Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11592 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11592 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12253/2019 R.G. proposto da : COGNOME NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME
-ricorrenti- contro
COMUNE DI COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME COGNOME NOME e COGNOME
nonché contro
COGNOME
-intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 4715/2018 depositata il 09/10/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME, hanno proposto appello avverso la sentenza n. 2/2010, depositata il 5.1.2010, con cui il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, in accoglimento della domanda proposta dal Comune di Monteverde, li ha condannati, quali eredi dello stesso NOME COGNOME, in solido con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, eredi di NOME COGNOME, al pagamento in favore dell’amministrazione comunale della somma di € 555.353,86, oltre accessori di legge, – essendo stati NOME COGNOME e NOME COGNOME ritenuti gravemente inadempienti, in qualità, rispettivamente, di progettista e direttore dei lavori, l’uno, e appaltatore, l’altro, della costruzione di un acquedotto rurale – e ciò in restituzione, richiesta dall’attore a titolo di risarcimento dei danni, delle somme ricevute da NOME COGNOME e NOME COGNOME nel corso dell’esecuzione dei lavori, dichiarati non collaudabili dalla Agenzia per il Mezzogiorno.
Il giudice d’appello, con sentenza n. 4715/2018, depositata il 19.10.2018, ha, in primo luogo, dichiarato la nullità della sentenza di primo grado, rimettendo la causa al primo giudice, limitatamente
alla domanda proposta in primo grado dal Comune di Montevedere nei confronti di Oricchio Ugo (e i suoi eredi) ed escludendo la rimessione al giudice di primo grado dell’intera causa, sul rilievo che difettava il rapporto di dipendenza tra le domande proposte in grado dall’Amministrazione comunale nei confronti degli originari convenuti.
La Corte d’Appello ha, inoltre, rigettato l’eccezione di estinzione del giudizio sollevata dagli eredi COGNOME e, quanto al merito, ha confermato la sentenza di primo grado sul punto della responsabilità di NOME COGNOME. In particolare, il giudice di secondo grado ha rilevato che una eventuale errata scelta tecnica da parte del direttore dei lavori non esclude la responsabilità dell’appaltatore, essendo quest’ultimo obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto e delle istruzioni impartite dal committente, e, ove queste siano palesemente errate, è esente da responsabilità solo se dimostri di aver manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente e a rischio di quest’ultimo, situazione insussistente nel caso di specie.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME affidandolo a nove motivi.
Il Comune di Monteverde ha resistito in giudizio con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato la memoria ex art. 380 bis. 1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2055 e 354 c.p.c., per non avere la Corte di Appello, erroneamente, rilevato la litispendenza processuale tra le parti convenute, omettendo, impropriamente, di rimettere l’intero giudizio al giudice di primo grado.
Espongono i ricorrenti di aver eccepito sin dal primo grado di giudizio la responsabilità esclusiva dei direttore dei lavori Oricchio nella produzione del danno subito dal Comune, con la conseguenza che, erroneamente, la Corte territoriale aveva ritenuto scindibili le domande formulate dall’amministrazione nei confronti degli originari convenuti.
Pertanto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto rimettere l’intera causa al primo giudice, onde evitare il rischio di giudicati contrastanti.
Con il secondo motivo è stata dedotta ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per error in procedendo , non essendo stato rilevato il litisconsorzio processuale, anche con riguardo agli artt. 2055 e 354 c.p.c., e per non avere la Corte d’Appello rimesso l’intero giudizio al giudice di primo grado.
Entrambi i motivi, da esaminarsi unitariamente, avendo ad oggetto la stessa questione, sono infondati.
Va osservato che questa Corte ha già enunciato (vedi Cass. n. 22672/2017, in motivazione, pag. 6) il principio di diritto -cui questo Collegio intende dare continuità -secondo cui, sotto il profilo processuale, l’esistenza di un vincolo di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c. tra appaltatore e progettista non genera un litisconsorzio necessario, avendo il creditore committente titolo per valersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, con conseguente possibilità di scissione, anche in appello, del rapporto processuale, che può utilmente svolgersi nei confronti di uno solo dei coobbligati (vedi anche Cass. n. 18831/2016, che ha evidenziato che le domande proposte dal danneggiato nei confronti del progettistadirettore dei lavori e dell’appaltatore danno luogo a rapporti processuali tra loro distinti, vertendosi in una fattispecie di cause scindibili).
Con il terzo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza per vizio di motivazione, e, segnatamente, per ‘motivazione apparente’ sulla questione della estinzione del giudizio per nullità
della notificazione dell’atto per integrazione del contraddittorio, quantomeno nei confronti di NOME COGNOME anche in considerazione della violazione dei principi fissati dalla Corte Costituzionale.
Espongono i ricorrenti che l’atto di citazione con cui il Comune in virtù dell’ordinanza del giudice di primo grado del 5.2.1996 aveva provveduto all’integrazione del contraddittorio, non venne mai notificato correttamente, in quanto la notifica non era stata effettuata presso la residenza dei convenuti. Non essendosi, quindi, il rapporto processuale instaurato validamente, il giudizio avrebbe dovuto essere dichiarato estinto ai sensi dell’art. 307 comma 2° c.p.c..
Inoltre, essendo l’atto di integrazione del contraddittorio risultato notificato ‘per compiuta giacenza’ in data 13.7.1996, la Corte di merito avrebbe dovuto rilevare la nullità della notifica, atteso che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 346/1998 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 comma 2° L. n. 890/1982 nella parte in cui non prevedeva, che in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento.
Infatti, avendo le sentenze della Corte Costituzionale effetto retroattivo, erroneamente, la Corte d’Appello aveva ritenuto che tale questione non fosse più oggetto di sindacato, stante il preteso ‘consolidamento del rapporto’ che si sarebbe verificato con la costituzione degli eredi, a seguito dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio del 14.5.2008, emessa quando le preclusioni istruttorie processuali erano ormai inesorabilmente intervenute.
Sul punto, i ricorrenti rilevano che l’ordinanza del giudice di primo grado del 14.5.2008 – con cui era stato concesso termine per l’integrazione del contraddittorio – non fosse idonea ad acquisire l’autorità di cosa giudicata, essendo un provvedimento sempre modificabile e revocabile. Inoltre, l’integrazione del contraddittorio, essendo avvenuta quando erano già maturate le preclusioni istruttorie, aveva determinato una grave menomazione del diritto di difesa.
Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 307 e 291 c.p.c. per non avere la Corte d’Appello dichiarato l’estinzione del processo di primo grado per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli odierni ricorrenti.
Espongono i ricorrenti che l’atto di integrazione del contraddittorio, che il Comune avrebbe dovuto notificare in ossequio all’ordinanza del 5.2.1996, non venne notificato correttamente, in quanto la notifica non era stata effettuata presso la residenza dei convenuti. Né, ad avviso dei ricorrenti, rileva, sul punto, che il verbale d’udienza del 28.10.1996 avesse dato atto, ai fini della declaratoria di contumacia, della produzione dell’atto di integrazione corredato da relate di notifica e che lo stesso verbale abbia un’efficacia fidefaciente, occorrendo comunque verificare la correttezza di tale dichiarazione e la sussistenza dei relativi requisiti.
Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono infondati.
In primo luogo, non è meritevole di accoglimento l’eccezione di estinzione del giudizio ex art. 307 c.p.c., sollevata dai ricorrenti sul rilievo che, avendo la sentenza della dalla Consulta n. 346/1998 -che ha dichiarato l’art. 8 comma 2° L. n. 890/1982 nella parte in cui ammetteva la notifica per c.d. compiuta giacenza, senza richiedere l’invio della raccomandata efficacia retroattiva, l’atto
di integrazione del contraddittorio non sarebbe stato validamente notificato a NOME COGNOME nel termine concesso dall’ordinanza del giudice di primo grado del 5.2.1996, con conseguente estinzione del giudizio.
Tale eccezione è priva di fondamento, essendo stata tardivamente sollevata dal ricorrente COGNOME solo nell’atto di appello: se è pur vero che nella sua comparsa di costituzione in primo grado del 2008 lo stesso ricorrente aveva sì sollevato un’eccezione di estinzione, tuttavia, lo aveva fatto per un diverso profilo, ovvero per la dedotta irregolarità della notifica, in quanto non effettuata presso la residenza e per la mancata integrazione del contraddittorio a seguito del decesso del convenuto Oricchio.
Nella memoria di costituzione non vi è alcun cenno alla questione della declaratoria di incostituzionalità della norma che prima ammetteva la compiuta giacenza, nei termini sopra illustrati. Orbene, tenuto conto che secondo il testo previgente dell’art. 307 comma 2 c.p.c. -poi modificato nell’attuale formulazione dall’art. 46 comma 15 lett c) L. n. 69/2009 -‘l’estinzione opera di diritto ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa…’ – NOME COGNOME è decaduto dal potere di sollevare l’eccezione di estinzione per la questione dell’effetto retroattivo della sentenza della Corte Costituzionale per la notifica per compiuta giacenza, non essendo tale eccezione di estinzione stata sollevata, in questi termini, nel primo atto utile, ovvero nella comparsa di costituzione del 2008.
Quanto alla dedotta estinzione del giudizio per non essere la notifica stata eseguita presso il luogo di residenza dei convenuti, va osservato che entrambi i giudici di merito, dopo aver dato atto dello smarrimento del plico contenente le relate di notifica depositate all’udienza del 28.10.1996, hanno evidenziato che nel verbale di udienza del 28.10.96, il giudice istruttore, nel dichiarare la contumacia degli odierni ricorrenti, aveva attestato la produzione
in giudizio da parte del Comune di Monteverde dell’atto di integrazione del contraddittorio con le relate di notifica.
Orbene, questa Corte ha già affermato (vedi Cass. n. 15086/2004) che il processo verbale, essendo atto assistito dalla fede pubblica ai sensi e nei limiti dell’art. 2700 c.c., giustifica la presunzione di quanto in esso attestato, non potendo la carenza dal fascicolo d’ufficio di atti processuali che, ai sensi dell’art. 168.2 c.p.c., il cancelliere deve inserirvi, costituire una ragione per riversare sulla parte le conseguenze di un evento processuale che poteva anche dipendere da cause (per esempio, smarrimento) indipendenti dal suo potere di controllo (vedi anche Cass. 9314/94).
I ricorrenti non hanno mai proposto querela di falso, con la conseguenza che non possono contestare le risultanze del predetto verbale.
Con il quinto motivo è stata dedotta la nullità della sentenza ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. per vizio di omessa pronuncia, per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciarsi sull’eccezione di estinzione del processo di primo grado per violazione del contraddittorio a causa dell’omessa notifica dell’atto di riassunzione alle parti contumaci, nonché violazione anche dell’art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c. per motivazione apparente su un punto decisivo per il giudizio dato dall’omessa notifica dell’atto di riassunzione ai contumaci.
Espongono i ricorrenti che il giudizio di primo grado era stato interrotto in data 13 dicembre 2000 per il decesso dichiarato dell’ing. COGNOME a seguito del quale il Comune di Montevedere non aveva notificato la comparsa di riassunzione a NOME COGNOME ed NOME COGNOME allora contumaci.
La Corte d’Appello, sull’eccezione di estinzione del giudizio aveva reso una ‘motivazione apparente’, avendo rigettato tale eccezione per relationem , richiamando le argomentazioni di rigetto delle altre eccezioni.
I ricorrenti e videnziano che l’atto di riassunzione avrebbe dovuto essere notificato ai contumaci in quanto, consistendo l’evento interruttivo nella morte di una parte processuale, di fatto, era mutata la situazione processuale.
8. Il motivo è infondato.
In primo luogo, come recentemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 26913/2024), l’omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, che è configurabile soltanto nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito.
Quanto al merito dell’eccezione, va osservato che, recentemente, questa Corte (cfr. Cass. n. 26800/2022) ha enunciato il principio di diritto -cui questo Collegio intende dare continuità -secondo cui ‘ La riassunzione del giudizio sospeso ad opera degli eredi dell’attore non richiede la notifica al convenuto contumace, in quanto non rientra nell’elenco degli atti tassativamente indicati dall’art. 292 c.p.c., né comporta un radicale mutamento della preesistente situazione processuale, sotto il profilo oggettivo o soggettivo, posto che gli eredi subentrano al loro dante causa nella medesima posizione processuale in cui quest’ultimo si trovava, senza poter operare alcuna sostanziale modificazione delle domande e delle eccezioni già precedentemente proposte in giudizio ‘.
Con il sesto motivo è stata dedotto in relazione a ll’art. 360 comma 1° n. 4 c.p.c., un vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciarsi sull’eccezione sollevata nel giudizio di appello in ordine all’esistenza di carenze progettuali che rendevano ineseguibile il progetto originario.
Con il settimo motivo è stata dedotta in relazione a ll’art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c. un vizio di omessa motivazione su fatti decisivi per il giudizio per non avere la Corte d’appello valutato e
rilevato le gravi carenze del progetto originario, che lo rendevano del tutto ineseguibile.
Con l’ottavo motivo è stata è stata dedotta la nullità della sentenza ex art. 360 comma 1° n. 4 c.p.c. per mancata valutazione di prove documentali offerte e richiamate dal CTU, quali la delibera della Giunta Municipale n. 90 del 31.5.1984, il verbale di sospensione dei lavori e dell’ordine di servizio del 10.12.1982, quattro perizie di variante che il CTU ha rinvenuto presso l’archivio del Provveditorato regionale delle opere pubbliche.
Il sesto, settimo e ottavo motivo, da esaminare unitariamente, in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono inammissibili.
In primo luogo, a prescindere dal rilievo che il dedotto vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. è privo del necessario requisito di specificità ed autosufficienza, non avendo i ricorrenti avuto cura di precisare ‘dove’ e ‘come’ nell’atto di appello avrebbero eccepito l’esistenza di carenze progettuali che rendevano ineseguibile il progetto originario, questa Corte ha già affermato (Cass. 12652/2020) che il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, c.p.c., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'”iter” argomentativo seguito. Ne consegue che il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto.
Va, inoltre, osservato che le censure dei ricorrenti sono inammissibili, per non avere gli stessi avuto neppure la cura di indicare la decisività dei documenti di cui lamentano la mancata valutazione.
Infine, i ricorrenti non si sono minimamente confrontati con la precisa argomentazione con cui la Corte d’Appello, facendo corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte (vedi Cass. n. 23594/2017; Cass. n. 777/2020), ha confermato la sentenza di primo grado, sul punto della responsabilità di NOME COGNOME rilevando che una eventuale errata scelta tecnica da parte del direttore dei lavori non esclude la responsabilità dell’appaltatore, essendo quest’ultimo ‘ obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto e delle istruzioni impartite dal committente, e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità solo se dimostri di aver manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle , quale nudus minister, per le insistenze del committente e a rischio di quest’ultimo’ (pag. 7 sentenza impugnata). Tale situazione era insussistente nel caso di specie atteso che i ricorrenti si erano limitati ad allegare che ‘ l’impresa appaltatrice è stata soltanto vittima del comportamento confusionario e carente posto in essere dalla direzione dei lavori nell’interesse della P.A .’, senza fare quindi minimamente cenno ad un eventuale manifestazione di dissenso.
Con il nono motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c, per avere la Corte d’Appello condannato gli appellanti al pagamento dell’intero delle spese del giudizio nonostante il parziale accoglimento dell’appello.
14. Il motivo è inammissibile.
Questa Corte ha già affermato che, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle
spese stesse. Ne consegue che il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa. Esula quindi da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia di provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti. (Cass. n. 19613/2017).
Nel caso di specie, i ricorrenti non sono risultati affatto interamente vittoriosi nel giudizio di appello, con la conseguenza che la statuizione del giudice d’appello in punto spese di lite non è sindacabile in sede di legittimità.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali che liquida in € 14.400,00,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I Sezione civile il 26.3.2025
Il Presidente
NOME COGNOME