Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2064 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2064 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15310-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE NOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE NOMENOME RAGIONE_SOCIALE NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME;
– intimati – avverso la sentenza n. 1597/2019 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 11/11/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/01/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; Lette le memorie della ricorrente;
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
Il Tribunale di Macerata con la sentenza n. 658/2013 ha rigettato la domanda proposta da COGNOME NOME, quale erede di COGNOME NOME, nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, fratelli del dante causa dell’attrice, al fine di ottenere la rescissione della divisione dei beni ricadenti nella successione di COGNOME NOME, e ciò sul presupposto che, alla luce del tenore della scrittura del 2 agosto 2002, le parti avessero inteso porre in essere una transazione divisoria, non rescindibile.
Avverso tale sentenza ha proposto appello COGNOME NOME, cui hanno resistito COGNOME NOME, COGNOME NOME, e gli eredi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, che concludevano per il rigetto dell’appello principale, proponendo appello incidentale quanto alla regolamentazione delle spese di lite, erroneamente compensate dal Tribunale.
La Corte d’Appello di Ancona con la sentenza n. 1597 dell’11 novembre 2019 ha rigettato l’appello dichiarando inammissibile
la domanda dell’attrice, compensando le spese del doppio grado.
Quanto all’appello principale, riteneva che effettivamente non fosse condivisibile il ragionamento a sostegno della decisione del Tribunale che aveva ritenuto che la scrittura del 2/8/2002 concretasse una vera e propria divisione.
Il tenore del tutto generico di tale scrittura non consentiva però di annettere alla stessa tale efficacia, e quindi non poteva sostenersi che si fosse al cospetto di una transazione divisionale, come peraltro confermato dalla complessiva disamina delle deposizioni testimoniali raccolte sul punto.
Doveva altresì escludersi che le parti avessero inteso con i successivi atti dispositivi dare attuazione ad un accordo consacrato nella citata scrittura.
Tuttavia, anche per effetto delle sollecitazioni sollevate dagli appellati, andava dichiarata l’inammissibilità della domanda attorea.
Infatti, con un primo atto notarile del 16/10/2002, NOME COGNOME, dante causa dell’appellante principale, aveva alienato al fratello NOME la quota di comproprietà indivisa di un quarto vantata sui beni caduti nella successione paterna, al prezzo di € 31.300,00.
In pari data, ma con separato atto, i tre fratelli rimasti titolari di quote ereditarie avevano provveduto a dividere tra loro i beni caduti nella successione.
Secondo la Corte d’Appello però non vi era prova alcuna del collegamento negoziale tra i due contratti, come invece sostenuto dalla attrice, che su tale collegamento fondava la
pretesa di rescindere un atto equiparabile alla divisone ex art. 764 c.c.
Infatti, mancavano delle clausole che denotassero la volontà di correlare i due negozi, e la mera coincidenza cronologica degli atti non permetteva di sostenere che con gli stessi le parti avessero inteso produrre effetti ulteriori e diversi da quelli propri del singolo negozio posto in essere.
Peraltro, anche nel caso di collegamento negoziale, ogni contratto conserva la sua autonomia sicché la vendita della quota non è idonea a porre in essere una divisione, come si desume anche dalla disciplina dell’art. 765 c.c. che concerne la vendita fatta senza frode dei diritti ereditari.
La disciplina di cui all’art. 764 c.c. esclude espressamente che possa chiedersi la rescissione della transazione divisoria, ed analoga esclusione è dettata anche per la vendita fatta ai sensi dell’art. 765 c.c.
In effetti l’alienazione della quota compiuta da COGNOME NOME si inquadra in tale previsione normativa, essendo quindi preclusa la possibilità di chiederne la rescissione.
Attesa la riforma della sentenza impugnata, la Corte d’Appello ha, quindi, rideterminato il carico delle spese di lite, ritenendo in ragione del rilievo dell’inammissibilità della domanda attorea, frutto di questioni non esaminate in prime cure, di dover compensare le spese del doppio grado.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso RAGIONE_SOCIALE NOME sulla base di due motivi, illustrati da memorie.
COGNOME NOME, COGNOME NOME e Pontillo COGNOME NOME resistono con controricorso.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa fase.
Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 764 c.c.
Si lamenta che la Corte di merito abbia erroneamente disatteso la tesi del collegamento negoziale tra l’atto di cessione dei diritti ereditari e la successiva divisione, il che ha portato anche ad escludere la possibilità di agire per la rescissione.
Assume, invece, la ricorrente che il collegamento sussiste e che, pertanto, la valutazione combinata dei due atti impone di ritenere la presenza di un accordo rientrante tra quelli di cui all’art. 764 c.c., e come tale idoneo a far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari, con la conseguente applicabilità della normativa in tema di rescissione.
Il motivo è inammissibile in quanto, in contrasto con l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito, che ha negato la ricorrenza di una fattispecie di collegamento negoziale, assume unilateralmente che tale collegamento vi sia e che, quindi, la vicenda andrebbe sussunta nella fattispecie di cui all’art. 764 c.c.
Va al riguardo richiamato il costante orientamento di questa Corte secondo cui l’accertamento del collegamento negoziale funzionale è rimesso al giudice di merito, mediante l’interpretazione della volontà negoziale delle parti, così che, se condotto nel rispetto dei criteri di logica ermeneutica e di corretto apprezzamento delle risultanze di fatto, si sottrae al sindacato del giudice di legittimità (Cass. n. 20634/2018; Cass. n. 7524/2007).
La sentenza gravata ha rilevato che la lettura dei due atti, che si pretende essere funzionalmente collegati, non evidenziava la presenza di alcuna clausola negoziale che potesse far ravvisare la volontà delle parti di porre in connessione i due atti, solo cronologicamente coincidenti, dovendosi, quindi, ritenere che ogni atto assolvesse alla funzione tipica sua propria, senza quindi poter individuare un’ulteriore funzione frutto della connessione effettuale e causale tra le due vicende.
Il motivo, oltre a risultare evidentemente privo di specificità, nella parte in cui omette di riprodurre anche il contenuto dei due atti, onde poter inferire dalla volontà ivi espressa quel legame necessario per la ricorrenza del collegamento funzionale, manca altresì di denunciare una specifica violazione delle regole di ermeneutica, e si risolve nell’apodittica affermazione dell’esistenza del collegamento, aspirando quindi ad un esito che, in quanto implicante un diverso apprezzamento dei fatti di causa, è precluso al giudice di legittimità.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 765 c.c.
I giudici di appello avrebbero ritenuto che l’atto di vendita della quota posto in essere dal dante causa della ricorrente sia rientrante nella previsione di cui all’art. 765 c.c., e cioè della vendita del diritto ereditario fatta al coerede senza frode, a suo rischio e pericolo, per negare da tale qualificazione l’ammissibilità della domanda di rescissione.
Si rileva che nella fattispecie non si era al cospetto di una vendita fatta a rischio e pericolo, posto che la cessione non
riguardava la quota con connotazione di aleatorietà, essendosi in realtà provveduto a dettagliare i beni i cui diritti ereditari erano oggetto della cessione.
La precisa individuazione dei beni caduti in successione induce a ritenere che sia stata alienata una porzione ereditaria già individuata, anche alla luce del fatto che nella vendita COGNOME NOME aveva espressamente garantito all’acquirente che la quota ceduta era libera da ipoteche e da altre formalità pregiudizievoli, obbligandosi per l’eventuale evizione, il che esclude che si possa parlare di vendita fatta a rischio e pericolo dell’acquirente.
Il motivo è infondato, sebbene si imponga una correzione della motivazione del giudice di appello.
Effettivamente, come ritenuto dalla prevalente dottrina e dalla più risalente giurisprudenza (Cass. n. 1890/1942, richiamata dalla ricorrente), la fattispecie di cui all’art. 765 c.c. presuppone che l’oggetto sia rappresentato dal diritto ereditario astrattamente considerato, e senza che si proceda quindi alla individuazione specifica dei beni che lo compongono, così che nella diversa ipotesi di determinazione specifica dei beni che sono interessati viene meno anche il carattere dell’aleatorietà, che pone l’atto al riparo dall’azione di rescissione. La circostanza riferita in ricorso dell’avvenuta individuazione dei beni, le cui quote ereditarie erano oggetto di trasferimento, escluderebbe perciò di invocare l’applicazione dell’art. 765 c.c.
Tuttavia, alla luce del rigetto del primo motivo di ricorso, deve ritenersi ormai non più censurabile l’affermazione del giudice di
appello che ha negato l’esistenza del collegamento funzionale tra la cessione de qua e la successiva divisione tra i germani COGNOME, stante l’autonomia degli atti posti in essere nella medesima giornata.
La conclusione secondo cui la cessione de qua conserva la sua autonomia strutturale e funzionale, da una parte, impedisce di poter ricondurre la stessa nella più ampia previsione di cui all’art. 764 c.c., mancando la possibilità di poter iscrivere la vendita in una vicenda unitariamente posta in essere al fine di far cessare la comunione ereditaria (potendosi quindi prendere in esame ai fini della rescissione ex art. 763 c.c. la sola divisione intervenuta tra COGNOME NOME ed i fratelli che non avevano ceduto le loro quote), ma dall’altra, se esclude, per quanto detto, che possa invocarsi la previsione di cui all’art. 765 c.c., assoggetta la stessa alla diversa disciplina della rescissione di cui all’art. 1448 c.c.
A tal fine si veda Cass. n. 663/1969, secondo cui la cessione dei propri diritti su un bene, ancorché unico oggetto di una comunione, attuata in favore degli altri partecipanti alla comunione contro un corrispettivo, non costituisce divisione, né, per gli effetti dell’art. 764 cod.civ., può essere di per sé assimilata alla divisione, come peraltro si desume dall’art. 765 cod.civ., concernente la vendita dei diritti ereditari attuata senza frode, principio che pone come conseguenza la valutazione dell’atto quale vicenda estranea allo scioglimento della comunione e quindi sottoposta alle regole generali in materia di contratto.
Anche a voler superare il rilievo per il quale la domanda attorea era volta a far valere la rescissione di cui all’art. 764 c.c., sul presupposto della riconducibilità dei due negozi ad una unitaria funzione divisionale, la considerazione atomistica dell’atto di cessione, in vista della rescissione, impone di dover far riferimento alla generale disciplina della rescissione contrattuale, la quale presuppone però che la lesione per assumere rilevanza debba essere non più superiore al quarto, ma eccedente la metà del valore della prestazione eseguita.
Orbene, la lettura del mezzo di impugnazione a pag. 19 evidenzia che la stessa ricorrente ha indicato il valore dei beni ereditari in € 203.243,00, e, quindi, la quota del suo dante causa in € 50.810,75. Poiché la cessione è avvenuta dietro un corrispettivo di € 31.300,00, risulta dalle stesse allegazioni difensive della parte che non ricorrono i presupposti per l’accoglimento della domanda di rescissione, e che pertanto debba reputarsi corretto il rigetto della sua domanda, ancorché con una motivazione diversa da quella data dal giudice di appello.
Attesa l’infondatezza del ricorso, la ricorrente è condannata alle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti, da liquidarsi secondo dispositivo.
Nulla a disporre quanto alle parti rimaste intimate.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico
di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi € 5.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda