Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 22002 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 22002 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8302/2019 R.G. proposto da : COGNOME rappresentata e difesa dagli Avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE giusta procura speciale allegata in calce al ricorso
– ricorrente
–
contro
FALLIMENTO di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato NOME COGNOMENZTBRN48L24B354FCODICE_FISCALE giusta procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente –
nonché contro
NOMECOGNOME NOME e NOME
– intimati
–
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 4772/2018 depositata il 6/11/2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/6/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il fallimento di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Milano gli ex amministratori della fallita, fra i quali NOME COGNOME ascrivendo loro omissioni nell’assolvimento degli oneri tributari della soc ietà per gli anni 2007, 2008 e 2009 e chiedendo la loro condanna, ai sensi degli artt. 146 l. fall., 2476, 2394 e 2043 cod. civ., al pagamento della somma di € 842.751,66 per interessi e sanzioni, in misura pari agli importi per cui Equitalia Nord s.p.a. a veva chiesto l’ammissione al passivo a tale titolo.
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 12220/2016, condannava i convenuti in solido tra loro, ma secondo una ripartizione per quote di responsabilità, al pagamento della somma di € 842.700, ritenendo, in particolare, che l’aver lasciato l’incarico senza l ‘adozione di iniziative doverose aveva comportato l’accettazione del rischio di rispondere nei confronti dei creditori della propria condotta illecita, che comunque aveva costituito un primo passo verso un’insufficienza patrimoniale, ancorché maturata durante l’incarico dei successori.
La Corte distrettuale di Milano rigettava l’appello presentato da NOME COGNOME con sentenza pubblicata il 6 novembre 2018.
In particolare, precisava -fra l’altro e per quanto qui di interesse che l’insufficienza patrimoniale a cui fa riferimento l’art. 2394 cod. civ. non coincide affatto con il danno alle ragioni dei creditori della società, ma rappresenta esclusivamente una condizione della relativa azione, vale a dire un requisito processuale.
Riteneva, una volta constatato che nel caso di specie non vi era dubbio che il patrimonio della fallita fosse insufficiente a garantire il soddisfacimento della massa dei creditori, che fosse erroneo ricavare dalla mancanza di insufficienza patrimoniale durante la gestione degli appellanti l’assenza del titolo di risarcimento ai sensi dell’art. 2394 cod. civ., posto che la cattiva gestione aveva comunque prodotto effetti negativi allorché si era manifestata l’insolvenza.
Escludeva che l’amministratore che avesse lasciato la società con un patrimonio più che sufficiente al soddisfacimento dei creditori fosse esposto al rischio di vedersi contestati atti di mala gestio ad libititum , dato che i termini di prescrizione dell’azione di cui all’art. 2394 cod. civ. non decorrono sempre solo dalla data di fallimento, ben potendo l’azione essere esercitata prima e indipendentemente dalla dichiarazione di fallimento ed avendo l’amministrator e la possibilità di fornire la prova che il termine era iniziato a decorrere in epoca antecedente.
Condivideva le valutazioni del tribunale in ordine al fatto che la responsabilità degli amministratori, lungi dall’essere ingiustificatamente oggettiva, trovava comunque radici nella loro condotta illecitamente connotata, che era stata assunta a danno della compagine e dei suoi creditori.
Sottolineava che nessuna sanzione o interessi di mora sarebbero stati applicati a danno della fallita se gli amministratori avessero provveduto tempestivamente al pagamento degli oneri tributari per cui era causa o se, su sollecitazione degli stessi, fossero state adottate iniziative tese alla ricapitalizzazione della società, alla messa in liquidazione della stessa, all’accesso a una procedura concorsuale o alla richiesta di un mutuo con concessione di garanzia ipotecaria sul patrimonio immobiliare della compagine.
Sosteneva, quanto al nesso di causalità, che la condotta degli amministratori, i quali non avevano adempiuto al loro specifico obbligo di provvedere al pagamento delle imposte dovute in conseguenza di una scelta precisa e consapevole, aveva procurato una diminuzione del patrimonio della società, per la maturazione di interessi e l’applicazione di sanzioni, strettamente collegata con l’omesso tempestivo pagamento dei tributi , che non poteva essere legittimamente procrastinato.
Affermava che ad accreditare l’azione risarcitoria era necessario e sufficiente che sussistesse un rapporto di causalità fra il pregiudizio,
pari agli interessi e alle sanzioni via via maturate, e la condotta illegittima degli amministratori, a nulla rilevando che all’epoca in cui gli appellanti avevano cessato di rivestire la carica di amministratori il patrimonio della società fosse sufficientemente capiente e che l’insufficienza patrimoniale si fosse verificata successivamente alla loro uscita dal consiglio di amministrazione e per opera degli amministratori subentrati, in quanto con la dichiarazione di fallimento sopravvenuta qualche anno dopo il danno certo subito dai creditori aveva trovato radici nella condotta illecita posta in essere dagli appellanti nel momento in cui avevano ricoperto la carica di amministratori.
Osservava che gli amministratori, obbligati a gestire le risorse finanziarie provenienti dall’esercizio dell’attività in modo da essere in grado di provvedere all’assolvimento degli obblighi fiscali di legge alle relative scadenze, avrebbero dovuto comunque far fronte agli obblighi facenti capo alla società nei confronti dell’erario anche in presenza di una condizione di illiquidità, non essendo loro consentito di utilizzare le risorse finanziarie per soddisfare e privilegiare altri creditori a discapito dell’amministrazione pubblica.
NOME COGNOME NOME ha proposto ricorso per la cassazione di questa sentenza, prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
Gli intimati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME non hanno svolto difese.
Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., la violazione, l’errata interpretazione e la falsa applicazione degli artt. 2394, 2394bis e 2949, comma 2, cod. civ., perché la decisione impugnata, in
relazione al nesso di causalità: a) ha ridotto l’insufficienza patrimoniale a un mero presupposto dell’azione, espressamente affermando che non ci fosse alcuna necessità che essa fosse anche collegata da un nesso di causalità con gli atti di mala gestio contestati; al contrario l’insufficienza patrimoniale è in tesi di parte ricorrente sia un presupposto dell’azione, in quanto antefatto necessario a incardinare la legittimazione attiva dei creditori, sia l’evento dannoso subito dai creditori; inoltre , s e l’insufficienza patrimoniale fosse solo un presupposto processuale, l’azione ex art. 2394 cod. civ. diventerebbe, di fatto, imprescrittibile, con tacita abrogazione dell’art. 2949, comma 2, cod. civ.; b) ha omesso, conseguentemente, di specificare quale fosse il nesso di causalità tra il pregiudizio patrimoniale subito dai creditori e la condotta contestata agli amministratori, ricostruita come responsabilità oggettiva conseguente alla pura e semplice omissione dei versamenti I.V.A. e I.R.A.P. 2007 pure in presenza di ampia garanzia patrimoniale per i creditori al tempo dei ritardati versamenti di imposta; la sentenza impugnata avrebbe dovuto spiegare perché le condotte contestate all’appellante avessero costituito la causa del fatto che il patrimonio della fallita fosse stato insufficiente al soddisfacimento dei creditori; c) ha omesso anche di esaminare documenti decisivi (quali, in particolare, la perizia immobiliare sul patrimonio della società fallita nel 2007, ultimo anno in cui Riva Cristi era stata amministratrice, l’atto di vendita di immobili perfezionato nel 2009 e la C.T.U. attestante il fatto che la perdita del patrimonio era coincisa con la perdita della garanzia patrimoniale per i creditori, avvenuta con la cessione dell’immobile di proprietà nel 2009 a prezzo vile e non corrisposto se non in misura minima) che dimostravano come il momento della perdita della garanzia generica dei creditori fosse cronologicamente collocato in epoca di molto successiva all’uscita dal consiglio di amministrazione di NOME COGNOME e come il danno per i creditori fosse legato attraverso un nesso di causalità
unicamente a scelte gestorie imputabili agli amministratori entrati in carica oltre un danno e mezzo dopo la sua uscita dal consiglio di amministrazione.
Il motivo presenta, nel contempo, profili di infondatezza e profili di inammissibilità.
5.1 L’azione di responsabilità regolata dall’art. 2394 cod. civ. ha natura extracontrattuale, è priva di carattere surrogatorio ed è dotata di un autonomo regime giuridico dell’onere della prova e della prescrizione (v. Cass. 13765/2007; nello stesso senso Cass. 24715/2015).
Si tratta, perciò, di un’ipotesi prevista dal legislatore di responsabilità aquiliana ricostruibile anche come lesione esterna dell’aspettativa di prestazione (come osservato in dottrina) , giacché l’amministratore della società debitrice, quale terzo rispetto al rapporto obbligatorio intercorrente fra il creditore e la società stessa, ha pregiudicato l’aspettativa della prestazione in quanto, violando le norme poste a tutela dell’integrità del patrimonio sociale e determinando l’insufficienza delle necessarie risorse patri moniali, ha impedito l’adempimento volontario da parte della compagine debitrice e la realizzazione della pretesa in via esecutiva.
Questa lesione esterna dell’aspettativa di prestazione viene ad esistenza solo quando il patrimonio sociale sia insufficiente al soddisfacimento dei creditori, perché, diversamente, la condotta dell’amministratore, comunque connotata, non avrebbe alcuna influenza lesiva nei confronti dei soggetti estranei alla compagine (e segnatamente dei suoi creditori).
In questa prospettiva la giurisprudenza della Corte, in passato (cfr. Cass. 441/1966), ha avuto occasione di spiegare che il diritto che la legge riconosce ai creditori sociali di ottenere dagli amministratori, a titolo di risarcimento di danni, la prestazione che la società non può più adempiere trova titolo nella responsabilità degli amministratori per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione
dell’integrità del patrimonio sociale ed è condizionata all’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i creditori; più di recente (Cass. 15487/2000) si è chiarito che: i) ad accreditare l’azione risarcitoria di cui si tratta è necessario e sufficiente che sussista un rapporto di causalità tra pregiudizio – che è pari alle risorse sottratte alla società – e condotta degli amministratori, purché sia illegittima, una volta che, con la dichiarazione di fallimento sopravvenuta anche qualche anno dopo, il danno certo dei creditori abbia trovato radici in quella condotta, sia pure per la misura ad essa corrispondente; ii) presupposto dell’azione è, a norma dell’art. 2934 cod. civ., che il patrimonio sociale sia insufficiente a soddisfare i creditori, mentre il danno si commisura alla corrispondente riduzione della massa attiva disponibile in loro favore; iii) il curatore del fallimento, quando agisce per la reintegrazione del patrimonio della società fallita nei confronti degli amministratori, propone contemporaneamente sia l’azione sociale ex art. 2393 cod. civ., sia quella che spetta ai creditori ex art. 2394 cod. civ., le quali confluiscono in un’unica azione, che, cumulando i presupposti e gli scopi di entrambe, risulta finalizzata al risultato di acquisire all’attivo fallimentare ciò che è stato sottratto per fatti imputabili agli amministratori; iv) l’azione di responsabilità, in quanto diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale, in relazione alla violazione dell’obbligo di conservarlo posto a carico degli amministratori dall’art. 2394, comma 1, cod. civ., richiede semplicemente che, nel momento in cui sia esercitata, quel patrimonio risulti insufficiente a soddisfare i creditori della società; tant’è che, potendo tale insufficienza manifestarsi ancor prima della dichiarazione di insolvenza, l’azione che, a fallimento intervenuto, si trasmette al curatore può essere prima esercitata dai creditori e il termine di prescrizione decorre dal momento in cui l’insufficienza si verifica (e sia oggettivamente percepibile, tale così risultando); è dunque erroneo ricavare dalla mancanza di perdite durante la gestione immediatamente anteriore al fallimento l’assenza del titolo
di risarcimento ai sensi dell’art. 2934 cod. civ., posto che la cattiva gestione comunque produsse effetti negativi, allorché si manifestò l’insolvenza.
Pertanto, la fattispecie di responsabilità in discorso da un lato presuppone l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, dall’altro richiede un danno causalmente connesso all’inosservanza da parte degli amministratori degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale, danno che si commisura alla corrispondente riduzione della massa attiva disponibile in favore dei creditori.
L’insufficienza patrimoniale entra così nella fattispecie costitutiva della norma in discorso quale presupposto dell’azione, perché solo nel momento in cui essa si verifica sorge l’interesse dei creditori ad agire nei confronti degli amministratori per il danno subito.
Il problema applicativo della norma in discorso consiste poi nel verificare se la condotta illegittima degli amministratori abbia causalmente provocato un qualsivoglia pregiudizio patrimoniale ai creditori, comprensivo di tutto ciò che vi deriva da un punto di vista causale e che, di fatto, si converte in passivo subito dai medesimi, mentre non è necessario che l’insufficienza patrimoniale sia stata immediatamente conseguente all’inosservanza da parte degli amministratori agli obblighi inerenti alla conserv azione dell’integrità del patrimonio sociale, dato che la norma non stabilisce affatto che gli stessi rispondano del pregiudizio da loro provocato a condizione che siano ancora in carica o siano appena cessati dalla stessa.
In altri termini, una volta accertato il comportamento contra jus dell’amministratore , per violazione dei doveri statutari e/o legali, e la violazione degli obblighi dettati per la conservazione del patrimonio sociale, l’insufficienza patrimoniale costituisce il necessario presupposto dell’azione che è alla base dell’interesse istituzionale dei creditori sociali, mentre il nesso di causalità deve
sussistere tra la condotta ( contra jus ) e il pregiudizio di cui si chiede il ristoro finale.
L’azione di cui all’art. 2394 cod. civ., dunque, non può essere esperita, pur in presenza di violazioni da parte degli amministratori di norme poste a presidio dell’integrità del patrimonio sociale, finché non si arrivi all’alterazione dell’equilibrio fra attivo e passivo; una volta che la stessa divenga esperibile, i danni risarcibili sono quelli che costituiscono una conseguenza, diretta, della condotta degli amministratori.
Non si presta, perciò, a censure l’affermazione della Corte d’appello secondo cui « ad accreditare l’azione risarcitoria di cui si tratta è, infatti, necessario e sufficiente che sussista un rapporto di causalità tra pregiudizio -pari agli interessi ed alle sanzioni via via maturate -e la condotta illegittima degli amministratori, a nulla rilevando che alle date in cui gli appellanti cessarono dalla carica di amministratori di La Quiete il patrimonio di quest’ultima sarebbe stato sufficientemente capiente, mentre l’insufficienza patrimoniale si sarebbe verificata successivamente alla loro uscita dal c.d.a. della fallita ed in particolare ad opera degli amministratori subentrati nel 2009 » (pagg. 16 e 17).
5.2 Una simile interpretazione non rende affatto la responsabilità di carattere oggettivo e l’azione imprescrittibile.
Invero, il fatto che l’azione di responsabilità regolata dall’art. 2394 cod. civ. abbia natura extracontrattuale implica che l’inadempimento degli amministratori ai doveri inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio rilevi solo se commesso co n dolo o colpa e non abbia natura oggettiva.
Questa Corte, inoltre, ha già avuto modo di precisare che l’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 cod. civ., pur quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento -si ripete – dell’oggettiva
percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione), che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale generica prevista dall’art. 2740 cod. civ., non corrisponde allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 l. fall., derivante, in primis , dall’impossibilità di ottenere ulteriore credito (v. Cass. 3552/2023, Cass. 24715/2015).
In ulteriori termini, posto che solo se e nella misura in cui il patrimonio sociale risulti insufficiente a soddisfare integralmente i creditori gli amministratori della società, che l’abbiano provocata per non aver adempiuto agli obblighi di conservazione della relativa integrità, sono tenuti al risarcimento del danno verso questi ultimi, il decorso della prescrizione a distanza di tempo dall’inadempimento degli amministratori trova spiegazione e giustificazione nel verificarsi del presupposto perché la lesione esterna che giustifica la responsabilità ex art. 2394 cod. civ. si verifichi e nella sua oggettiva percepibilità.
5.3 Infine, non è possibile sostenere che la Corte di merito non abbia spiegato quale fosse il nesso di causalità tra il pregiudizio patrimoniale subito dai creditori e la condotta contestata agli amministratori.
I giudici distrettuali, al contrario, hanno chiarito che il danno certo subito dai creditori consisteva nell’aggravio, per sanzioni e interessi, derivante dall’omesso pagamento, ad opera degli amministratori dell’epoca (fra cui l’odierna ricorrente), degli oneri tributari dovuti e ‘trovava radici’ nella condotta illecita degli appellanti, nel senso che quest’ultima aveva determinato -per la misura ad essi corrispondente -l’insufficienza della risorse patrimoniali della fallita al soddisfacimento dei creditori.
6. Il secondo mezzo lamenta, ex art. 360, comma 1, n. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., la violazione, l’errata interpretazione e la falsa applicazione degli artt. 2394, 2394bis e 2697 cod. civ. e 13 d. lgs.
472/1997 perché la sentenza impugnata: a) ha invertito l’onere probatorio in relazione all’asserita negligenza di NOME COGNOME senza dimostrare le ragioni, addebitabili agli amministratori, per le quali la società non era stata in grado di versare le imposte e aveva subito le sanzioni, omettendo anche di esaminare documenti decisivi (la C.T.U. espletata, le motivazioni del lodo arbitrale, il contratto di mutuo del 25 gennaio 2006 concesso alla società e garantito con beni personali dell’amministratric e) che dimostravano la diligenza della stessa; b) ha omesso di pronunciare sulla rilevanza che aveva, ai fini della diligenza, la circostanza che, al momento dell’uscita dal consiglio di amministrazione di NOME COGNOME fossero ancora pendenti i termini per le rateizzazioni e il ravvedimento operoso.
Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
7.1 Nessuna inversione dell’onere probatorio è rinvenibile nella decisione impugnata, la quale si è limitata a registrare (alle pagg. 15 e 17) che il mancato pagamento di oneri tributari (I.V.A., I.R.A.P. e diritti annuali di iscrizione alla Camera di Commercio) maturati a carico della fallita e scaduti nel corso dell’esercizio 2007 era indiscusso fra le parti, prendendo atto che i fratelli COGNOME avevano confermato che l’omesso versamento e la prosecuzione dell’attività imprenditoriale erano il frutto di una loro precisa e consapevole scelta.
Tanto bastava a ravvisare la sussistenza di una condotta illegittima degli amministratori, a causa della volontaria violazione dell’obbligo di corresponsione delle imposte e di accantonamento delle somme a tal fine necessarie.
Era, infatti, onere del convenuto allegare e dimostrare fatti impeditivi, limitativi o estintivi del diritto invocato dalla controparte, assumendo il relativo onere della prova, mentre nel caso di specie i convenuti non ‘ hanno dedotto circostanze impeditive ed ostative all’assolvimento di tale obbligo ‘ (pag. 15), né risulta che abbiano
offerto alcuna prova al riguardo, come era loro onere fare ai sensi dell’art. 2697, comma 2, cod. civ.
7.2 La doglianza relativa all’omesso esame della questione relativa al fatto che al momento delle data delle dimissioni dal consiglio di amministrazione erano ancora pendenti tutti i termini per rateizzazioni e ravvedimento operoso è inammissibile.
Ciò, in primo luogo, perché nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine a una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (v. Cass., Sez. U., 17931/2013, Cass. 24553 /2013, Rv. 628248 -01).
Nel caso di specie il motivo non denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., né deduce la nullità della decisione impugnata in ragione della mancata pronuncia su una delle questioni poste a fondamento dell’atto di appello.
Per di più la questione omessa risultava del tutto priva di decisività, da un lato perché il mancato pagamento dei tributi dovuti in vista di un successivo accesso a rateizzazioni e ravvedimento operoso non è opzione lecita, in presenza di norme che, sanzionando penalmente il mancato pagamento dell’I.V.A. (art. 10 -ter d.P.R. 74/2000) e in via amministrativa l’omesso pagamento dell’I.R.A.P. (art. 34 d. lgs. 446/1997), impediscono all’amministratore di soprassedere dal loro versamento (di modo che il principi o dell’insindacabilità del merito delle scelte di gestione – cd. business judgement rule – non si applica in caso di inequivoche violazioni di legge come, in particolare, nel caso di violazione di norme tributarie; cfr. Cass. 8069/2024);
dall’altro perché , comunque, non è stato allegato che questa soluzione avrebbe inciso sul danno procurato ai creditori, azzerando del tutto l’applicazione di interessi di mora e sanzioni.
Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 8.200, di cui € 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di c ontributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, ove dovuto. Così deciso in Roma in data 26 giugno 2025.