Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18013 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 18013 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 02/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 13940/2023 r.g. proposto da:
NOME COGNOME, già titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE con sede in Pantelleria alla c.da RAGIONE_SOCIALE, p.i.:P_IVA, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso , dall’avv. NOME COGNOME del Foro di Benevento presso e nel cui studio in Benevento alla INDIRIZZO elettivamente domicilia.
–
ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (C.F. 13756881002), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587 fax: NUMERO_TELEFONO, PEC: EMAIL) presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
-controricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione in persone del l.p.t.;
FALLIMENTO DITTA INDIVIDUALE SIBA’
-intimati –
avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo, depositata in data 24.5.2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/5/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Palermo ha rigettato il reclamo proposto, ai sensi dell’art. 18 l. fall., da parte di NOME COGNOME nella qualità di titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE nei confronti di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza dichiarativa di fallimento n. 11/2021, emessa dal Tribunale di Marsala in data 25.6.2021.
La Corte territoriale ha ricordato ed osservato, per quanto qui ancora di interesse, che: (i) con la sentenza n. 11, pubblicata il 25.6.2021, il Tribunale di Marsala aveva accolto il ricorso presentato da RAGIONE_SOCIALE e dichiarato il fallimento dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE NOME, sul rilievo che: – non essendosi costituita l’impresa fallenda, la stessa non avesse dimostrato la sussistenza dei presupposti di non fallibilità previsti dagli artt. 1 e 15 l.fall.; dall’istruttoria prefallimentare era emersa invece l’esistenza del credito scaduto , vantato dalla società ricorrente (di per sé già superiore ad euro 30.000,00), e di debiti fiscali comunicati da RISCOSSIONE SICILIA s.p.a., anch’essi complessivamente superiori ad euro 30.000,00; – l o stato di insolvenza era, poi, dimostrato dall’omesso pagamento di tali debiti scaduti e, in particolare, del credito vantato dalla società ricorrente; (ii) l ‘impresa fallenda non aveva dedotto alcunché, in sede di reclamo, sull’insussistenza dei requisiti di fallibilità, essendo invece un suo specifico onere quello di allegare e dimostrare l’esistenza dei fatti impeditivi del fallimento; (ii) più in particolare, non aveva neppure affrontato la questione del requisito de ll’attivo patrimoniale, limitandosi ad evidenziare l’inesistenza di debiti scaduti superiori ad euro 30.000,00 (ma nulla osservando rispetto all’entità dell’esposizione debitoria complessiva) e l’assenza di ricavi negli ultimi tre anni; (iii) dagli atti di causa risultava invece che l’imprenditrice era titolare di alcuni beni immobili e, non essendo stato
neppure allegato quale fosse il loro valore, non si poteva presumere che lo stesso fosse inferiore ad euro 300.000,00 ; (iv) l’ esistenza di debiti scaduti di ammontare superiore ad euro 30.000,00 si evinceva dagli estratti di ruolo prodotti dall’Agente della Riscossione per un ammontare superiore ad euro 30.000,00, rispetto ai quali l’impresa fallenda non aveva dedotto nulla, né tanto meno l’impresa debitrice aveva dimostrato l’avvenuta estinzione o inesistenza dei crediti tributari; (v) al debito nei confro nti dell’Erario si aggiungeva il debito nei confronti della società ricorrente, che aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per la somma di euro 39.040,00, decreto neppure opposto, con la conseguenza che risultava, pertanto, pacificamente la sussistenza della condizione prevista dall’art. 15 , ultimo comma, l. fall., per la dichiarazione di fallimento; (vi) dalla documentazione prodotta in sede di giudizio emergeva pertanto l’esistenza dei crediti appena menzionati, l’inesistenza di un attivo fallimentare (per come accertato dal curatore fallimentare con la relazione prodotta agli atti) e di ricavi negli ultimi tre anni, sicché risultava evidente anche l’incapacità di far fronte da parte dell’impresa fallenda ai debiti maturati e, dunque, lo stato di insolvenza; (vii) la mera produzione di fatture nei confronti dei supposti clienti morosi non era peraltro sufficiente a provare l’esistenza di una provvista finanziaria effettiva e concreta , tale da far fronte all’esposizione debitoria accertata nel corso dell’istru ttoria pre-fallimentare.
La sentenza, pubblicata il 24.5.2023, è stata impugnata da NOME COGNOME nella qualità di titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e FALLIMENTO DITTA INDIVIDUALE RAGIONE_SOCIALE , intimati, non hanno svolto difese.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1 l. fall., in relazione al profilo de ll’asso ggettabilità dell ‘ impresa individuale RAGIONE_SOCIALE alla procedura fallimentare, sul rilievo che
la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto assoggettabile alla procedura fallimentare l’impresa ricorrente.
1.1 Osserva la ricorrente che la Corte di merito aveva argomentato sulla esistenza di immobili nel patrimonio della fallita, esistenza della quale non si sarebbe fornita alcuna prova quanto al relativo valore. Precisa, tuttavia, la ricorrente che gli immobili di cui aveva fatto menzione la Corte territoriale erano quelli, poi, individuati dal curatore e dallo stesso rappresentati in atti, come tali costituiti da fabbricati diruti e terreni incolti e non recintati, il cui valore commerciale era pressocché infimo.
1.2 Quanto, invece, al limite di valore economico e temporale dei ricavi previsti dall’art. 1 l. fall., occorreva ribadire che la ditta fallita sin dal 2018 e pertanto nei tre anni precedenti la richiesta di fallimento – aveva cessato ogni attività. Come, infatti, rilevato nelle note di trattazione scritta, dalla relazione periodica depositata dal curatore era emerso che l’unico rapporto bancario intrattenuto dalla fallita era quello con la BANCA INTESA SANPAOLO S.p.A. Agenzia di Pantelleria e che il relativo conto corrente risultava ‘ estinto sin dal 27-8-2019 con saldo prossimo allo zero ed, in buona sostanza, non movimentato almeno sin dal gennaio 2018′. Sarebbe conseguito da ciò la dimostrazione dell’ impossibilità di un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore a 300.000 euro.
1.3 Quanto detto varrebbe anche ai fini della prova dell ‘inesistenza dell’altro requisito richiesto dall’art. 1 l. fall. per l’esclusione dal fallimento dell’imprenditore commerciale, e cioè l’aver realizzato nei tre esercizi antecedenti al la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200.000 euro, essendo evidente che, stante la cessazione del l’attività nel 2018, e cioè nei tre anni precedenti al ricorso di fallimento, la ditta poi dichiarata fallita non avrebbe potuto realizzare alcun ricavo.
1.4 Quanto, infine, all’ultimo requisito richiesto dall’art. 1 l. fall. per l’esclusione dell’imprenditore dal fallimento, e cioè avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000 euro, si osservava ancora che il passivo accertato dal curatore era di soli 90.000 euro e che, pertanto,
anche al di là di ogni disquisizione sull ‘ esistenza o meno dei presunti crediti (solo due in verità, RAGIONE_SOCIALE e Agenzia delle Entrate Riscossioni) risultava per tabulas dallo stato passivo che l’ammontare dei debiti era da determinarsi nella somma sopra indicata.
1.5 Il primo motivo è inammissibile perché le censure, sotto l’egida applicativa del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., tentano di sollecitare questa Corte di legittimità ad un nuovo scrutinio di carattere fattuale sul profilo della sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di fallibilità previsti dall’art. 1, 2 comma, l. fall. , scrutinio che, come è noto, è inibito alla Corte di cassazione.
Sul punto non può infatti essere dimenticato che – in tema di ricorso per cassazione – il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (così, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017). Più precisamente è stato affermato sempre dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità che le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel
trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019).
Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., dell’art. 5 l. fall., sul rilievo dell’erroneo apprezzamento da parte della Corte di merito del presupposto oggettivo dell’insolven za.
2.1 Ricorda la ricorrente che l a stessa Corte d’Appello aveva, nella sentenza impugnata, affermato che: ‘Dalla documentazione prodotta in giudizio risulta l’esistenza dei crediti appena menzionati, l’inesistenza di un attivo fallimentare (per come accertato dal curatore fallimentare con relazione prodotta agli atti dalla stessa impresa fallenda) e di ricavi negli ultimi tre anni, sicché risulta evidentemente l’incapacità di far fronte dell’impresa fallenda ai detti debiti e, quindi, lo stato di insolvenza’. Sarebbe stata invece proprio la Corte d’Appello a smentire se stessa , in quanto aveva accertato e dichiarato che, nei tre anni antecedenti al deposito del ricorso della RAGIONE_SOCIALE non vi era stato alcun ricavo per non essere stata, ovviamente, esplicata alcuna attività, per poi statuire contraddittoriamente la conferma della sentenza reclamata.
2.2 Anche il secondo motivo è inammissibile per le medesime ragioni già spiegate in relazione alla declaratoria di inammissibilità del primo motivo, posto che, ancora una volta, la ricorrente cerca di rimettere a questa Corte un nuovo giudizio sulla quaestio facti , in relazione in questo caso all’apprezzamento dello stato di insolvenza, richiedendo una nuova lettura degli atti istruttori. Tale giudizio non è tuttavia demandabile alla Corte di cassazione per i notori limiti di sindacato che delimitano la cognizione del giudizio di legittimità.
Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 28 maggio 2025