Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2249 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2249 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 30/01/2025
R.G. 18048/2021
COGNOME
Rep.
C.C. 3/12/2024
C.C. 14/4/2022
MEDICI SPECIALIZZANDI.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18048/2021 R.G. proposto da : COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi dall ‘ avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrenti-
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO DELLA SALUTE, MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA, MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, rappresentati e difesi per legge dall’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrenti-
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di ROMA n. 2532/2021 depositata il 07/04/2021. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La dottoressa NOME COGNOME e gli altri medici di cui in epigrafe convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri indicati in epigrafe, chiedendo che fosse dichiarato il loro diritto a percepire un’adeguata remunerazione in relazione al periodo di specializzazione.
A sostegno della domanda esposero di essersi laureati in medicina e di aver conseguito ciascuno una diversa specializzazione, percependo gli emolumenti di cui all’art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257. Aggiunsero che il legislatore nazionale aveva stabilito, con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 -di recepimento, tra l’altro, della direttiva 93/16/CE -un incremento del compenso in favore dei medici specializzandi, incremento che aveva avuto effettiva attuazione, però, solo con l’art. 1, comma 300, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, con decorrenza dall’anno accademico 2006 -2007. Conclusero, pertanto, nel senso che tale aggiornamento doveva essere a loro riconosciuto, con rivalutazione delle relative somme, essendosi svolti i periodi di specializzazione in epoca antecedente l’anno accademico 2006 -2007.
Si costituirono in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri convenuti, eccependo il difetto di legittimazione passiva e la prescrizione del diritto, e chiedendo nel merito il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese di lite.
La sentenza è stata impugnata dai medici soccombenti e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 7 aprile 2021, ha
rigettato integralmente il gravame, condannando gli appellanti al pagamento delle spese del grado.
La Corte territoriale ha osservato che il recepimento delle direttive dell’Unione europea in materia di medici specializzandi doveva ritenersi compiuto già con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 257 del 1991, per cui l’aumento dei compensi stabilito col d.lgs. n. 368 del 1999 e attuato effettivamente solo a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 non poteva costituire inadempimento della direttiva 93/16/CEE, posto che essa nulla aveva innovato rispetto all’obbligo di corresponsione di un’adeguata retribuzione ai medici specializzandi.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propongono ricorso la dottoressa NOME COGNOME e gli altri medici di cui in epigrafe con unico atto affidato a quattro motivi.
Resistono la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri con un unico controricorso.
La trattazione è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ. e il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione della direttiva UE n. 93/16, degli artt. 37, 38, 39, 40, 41, 45 e 46 del d.lgs. n. 368 del 1999 e del d.P.C.m. 7 marzo 2007 e 6 luglio 2007.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 e 2043 cod. civ., affermando che sussiste per il legislatore nazionale l’obbligo di adeguare nella
misura più rigorosa la normativa interna a quella europea, il che imponeva di riconoscere ai medici ricorrenti lo stesso trattamento previsto dal d.lgs. n. 368 del 1999.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., sostenendo che la condanna alle spese non avrebbe dovuto essere pronunciata dalla Corte d’appello, perché il giudizio di secondo grado fu intrapreso nel 2016 e in quel momento non vi era alcun preciso orientamento della giurisprudenza sulla questione in esame.
Nei primi tre motivi si contesta in vario modo che l’attuazione delle direttive 1975/362 CEE, 1975/363 CEE, 1982/76 CEE, 1993/16/CEE, sia avvenuta tardivamente e si sostiene che solo con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 1999 sarebbe stata data effettiva attuazione alla direttiva 1993/16/CEE. Con la conseguenza che ai ricorrenti dovrebbe essere riconosciuto il più elevato trattamento economico di cui al d.lgs. n. 368 cit.; i motivi suindicati, inoltre, sottolineano come tale riconoscimento fosse l’unico in grado di rendere la normativa interna conforme a quella dell’Unione europea.
5.1. I primi tre motivi di ricorso sono inammissibili ai sensi dell’art. 360 -bis n. 1) cod. proc. civ., posto che sulle questioni in esame la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo consolidata.
Il Collegio osserva che con la sentenza 28 giugno 2018, n. 17051 (e numerose altre conformi, tra cui le ordinanze 27 febbraio 2019, n. 5698, 15 ottobre 2019, n. 26074, 28 febbraio 2020, n. 5455, 12 novembre 2020, n. 25463, 21 gennaio 2021, n. 1114, e 30 aprile 2024, n. 11630) questa Corte ha affrontato un caso identico a quello in esame, pervenendo a conclusioni alle quali la pronuncia odierna intende dare piena e convinta continuità. Tali conclusioni, peraltro, sono in linea con un orientamento già assunto
dalla Sezione Lavoro di questa Corte (v., tra le altre, le sentenze 16 gennaio 2014, n. 794, 4 giugno 2014, n. 15362, e, più di recente, la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449) e da questa Terza Sezione Civile.
5.2. Giova ricordare alcuni fondamentali passaggi normativi.
Con l’art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, il legislatore italiano, dando attuazione, sia pure tardivamente, al disposto della direttiva n. 82/76/CEE del Consiglio, stabilì in favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione una borsa di studio determinata per l’anno 1991 nella somma di lire 21.500.000. Tale somma era destinata ad un incremento annuale, a decorrere dal 1° gennaio 1992, sulla base del tasso programmato di inflazione, incremento fissato ogni triennio con decreto interministeriale. Il meccanismo di adeguamento venne peraltro bloccato successivamente, con effetto retroattivo, dalla legge 28 dicembre 1995, n. 549, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 432 del 1997), e da altre leggi successive (v. sul punto, ampiamente, la citata sentenza n. 4449 del 2018).
In seguito, dando attuazione alla direttiva n. 93/16/CE, il legislatore nazionale intervenne sulla materia con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, che raccolse in un testo unico le precedenti direttive n. 75/362 e n. 75/363 CEE, con le relative successive modificazioni. Tale decreto -in seguito ampiamente modificato dall’art. 1, comma 300, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 -riorganizzò l’ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, istituendo e disciplinando un vero e proprio contratto di formazione (inizialmente denominato ‘contratto di formazione -lavoro’ e poi ‘contratto di formazione -specialistica’, art. 37 del d.lgs. cit.), da stipulare e rinnovare annualmente tra Università (e Regioni) e medici specializzandi, con un meccanismo di retribuzione articolato in una quota fissa ed in
una quota variabile, in concreto periodicamente determinate da successivi decreti ministeriali (art. 39 d.lgs. cit.). Questo contratto, peraltro, come la Sezione Lavoro di questa Corte ha ribadito in plurime occasioni, non dà luogo ad un rapporto inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato, né è riconducibile alle ipotesi di parasubordinazione, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra l’attività degli specializzandi e gli emolumenti previsti dalla legge, restando conseguentemente inapplicabili l’art. 36 Cost. ed il principio di adeguatezza della retribuzione ivi contenuto (v. in tal senso l’ordinanza 27 luglio 2017, n. 18670, sulla scia di un consolidato orientamento, richiamata dall’ordinanza 14 marzo 2018, n. 6355).
In realtà, però, il nuovo meccanismo retributivo di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 divenne operativo solo a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 (art. 46, comma 2, d.lgs. cit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte prima dall’art. 8 del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517, e poi dal già citato art. 1, comma 300, della legge n. 266 del 2005); mentre le disposizioni del d.lgs. n. 257 del 1991 rimasero applicabili fino all’anno accademico 2005-2006. Il trattamento economico spettante ai medici specializzandi in base al contratto di formazione specialistica fu poi in concreto fissato con i d.P.C.m. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.
5.3. Compiuta questa breve premessa normativa, il cuore della questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire 1) se la direttiva n. 93/16/CE abbia avuto o meno una portata innovativa rispetto a quanto stabilito dalle precedenti direttive n. 75/362/CEE, n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE; 2) se il concetto di retribuzione adeguata sia mutato nel passaggio dalle precedenti alla più recente direttiva; 3) se e quando lo Stato italiano abbia adempiuto all’obbligo di garantire ai medici specializzandi una retribuzione adeguata.
Le pronunce di questa Corte in precedenza richiamate hanno già risposto a tali domande nei termini che la decisione odierna intende ulteriormente confermare.
Ed invero la direttiva n. 93/16/CE, come risulta dalla sua stessa formulazione (si veda, in proposito, il primo Considerando ), non ha una portata innovativa, prefiggendosi soltanto l’obiettivo, «per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza», di procedere alla codificazione delle tre suindicate direttive «riunendole in un testo unico»; il che risulta ancor più evidente per il fatto che la direttiva in questione lascia «impregiudicati gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento delle direttive» di cui all’allegato III, parte B (così l’ultimo dei Considerando ).
È opportuno ricordare, del resto, che il termine «adeguata rimunerazione» compare per la prima volta nell’Allegato alla direttiva n. 82/76/CEE e si ritrova, senza alcuna modificazione, nell’Allegato I alla direttiva n. 93/16/CE, per cui è dalla scadenza del termine di adempimento della direttiva del 1982 che l’esigenza di tale adeguatezza divenne regola di obbligatorio recepimento nel diritto interno. Tuttavia -e questo è il punto fondamentale che gli odierni ricorrenti non hanno colto -lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con l’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991; la normativa dell’Unione europea, infatti, non contiene, né potrebbe essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica.
Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 4449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, «nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute negli artt. da 37 a 42 (del d.lgs. n. 368 del 1999) e la sostanziale conferma del contenuto
del d.lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. 15362/2014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico né ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato (cfr. punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Né vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova normativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione». In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 6355 del 2018, va affermato che il «nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il decreto legislativo n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla legge n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi».
Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del decreto legislativo n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 -causa C-131/97, COGNOME, e 3 ottobre 2000 -causa C-371/97, COGNOME); e il d.lgs. n. 368 del 1999
è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale.
5.4. Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione europea e che la causa promossa dai ricorrenti è finalizzata, in realtà, ad ottenere l’applicazione retroattiva del d.lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare «esclusivamente l’ordinamento interno» (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 -che è una normativa più favorevole -rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicché il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno.
Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.
Da tale giurisprudenza la Corte non vede ragioni per discostarsi.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato, perché la Corte d’appello non ha fatto altro che applicare il principio di soccombenza ai fini della condanna alle spese, per cui non è chiaro di cosa possano oggi dolersi i ricorrenti.
Il Collegio rileva, al riguardo, che, anche volendo ipotizzare che all’epoca in cui venne introdotto il giudizio di appello (anno 2016) non vi fosse ancora uno stabile orientamento giurisprudenziale sul punto, la pronuncia della Corte d’appello qui
impugnata è del 2021, momento nel quale, viceversa, la giurisprudenza di questa Corte era ormai consolidata nei sensi di cui alla pronuncia odierna. Ne deriva che l’insistenza, a quella data, per la decisione dell’appello non poteva che comportare la condanna alle spese.
Il Collegio ricorda, inoltre, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono, inoltre, i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti solidalmente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate nella somma complessiva di euro 3.690 più spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza