Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2247 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2247 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 30/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13273/2021 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi da ll’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrenti-
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO DELLA SALUTE, MINISTERO DELL’ ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ e RICERCA, MINISTERO DELL’ ECONOMIA E FINANZE, tutti rappresentati e difesi per legge dall’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
R.G. 13273/2021
COGNOME
Rep.
C.C. 3/12/2024
C.C. 14/4/2022
MEDICI SPECIALIZZANDI.
(NUMERO_DOCUMENTO, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrenti- avverso la SENTENZA del TRIBUNALE ROMA n. 12004/2019 depositata il 06/06/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La dottoressa NOME COGNOME e gli altri medici di cui in epigrafe convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri indicati in epigrafe, chiedendo che fosse dichiarato il loro diritto a percepire un’adeguata remunerazione in relazione al periodo di specializzazione.
A sostegno della domanda esposero di essersi laureati in medicina e di aver conseguito ciascuno una diversa specializzazione, percependo gli emolumenti di cui all’art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257. Aggiunsero che il legislatore nazionale aveva stabilito, con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 -di recepimento, tra l’altro, della direttiva 93/16/CE -un incremento del compenso in favore dei medici specializzandi, incremento che aveva avuto effettiva attuazione, però, solo con l’art. 1, comma 300, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, con decorrenza dall’anno accademico 2006 -2007. Conclusero, pertanto, nel senso che tale aggiornamento doveva essere a loro riconosciuto, con rivalutazione delle relative somme, essendosi svolti i periodi di specializzazione in epoca antecedente l’anno accademico 2006 -2007.
Chiesero poi, in via subordinata, che, in applicazione dell’art. 6 cit., fosse riconosciuto il loro diritto all’indicizzazione annuale della borsa di studio e alla rideterminazione triennale della medesima.
Si costituirono in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri convenuti, eccependo in rito l’inammissibilità della domanda in quanto coperta da un precedente giudicato di rigetto pronunciato in separati giudizi promossi dagli stessi attori, e chiedendo nel merito il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese di lite nella misura di metà, ponendo a carico degli attori la rimanente metà.
La sentenza è stata impugnata dai medici soccombenti e la Corte d’appello di Roma, con ordinanza del 4 marzo 2021, pronunciata ai sensi dell’art. 348 -ter cod. proc. civ., ha dichiarato inammissibile il gravame siccome privo di ragionevoli probabilità di accoglimento ed ha condannato gli appellanti al pagamento delle ulteriori spese del grado.
La Corte territoriale ha osservato che i motivi di appello erano da ritenere tutti infondati alla luce di un’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità.
Contro la sentenza del Tribunale di Roma propongono ricorso NOME COGNOME e gli altri medici di cui in epigrafe con unico atto affidato a tre motivi.
Resistono la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli altri Ministeri con un unico controricorso.
La trattazione è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ. e il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE, delle direttive nn. 82/76, 75/363, 75/362 e 93/16, dell’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991, dell’art. 11 della legge n. 370 del 1999, degli artt. 37, 38, 39, 40, 41, 45 e 46 del d.lgs. n. 368 del 1999, dell’art. 8
del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517, e dell’art. 1, comma 300, della legge 23 dicembre 2005, n. 266.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione delle norme già richiamate nel primo motivo nonché dell’art. 7 del decreto -legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modifiche, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, dell’art. 3, comma 36, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, dell’art. 1, comma 33, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, dell’art. 32, comma 12, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, dell’art. 22 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, dell’art. 36 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Nei due motivi si contesta in vario modo che l’attuazione delle direttive 1975/362 CEE, 1975/363 CEE, 1982/76 CEE, 1993/16/CEE, sia avvenuta tardivamente e si sostiene che solo con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 1999 sarebbe stata data effettiva attuazione alla direttiva 1993/16/CEE. Con la conseguenza che ai ricorrenti dovrebbe essere riconosciuto il più elevato trattamento economico di cui al d.lgs. n. 368 cit.; i motivi suindicati, inoltre, sottolineano come ai medici specializzandi dovessero essere riconosciuti sia la rideterminazione triennale del compenso che la rivalutazione annuale, essendo nel tempo la loro retribuzione divenuta talmente esigua da non poter garantire il soddisfacimento delle più elementari e necessarie esigenze di vita.
3.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 360bis n. 1) cod. proc. civ., posto che sulle questioni in esame la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo consolidata.
Il Collegio osserva che con la sentenza 28 giugno 2018, n. 17051 (e numerose altre conformi, tra cui le ordinanze 27 febbraio 2019, n. 5698, 15 ottobre 2019, n. 26074, 28 febbraio 2020, n. 5455, 12 novembre 2020, n. 25463, 21 gennaio 2021, n. 1114, e 30 aprile 2024, n. 11630) questa Corte ha affrontato un caso
identico a quello in esame, pervenendo a conclusioni alle quali la pronuncia odierna intende dare piena e convinta continuità. Tali conclusioni, peraltro, sono in linea con un orientamento già assunto dalla Sezione Lavoro di questa Corte (v., tra le altre, le sentenze 16 gennaio 2014, n. 794, 4 giugno 2014, n. 15362, e, più di recente, la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449) e da questa Terza Sezione Civile.
3.2. Giova ricordare alcuni fondamentali passaggi normativi.
Con l’art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, il legislatore italiano, dando attuazione, sia pure tardivamente, al disposto della direttiva n. 82/76/CEE del Consiglio, stabilì in favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione una borsa di studio determinata per l’anno 1991 nella somma di lire 21.500.000. Tale somma era destinata ad un incremento annuale, a decorrere dal 1° gennaio 1992, sulla base del tasso programmato di inflazione, incremento fissato ogni triennio con decreto interministeriale. Il meccanismo di adeguamento venne peraltro bloccato successivamente, con effetto retroattivo, dalla legge 28 dicembre 1995, n. 549, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 432 del 1997), e da altre leggi successive (v. sul punto, ampiamente, la citata sentenza n. 4449 del 2018).
In seguito, dando attuazione alla direttiva n. 93/16/CE, il legislatore nazionale intervenne sulla materia con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, che raccolse in un testo unico le precedenti direttive n. 75/362 e n. 75/363 CEE, con le relative successive modificazioni. Tale decreto -in seguito ampiamente modificato dall’art. 1, comma 300, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 -riorganizzò l’ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, istituendo e disciplinando un vero e proprio contratto di formazione (inizialmente denominato ‘contratto di formazione -lavoro’ e poi ‘contratto di formazione –
specialistica’, art. 37 del d.lgs. cit.), da stipulare e rinnovare annualmente tra Università (e Regioni) e medici specializzandi, con un meccanismo di retribuzione articolato in una quota fissa ed in una quota variabile, in concreto periodicamente determinate da successivi decreti ministeriali (art. 39 d.lgs. cit.). Questo contratto, peraltro, come la Sezione Lavoro di questa Corte ha ribadito in plurime occasioni, non dà luogo ad un rapporto inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato, né è riconducibile alle ipotesi di parasubordinazione, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra l’attività degli specializzandi e gli emolumenti previsti dalla legge, restando conseguentemente inapplicabili l’art. 36 Cost. ed il principio di adeguatezza della retribuzione ivi contenuto (v. in tal senso l’ordinanza 27 luglio 2017, n. 18670, sulla scia di un consolidato orientamento, richiamata dall’ordinanza 14 marzo 2018, n. 6355).
In realtà, però, il nuovo meccanismo retributivo di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 divenne operativo solo a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 (art. 46, comma 2, d.lgs. cit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte prima dall’art. 8 del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517, e poi dal già citato art. 1, comma 300, della legge n. 266 del 2005); mentre le disposizioni del d.lgs. n. 257 del 1991 rimasero applicabili fino all’anno accademico 2005-2006. Il trattamento economico spettante ai medici specializzandi in base al contratto di formazione specialistica fu poi in concreto fissato con i d.P.C.m. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.
3.3. Compiuta questa breve premessa normativa, il cuore della questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire 1) se la direttiva n. 93/16/CE abbia avuto o meno una portata innovativa rispetto a quanto stabilito dalle precedenti direttive n. 75/362/CEE, n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE; 2) se il concetto di retribuzione adeguata sia mutato nel passaggio
dalle precedenti alla più recente direttiva; 3) se e quando lo Stato italiano abbia adempiuto all’obbligo di garantire ai medici specializzandi una retribuzione adeguata.
Le pronunce di questa Corte in precedenza richiamate hanno già risposto a tali domande nei termini che la decisione odierna intende ulteriormente confermare.
Ed invero la direttiva n. 93/16/CE, come risulta dalla sua stessa formulazione (si veda, in proposito, il primo Considerando ), non ha una portata innovativa, prefiggendosi soltanto l’obiettivo, «per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza», di procedere alla codificazione delle tre suindicate direttive «riunendole in un testo unico»; il che risulta ancor più evidente per il fatto che la direttiva in questione lascia «impregiudicati gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento delle direttive» di cui all’allegato III, parte B (così l’ultimo dei Considerando ).
È opportuno ricordare, del resto, che il termine «adeguata rimunerazione» compare per la prima volta nell’Allegato alla direttiva n. 82/76/CEE e si ritrova, senza alcuna modificazione, nell’Allegato I alla direttiva n. 93/16/CE, per cui è dalla scadenza del termine di adempimento della direttiva del 1982 che l’esigenza di tale adeguatezza divenne regola di obbligatorio recepimento nel diritto interno. Tuttavia -e questo è il punto fondamentale che gli odierni ricorrenti non hanno colto -lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con l’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991; la normativa dell’Unione europea, infatti, non contiene, né potrebbe essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica.
Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 4449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, «nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute negli artt. da 37 a 42 (del d.lgs. n. 368 del 1999) e la sostanziale conferma del contenuto del d.lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. 15362/2014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico né ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato (cfr. punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Né vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova normativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione». In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 6355 del 2018, va affermato che il «nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il decreto legislativo n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla legge n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi».
Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del
decreto legislativo n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 -causa C-131/97, COGNOME, e 3 ottobre 2000 -causa C-371/97, Gozza); e il d.lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale.
3.4. Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione europea e che la causa promossa dai ricorrenti è finalizzata, in realtà, ad ottenere l’applicazione retroattiva del d.lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare «esclusivamente l’ordinamento interno» (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 -che è una normativa più favorevole -rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicché il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno.
Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.
Da tale giurisprudenza la Corte non vede ragioni per discostarsi.
Analogamente inammissibile, ai sensi dell’art. 360 -bis n. 1) cod. proc. civ., è il secondo motivo di ricorso, ove si censura la presunta violazione dei meccanismi di adeguamento triennale e di
rivalutazione, posto che anche su questo punto la giurisprudenza della Corte è ormai da tempo consolidata.
È stato infatti più volte affermato che l’importo delle borse di studio dei medici specializzandi iscritti ai corsi di specializzazione negli anni accademici dal 1998 al 2005 non è soggetto all’adeguamento triennale previsto dall’art. 6, comma 1, del d. lgs. n. 257 del 1991, in quanto l’art. 32, comma 12, della legge n. 449 del 1997, con disposizione confermata dall’art. 36, comma 1, della legge n. 289 del 2002, ha consolidato la quota del Fondo sanitario nazionale destinata al finanziamento delle borse di studio ed escluso integralmente l’applicazione del citato art. 6 (ordinanza 27 luglio 2017, n. 18670, sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449, ribadita da altre successive, fra cui l’ordinanza 20 maggio 2019, n. 13572).
È stato anche detto che il blocco di tale incremento non può dirsi irragionevole, iscrivendosi in una manovra di politica economica riguardante la generalità degli emolumenti retributivi in senso lato erogati dallo Stato (così le Sezioni Unite, sentenza 16 dicembre 2008, n. 29345, la sentenza 15 giugno 2016, n. 12346, l’ordinanza 27 luglio 2017, n. 18670 e la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449).
Tale giurisprudenza ha ricevuto anche l’autorevole avallo delle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 19 luglio 2024, n. 20006, e non sussistono ragioni per discostarsene.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), n. 4) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 97 e 348ter cod. proc. civ., nonché dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione alla condanna al pagamento delle spese.
I ricorrenti osservano di aver contestato, con apposito motivo di appello, la decisione del Tribunale in ordine alla liquidazione delle spese. L’ordinanza impugnata non si sarebbe pronunciata in argomento, non considerando che l’originario giudizio era stato
separato in sei cause diverse e che le Amministrazioni convenute si erano difese fino al momento precedente la separazione, per cui l’importo della liquidazione avrebbe dovuto essere ridotto.
5.1. Il motivo si deve ritenere rivolto non contro l’ordinanza, dato che non contesta -come avrebbe potuto fare -che l’ordinanza ex art. 348ter cod. proc. civ. sia stata pronunciata illegittimamente in quanto nell’appello c’era anche un motivo sulle spese del giudizio di primo grado, ma rivolge la sua critica direttamente contro la sentenza del Tribunale, impugnabile ed impugnata per effetto della sorte dell’appello. E’ vero che in chiusura del ricorso si chiede la cassazione anche dell’ordinanza, ma lo si fa solo come conseguenza dell’eventuale accoglimento dell’impugnazione contro la sentenza di primo grado.
Il motivo è privo di fondamento.
Il Tribunale, assumendo come valore della causa lo scaglione che supera euro 520.000, ha liquidato le spese nella somma di euro 28.000, che però corrisponde alla metà, posto che le spese sono state compensate in ragione dell’altra metà.
Assumendo come valore della causa quello di euro 80.000 per ciascuna parte -dal momento che risulta dall’atto di citazione di primo grado che fu chiesta la somma di euro 20.000 per ogni anno di corso, con una durata media dei corsi di quattro anni -risulta che lo scaglione da applicare sarebbe stato, più correttamente, quello che arriva fino ad euro 260.000. Consegue da ciò che le spese per il giudizio di primo grado avrebbero dovuto essere liquidate nella somma di euro 25.254; ma, calcolando l’aumento conseguente alla pluralità di parti, la liquidazione sarebbe potuta giungere fino ad una somma anche più elevata rispetto a quella riconosciuta dal Tribunale.
Il che viene a significare che la censura è priva di fondamento.
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate, attesa la pluralità dei ricorrenti, secondo i criteri di cui all’ordinanza 17 aprile 2024, n. 10367, ribaditi dalla sentenza delle Sezioni Unite 14 ottobre 2024, n. 26603.
Non può essere accolta, invece, l’ulteriore richiesta avanzata nel controricorso di condanna dei ricorrenti per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., posto che la rimessione alle Sezioni Unite della questione oggetto del secondo motivo di ricorso non consente di pronunciare tale condanna.
Sussistono, inoltre, i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti solidalmente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate nella somma complessiva di euro 24.786 più spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza