Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 206 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 206 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9774/2018 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME di S. Ippolito, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente – contro
COMUNE DI COGNOME STEFANO COGNOME, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 311/17, depositata il 27 marzo 2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 ottobre 2023 dal
Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Comune di Santo Stefano di Camastra convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 46/00, emesso il 26 settembre 2000, con cui il Presidente del Tribunale di Mistretta gli aveva intimato il pagamento della somma di Lire 200.020.000, oltre interessi, a titolo di acconto sul corrispettivo di lavori per la realizzazione di un centro di commercializzazione al dettaglio, commissionata con contratto di appalto del 2 luglio 1997.
A sostegno dell’opposizione, il Comune eccepì che a) non era stato emesso il certificato di pagamento, non essendo l’appaltatrice in regola con i versamenti agli enti previdenziali ed assistenziali, b) le somme richieste erano state pignorate dai creditori della Messina, c) esso opponente era stato convenuto in giudizio dai dipendenti dell’appaltatrice per il pagamento delle retribuzioni, d) il contratto era stato rescisso con delibera n. 216 del 10 ottobre 2000, per grave e reiterato inadempimento della Messina. Chiese inoltre, in via riconvenzionale, l’accertamento del proprio diritto alla penale dovuta per il ritardo nell’esecuzione dei lavori ed al risarcimento dei danni, con la compensazione dei relativi crediti con quello fatto valere dall’appaltatrice.
Si costituì la convenuta, e resistette all’opposizione, chiedendone il rigetto.
1.1. Successivamente, la Messina convenne a sua volta in giudizio il Comune, per sentir dichiarare l’illegittimità della rescissione del contratto di appalto e l’insussistenza dell’obbligo di corrispondere la penale, con la condanna del convenuto al risarcimento dei danni.
A sostegno della domanda, riferì che il ritardo nell’esecuzione dei lavori era stato determinato da carenze progettuali, dalla mancata approvazione di una perizia di variante, dal mancato pagamento degli acconti alla scadenza, dalla mancanza della contabilità dei lavori, dalla mancata effettuazione delle trattenute a garanzia degli adempimenti dell’impresa e dall’inosservanza dello art. 35 del r.d. 25 maggio 1895, n. 350.
Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto e,
in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni.
1.2. Riuniti i due giudizi, il Tribunale di Mistretta, con sentenza del 16 ottobre 2012, accolse l’opposizione, revocando il decreto ingiuntivo, dichiarando compensati i crediti reciproci delle parti e condannando la Messina al pagamento della somma di Euro 66.004,00, oltre interessi.
L’impugnazione proposta dalla Messina è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Messina, che con sentenza del 27 marzo 2017 ha condannato il Comune al pagamento della somma di Euro 19.470,00, oltre interessi dalla domanda.
Premesso che le domande di pagamento e risarcimento dei danni proposte dall’appaltatrice non trovavano ostacolo nel provvedimento di rescissione del contratto, il quale non incide autoritativamente sulle posizioni soggettive delle parti, aventi carattere paritario, ed è quindi disapplicabile dal Giudice ordinario, ove risulti accertata l’insussistenza delle condizioni che lo legittimano, la Corte ha ritenuto che, nella valutazione degl’inadempimenti allegati dalle parti, rivestisse una particolare importanza il mancato pagamento del quarto stato di avanzamento dei lavori, non improntato a buona fede, giacché al momento della predisposizione del certificato di pagamento l’unica irregolarità riguardava l’adempimento degli obblighi dell’impresa nei confronti della Cassa Edile. Rilevato peraltro che i lavori, proseguiti lentamente nel periodo successivo, non risultavano ancora ultimati al momento della rescissione del contratto, e accertato che per il completamento dell’opera il Comune avrebbe dovuto affrontare una spesa di Lire 150.000.000, ha ritenuto che il ritardo dell’appaltatrice non potesse trovare giustificazione nel mancato pagamento della rata di acconto, dal momento che l’importo di quest’ultima, pari a Lire 200.020.000 oltre IVA, non risultava superiore ad un quarto di quello complessivo dell’appalto, pari a Lire 1.299.014.559, ed alla somma dovuta non poteva aggiungersi il corrispettivo delle lavorazioni ulteriori, che non raggiungeva la soglia prevista per il pagamento della rata di acconto.
Precisato quindi che, ai fini della rescissione del contratto in autotutela, occorre accertare la gravità e l’importanza dell’inadempimento, la Corte ha ritenuto che, nella comparazione delle condotte delle parti, dovesse attribuirsi un rilievo preminente al ritardo dell’impresa nella conduzione dei lavori ed al
rifiuto dalla stessa opposto all’adempimento, nonostante la sollecitazione ad ultimarli. Ribadita l’ingiustificabilità di tale rifiuto, ha ritenuto generiche le doglianze riflettenti l’inadeguatezza e l’incompletezza dei progetti esecutivi e la mancata adozione di una perizia di variante, non essendo state indicate le carenze della progettazione, degli ordini di servizio, dei chiarimenti e dei progetti esecutivi e le lavorazioni su cui le stesse avrebbero potuto incidere. Ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 23 del r.d. n. 350 del 1895, osservando che la rescissione postula la contestazione degli addebiti ai sensi dell’art. 27 del medesimo decreto, la cui mancata effettuazione era stata tardivamente e infondatamente dedotta, aggiungendo che l’inadempimento dell’appaltatrice era stato aggravato dai pignoramenti effettuati dai creditori e dai giudizi promossi dai dipendenti anche nei confronti del Comune, ed escludendo che la sottoscrizione dello stato finale dei lavori da parte di quest’ultimo comportasse il ritiro della delibera di rescissione, non revocabile per facta concludentia .
La Corte ha poi escluso che la rescissione fosse logicamente e giuridicamente incompatibile con l’applicazione della penale per il ritardo nell’adempimento, osservando invece che il predetto provvedimento non comporta l’automatico riconoscimento di un danno risarcibile, ai sensi dell’art. 340 della legge n. 2248 del 1865, all. F, riferendosi tale disposizione al danno che l’Amministrazione committente subisce per effetto della stipulazione di un nuovo contratto o dell’esecuzione d’ufficio. Considerato infine che il c.t.u. nominato nel corso del giudizio aveva determinato in Lire 944.474.810 l’importo dei lavori eseguiti dall’appaltatrice, mentre il Comune aveva riconosciuto di aver pagato l’importo complessivo di Lire 843.845.310, ha affermato che la somma residua ancora dovuta risultava pari alla differenza, da cui doveva essere detratto l’importo della penale, pari ad Euro 32.500,00. Trattandosi di una somma non riconosciuta a titolo di risarcimento, ha ritenuto non dovuta la rivalutazione monetaria, essendo l’obbligazione configurabile come debito di valuta.
Avverso la predetta sentenza la Messina ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del controricorso, notificato il 22 gennaio 2019, e quindi ben oltre il termine di cui all’art. 370, primo comma, cod. proc. civ., ovverosia il ventesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito del ricorso, decorrente dalla data della relativa notificazione, richiesta il 23 marzo 2018 ed eseguita a mezzo del servizio postale il 30 marzo successivo.
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 340 della legge n. 2248 del 1865, all. F e degli artt. 1218, 1453 e 1455 cod. civ., osservando che, nel ritenere legittima la rescissione del contratto di appalto, la sentenza impugnata ha omesso di verificare la gravità e l’importanza dell’inadempimento, sulla base di una valutazione comparativa delle condotte delle parti e un apprezzamento complessivo dell’andamento del rapporto. Premesso che la delibera di rescissione era stata adottata soltanto a seguito della notificazione del decreto ingiuntivo, ed al solo scopo di paralizzare la domanda di pagamento proposta da essa ricorrente, sostiene che il ritardo nell’esecuzione dei lavori ed il mancato completamento degli stessi erano stati determinati dal comportamento ostativo del Comune, ed in particolare dall’inadeguatezza e incompletezza del progetto, non sanate da una perizia di variante adottata dal committente, e dalla mancata adozione di una nuova perizia di variante. Aggiunge che la Corte territoriale non ha tenuto conto dell’avvenuta prosecuzione dei lavori, nonostante il mancato pagamento del quarto stato di avanzamento, né del comportamento del Comune, contrario alla buona fede, né infine della mancanza dei presupposti necessari per la rescissione del contratto e dell’intempestività del provvedimento.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che la sentenza impugnata non ha tenuto conto delle gravissime inadempienze del Comune, avendo ritenuto generiche le doglianze sollevate al riguardo, in contrasto con la specifica formulazione dei motivi di gravame, con i quali era stata avanzata, tra l’altro, una richiesta di rinnovazione della c.t.u., al fine di accertare se il ri-
tardo nell’esecuzione dei lavori fosse stato determinato dalla mancata approvazione della perizia di variante da parte del Comune. Aggiunge che la motivazione della sentenza impugnata risulta caratterizzata da argomentazioni tra loro inconciliabili, non recando l’accertamento dei presupposti necessari per la legittimità del provvedimento di rescissione, e riconoscendo espressamente la contrarietà alla buona fede del comportamento tenuto dal Comune, nonché la sussistenza del credito azionato da essa ricorrente.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni intimamente connesse, sono infondati.
In tema di appalti pubblici, questa Corte ha infatti affermato che la verifica dei presupposti richiesti dall’art. 340 della legge n. 2248 del 1865, all. F ai fini della rescissione del contratto non è vincolata dalle risultanze cui l’Amministrazione committente ha fatto riferimento ai fini dell’esercizio del suo diritto potestativo, ma va compiuta sulla base della disciplina dettata dagli artt. 1218 e 1453 cod. civ., non diversamente da quanto accade nelle comuni ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento (cfr. Cass., Sez. I, 31/ 10/2014, n. 23274). Tale disciplina, com’è noto, non consente di isolare singole condotte di una delle parti e di stabilire se ciascuna di esse soltanto costituisca motivo di inadempienza, indipendentemente da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma impone al giudice di procedere ad una valutazione sinergica del comportamento di entrambe, compiendo un’indagine globale e unitaria, coinvolgente nell’insieme l’intero loro comportamento, anche se con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché l’unitarietà del rapporto obbligatorio, cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuna delle parti, non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta del contraente, ma ne esige un apprezzamento complessivo (cfr. Cass., Sez. I, 16/03/2023, n. 7649; 9/01/2013, n. 336; 28/03/1997, n. 2799). La predetta indagine non trova d’altronde ostacolo nel carattere unilaterale del provvedimento con cui l’Amministrazione provvede allo scioglimento del rapporto, giacché lo stesso, pur essendo rivestito delle forme dell’atto amministrativo, costituisce una forma di autotutela della Pubblica Amministrazione di per sé inidonea ad incidere sulle posizioni soggettive delle parti, che, in quanto nascenti dal contratto, conservano la loro consi-
stenza di diritti soggettivi, con la conseguenza che le contestazioni che investono l’esercizio di tale potere spettano alla giurisdizione del Giudice ordinario (cfr. Cass., Sez. Un., 5/04/2005, n. 6992; 19/05/2004, n. 9534; 23/12/2003, n. 19787).
A tali principi si è correttamente attenuta la sentenza impugnata, la quale, nell’affermare la legittimità dello scioglimento in via autoritativa del rapporto da parte del Comune, non si è limitata a prendere in considerazione il comportamento dell’appaltatrice, ma ha esteso la propria valutazione alla condotta dell’Amministrazione, evidenziando per un verso il notevole ritardo in cui la Messina era incorsa nell’esecuzione dei lavori ed il mancato completamento dell’opera entro il termine previsto, e ponendo in risalto per altro verso la contrarietà alla buona fede del mancato pagamento da parte del committente dell’importo del quarto stato di avanzamento dei lavori, alla luce della portata circoscritta delle irregolarità emerse a carico dell’appaltatrice, che avevano impedito o ritardato l’emissione del certificato di pagamento. Tali comportamenti non hanno peraltro costituito oggetto di separato apprezzamento, ma sono stati opportunamente posti a confronto dalla Corte territoriale, la quale ha dato atto non solo della maggiore gravità intrinseca di quello tenuto dall’appaltatrice, che aveva rifiutato di proseguire i lavori, nonostante il sollecito comunicatole dal Comune, ma anche della contrarietà di tale rifiuto alla disciplina specificamente dettata dall’art. 46 della legge n. 109 del 1994, nella parte in cui subordina l’esercizio dell’azione di risoluzione da parte dell’appaltatore alla condizione, ritenuta nella specie insussistente, che l’Amministrazione committente non abbia provveduto al pagamento di acconti per un importo pari almeno ad un quarto di quello complessivo dell’appalto.
4.1. Quanto poi alle ulteriori inadempienze del Comune, che ad avviso della ricorrente le avrebbero impedito di eseguire i lavori nei tempi previsti e di completare l’opera nel termine fissato dal contratto, l’omessa valutazione delle circostanze a tal fine dedotte, nell’ambito del giudizio comparativo compiuto dalla sentenza impugnata, non può ritenersi censurabile ai sensi dello art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., costituendo il frutto non già della pretermissione di fatti ritualmente introdotti nel giudizio ed indebitamente trascurati dal Giudice di merito, ma di un puntuale apprezzamento in ordine
alla portata non circostanziata della relativa allegazione, che ha indotto la Corte d’appello a stigmatizzare il difetto di specificità dei motivi di gravame con cui erano state fatte valere. Tale apprezzamento è sindacabile in questa sede esclusivamente ai sensi del n. 4 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., risolvendosi la sua eventuale erroneità nella violazione dell’art. 342 cod. proc. civ., e quindi in un vizio di carattere processuale, nel cui accertamento questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo al riscontro della specificità dei motivi mediante l’esame diretto dell’atto di appello, indipendentemente dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. V, 1/12/2020, n. 27368; Cass., Sez. VI, 19/08/2020, n. 17268; 28/11/2014, n. 25308).
Peraltro, anche a voler riqualificare in tal senso le doglianze proposte dalla ricorrente, la lettura dei motivi di appello, riportati testualmente nel ricorso per cassazione, induce a ritenere condivisibile il giudizio d’inammissibilità formulato dalla Corte territoriale, risolvendosi le predette censure in una mera ricostruzione della cronologia dei lavori, accompagnata dal riferimento a carenze progettuali, alla mancata approvazione di varianti ed alla necessità di chiarimenti il cui contenuto è rimasto assolutamente imprecisato, anche in questa sede. Tali modalità di formulazione non appaiono idonee a soddisfare il principio di specificità dell’impugnazione, il quale, pur non imponendo l’utilizzazione di forme sacramentali né la redazione di un progetto alternativo di decisione, da contrapporre a quella di primo grado, postula una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, e con essi delle relative doglianze, sì da porre il giudice d’appello in condizione di cogliere immediatamente le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda il gravame e gli elementi che ne costituiscono il fondamento, e la controparte in condizione di svolgere adeguatamente le proprie difese, nel rispetto del principio del contraddittorio (cfr. Cass., Sez. II, 25/01/2023, n. 2320; 19/03/ 2019, n. 7675).
In assenza delle predette indicazioni, non merita censura neppure il rigetto dell’istanza di rinnovazione della c.t.u. proposta dalla ricorrente nell’atto di appello, non potendosi demandare al consulente l’individuazione dei vizi di progettazione che la ricorrente non è stata in grado d’indicare e dei possibili
rimedi, senza snaturare la funzione di tale istituto: la c.t.u. non costituisce infatti un mezzo di prova in senso proprio, ma uno strumento istruttorio volto a coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, e non può quindi essere disposta quando la parte miri a supplire, attraverso la stessa, alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. Cass., Sez. VI, 12/04/2019, n. 10373; 15/12/2017, n. 30218; 8/02/2011, n. 3130).
Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dello intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 5/10/2023