Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6315 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 6315 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 15466-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE – RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati COGNOME, NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2128/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/05/2023 R.G.N. 10/2023;
Oggetto
LICENZIAMENTO
GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
R.G.N.15466/2023
COGNOME
Rep.
Ud.28/01/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma del provvedimento del giudice di primo grado, ha parzialmente accolto le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE accertando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, di natura giornalistica, fra le parti, per il periodo luglio 2014-ottobre 2018, con inquadramento di Redattore, nonché la illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, applicando la tutela dettata dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.
i2. La Corte territoriale, per quel che interessa, ha ritenuto che il quadro probatorio acquisito consentiva di ritenere integrato il requisito dimensionale previsto dall’art. 18, comma 8, della legge n. 300 del 1970, posto che (oltre alla sussistenza di un organico medio di tredici lavoratori subordinati nel corso dell’anno 2018) doveva ritenersi dimostrato che gli ulteriori trenta lavoratori (formalmente inquadrati come lavoratori autonomi) prestavano la loro opera ‘ utilizzando mezzi produttivi messi a disposizione dalla datrice di lavoro, all’interno dell’organizzazione produttiva della stessa e secondo orari e turni stabiliti dal palinsesto gestito dal direttore artistico ‘, con soggezione degli speakers al potere organizzativo e gerarchico dei preposti della società e conseguente regime subordinato del rapporto, che, pertanto, consentiva di ritenere computabili nell’organico anche questi lavoratori.
Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, illustrati da memoria. Il lavoratore ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 18, commi 8 e 9, della legge n. 300 del 1970, 2094 e 2697 c.c., 115 c.p.c. in quanto la Corte di appello, con riguardo al requisito dimensionale necessario per individuare il regime di tutela da applicare in caso di illegittimità del licenziamento, ha erroneamente tenuto conto dei collaboratori parasubordinati ed autonomi, avendo accertato la natura subordinata del rapporto tra tutti i collaboratori autonomi dando rilievo ad elementi indiziari sussidiari (utilizzo di materiale tecnologico di proprietà della società, osservanza di una fascia oraria) privi del carattere della decisività, e travisando le risultanze dell’istruttoria, a fronte della mancata prova della soggezione di detti lavoratori al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, avendo la Corte territoriale, erroneamente ricostruito il requisito dimensionale della società e, pertanto, errato nell’individuazione del regime sanzionatorio applicabile, che deve ritenersi quello dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Le censure formulate come violazione e falsa applicazione di legge mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del
compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.
Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui si presenta in forma attenuata in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto; occorre pertanto fare riferimento a criteri complementari e sussidiari (la collaborazione, la continuità delle prestazioni, l’osservanza di un orario determinato, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, l’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale) e la valutazione di fatto, che è rimessa al giudice del merito, se immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivata è insindacabile in sede di legittimità risultando ivi censurabile soltanto la determinazione
dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto (cfr.
Cass. n. 5436 del 2019; Cass. n. 22323 del 2023).
La Corte territoriale si è conformata correttamente ai principi innanzi espressi e le censure del ricorrente mirano, inammissibilmente, ad ottenere una diversa combinazione e valutazione degli elementi istruttori emersi in corso di causa.
Va, inoltre, sottolineato che la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, interamente gravante sul datore di lavoro (cfr. da ultimo Cass. n. 9867 del 2017 che ha ribadito i principi già affermati dalle Sezioni Unite, sentenza n. 141 del 2006, secondo cui le dimensioni dell’impresa – inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 -costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono essere provati dal datore di lavoro).
Il secondo motivo di ricorso è assorbito dal rigetto del primo motivo.
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 28 gennaio