza, come già in precedenza evidenziato, sussiste per l’avvocato l’obbligo di sconsigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente delle caratteristiche della controversia e delle possibili soluzioni, sussistendo in capo a questi un vero e proprio dovere di dissuasione. A tal fine, quindi, non basta che il difensore provi che il cliente aveva prestato un “consapevole consenso” all’avvio della causa, ma è necessario che egli dimostri di avere adempiuto il proprio dovere di dissuasione e che la causa era stata comunque introdotta a seguito della “irremovibile iniziativa” del cliente. Solo in tal caso, quindi, laddove il difensore dimostri di aver adempiuto al proprio dovere di informazione e riesca anche a provare che la causa sia stata comunque introdotta a seguito di tale irremovibile iniziativa del cliente e vi sia, in ogni caso, un consapevole consenso da parte
di quest’ultimo, egli andrà esente da ogni colpa (cfr. in tal senso Cass. sent. n. 24544/2009, n. 6782/2015 e n. 9695/2016). Al dovere di informazione si aggiunge, dunque, anche un dovere di dissuasione vero e proprio, in quanto il professionista deve privilegiare l’interesse del cliente e quello più generale alla non strumentalizzazione del processo ‘.
Il ricorso è affidato a cinque motivi.
Motivi della decisione
Con il primo motivo ex articolo 360 1 comma, n. 4 cod. proc. civ. il ricorrente denuncia error in iudicando et in procedendo -violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. – mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato -vizio di ultrapetizione – vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Il ricorrente denuncia che la Corte d’Appello sia incorsa nel vizio di ultra -petizione, riqualificando l’azione di risarcimento spiegata da Digital in azione di risoluzione contrattuale, con conseguente restituzione dell’indebito. Deduce che l’unico passaggio dell’atto introduttivo in cui si fa riferimento a € 7.508,93 corrisposti all’Avv. COGNOME è il paragrafo intitolato ‘sul danno’ (pag. 23), nel quale la società elencava le varie voci di danno che andavano a comporre l’omnicomprensiva somma di € 54.777,93 pretesa (a titolo di danno emergente e lucro cessante) e che, pertanto, vi sia stato un salto logico nel dedurre (con una doppia presunzione) dalla possibile interpretazione di tale richiesta a titolo restitutorio, la possibilità di considerare proposta accanto alla domanda risarcitoria anche una domanda di risoluzione contrattuale. Sul punto deduce che il giudice, di fatto, avrebbe sostituito la domanda risarcitoria con quella di risoluzione contrattuale contravvenendo alla consolidata giurisprudenza di legittimità la quale afferma che ‘ Nel contratto d’opera intellettuale, qualora li
committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela ‘ (citando nella memoria Cass. civ. sez. II, 18 ottobre 2024, n. 27042; e tra le tante Cass. civ. sez. III, 10 luglio 2018, n. 18086; Cass. civ. II, 6 dicembre 2017, n. 29218).
5.1. Il motivo è infondato, in parte, e, per altro verso, è inammissibile perché non si rapporta alla ragione del decidere.
5.2. Osserva questa Corte che la questione de qua è stata puntualmente affrontata e decisa con motivazione coerente e corretta, rispettosa del cd minimo costituzionale, rendendosi insindacabile proprio perché la Corte di merito, nel respingere il motivo di appello, ha ricordato come secondo il Supremo Collegio ‘ nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, non condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ha il potere -dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata ‘ (Cass. n. 21865/2022).
5.3. La Corte di merito ha quindi ritenuto che parte attrice, con il ricorso introduttivo, ha in modo inequivoco chiesto la restituzione delle somme corrisposte al professionista, pur
avendo impropriamente qualificato tale domanda come risarcitoria. Trattasi pertanto dell’esito della qualificazione della domanda sulla quale, se effettuata e valutata secondo corretti parametri, non sussiste il sindacato di questa Corte di legittimità, essendo un’attività interpretativa attinente al merito ( Cass. Sez. 3 -, ordinanza n. 11103 del 10/06/2020).
Con il secondo motivo si denuncia ex articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. error in procedendo et in iudicando -violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione art. 1218 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Il vizio ricorrerebbe, nel caso di specie, perché la Corte d’Appello avrebbe ritenuto sussistenti gli elementi della negligenza professionale nelle condotte dell’Avv. COGNOME con valutazioni del tutto contrarie a consolidati orientamenti di legittimità.
6.1. Il motivo è inammissibile perché difetta del requisito dell’autosufficienza ex art. 366 n. 6 c.p.c. Sul punto, la sentenza della Corte di Appello ha evidentemente compiuto una valutazione ex ante del rischio della controversia, traendo spunto da un sedimentato acquis giurisprudenziale e dal fatto che l’avvocato non avesse reso edotto il cliente dell’alto rischio di causa. Deve anzitutto rilevarsi che, il motivo si riferisce a un presunto mandato conferito all’Avv. COGNOME che avrebbe avuto come fine primario quello di postergare il più possibile le varie azioni che in quel momento minavano la stabilità economico/finanziaria della società RAGIONE_SOCIALE. Tuttavia nella censura non viene indicato, per la parte che rileva, il punto in cui tale questione è stata sollevata e discussa nel procedimento de quo , né il contenuto del mandato da cui poter trarre che diverse erano le considerazioni da farsi sulla condotta giudiziaria intrapresa dal professionista nell’interesse del cliente, a prescindere
dagli esiti sfavorevoli che le controversie avrebbero potuto conseguire.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia errores in procedendo et in iudicando – violazione e falsa applicazione artt. 1218 e 1176 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Viene contestato che per effetto delle condotte in tesi inadempienti assunte dall’Avv. COGNOME sia occorso un effettivo danno a RAGIONE_SOCIALE, in quanto quest’ultima non ne avrebbe provato il nesso di causalità.
7.1. Anche in questo caso il motivo implica una inammissibile differente ricostruzione e valutazione dei fatti di causa deducendo che, in via residuale, la stessa interpretazione corretta del contratto avrebbe dovuto desumersi con riferimento ai criteri di interpretazione funzionale e di buona fede, e quindi tenendo conto della finalità perseguita dalle parti. Il motivo è inammissibile in quanto la valutazione della responsabilità del professionista è stata svolta proprio tenendo conto dell’esito sicuramente infausto della azioni giudiziali intraprese e della mancata comunicazione al cliente di tale probabile esito, là dove la Corte di merito assume che ‘ il giudice di primo grado ha riconosciuto al cliente i danni per le spese sostenute per avere intrapreso azioni senza informazione o dissuasione da parte del professionista del pressoché certo esito sfavorevole. Pertanto non vengono in rilievo i danni subiti per aver intrapreso azioni giudiziarie errate a fronte di diverse azioni che potevano essere intraprese -in relazione alle quali vale quanto osservato da parte appellante -, ma per aver intrapreso azioni con esito negativo pressoché certo (o quanto meno altamente certo), senza informare di ciò il cliente che per questo ha dovuto sostenere le relative spese. Rilevano pertanto i danni per le spese sostenute, che
risultano documentate in atti, come osservato da parte del giudice di primo grado .’
Con il quarto motivo il ricorrente deduce error in procedendo et in iudicando – violazione e falsa applicazione art. 1218 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.: si censura la sentenza della Corte di merito in quanto, ad avviso del ricorrente, la fase di studio della controversia andava sottratta dall’ammontare delle somme da rimborsare al cliente per la mala gestio processuale perché estranea alla attività processuale, generando tra le parti un’obbligazione distinta rispetto a quella ‘difensiva’ vera e propria, che come tale viene remunerata con una voce apposita del tariffario. L’argomento è palesemente inammissibile perché tende a rimettere in questione una valutazione in fatto su parte dell’attività professionale ritenuta dalla Corte di merito non utilmente prestata, inserita nella parcella, in quanto collegata alla mancata comunicazione delle problematiche inerenti a questioni risolte da consolidata giurisprudenza, determinando l’avvio di azioni per le quali mancava la legittimazione ad agire del cliente, non in grado di rappresentare la ATI che aveva stipulato il contratto. Infatti, il ritenuto grave inadempimento del professionista è stato giudicato in grado di travolgere con effetto ex tunc il contratto di prestazione d’opera professionale concluso con l’avvocato, dovendo quindi essere restituite tutte le somme versate (cfr. Cass. n. 15705/2013, Cass. n. 3455/2015, Cass. n. 13405/2015, in ordine alla totale restitutio in integrum ), non potendo distinguersi tra la fase di studio della controversia e le successive fasi, inerendo la prima comunque all’esecuzione del contratto.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce error in procedendo et in iudicando – sulla condanna alle spese di giudizio -violazione e falsa applicazione artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c. Quanto alle spese del primo grado la censura deduce che il giudice non avrebbe tenuto conto del fatto che, a fronte di una richiesta di danni per un totale di € 54.777,93, l’ordinanza emessa dal Tribunale in primo grado abbia riconosciuto solamente due delle voci di danno lamentate per un totale di € 15.008,30. Per quanto riguarda le spese del secondo grado il motivo è inerente a una motivazione in cui le spese sono state effettivamente commisurate al valore della causa ovvero, ‘ € 15.263,23: tabella 12, scaglione terzo, valori medi, con riduzione del minimo della fase istruttoria/trattazione limitata all’inibitoria per la società attrice; quanto ai rapporti con la Generali s.p.a., valore della causa € 7.508,93, tabella 12, scaglione terzo, valori minimi stante la semplicità della questione trattata ‘. Il motivo però non si rapporta adeguatamente alla ratio decidendi , che non è inficiata dalla denunciata differenza tra importi richiesti e poi riconosciuti, così come indicati dal ricorrente, né vengono contestati in alcun modo lo scaglione applicato o le modalità di liquidazione delle spese se non per lamentarne genericamente l’entità. Il riferimento all’art. 92 cod. proc. civ. sembrerebbe, poi, adombrare una doglianza, non espressa, di mancata compensazione delle spese, che però è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice in presenza di determinati presupposti, la cui sussistenza va valutata in concreto dal giudice e non è sindacabile in questa sede processuale se non per accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, fattispecie tuttavia non occorsa in tale sede processuale (Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 24502 del 17/10/2017; Cass. Sez. L – , ordinanza n. 9356 del 5/04/2023). Il motivo in scrutinio è, quindi, complessivamente inammissibile.
Conclusivamente il ricorso va rigettato, con ogni conseguenza in ordine alle spese , che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore della parte resistente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese , liquidate in €, 2.500,00, oltre € 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13 .
Così deciso in Roma, il 13/02/2025.