Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20737 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 20737 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
SENTENZA
sul ricorso 10912/2020 R.G. proposto da COGNOME elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio de ll’ avvocato COGNOME , rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME e COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME con domicilio digitale presso l’indirizzo pec del difensore ; -controricorrente – avverso la sentenza n. 461/2020 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 25/02/2020;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/06/2025 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
Udite le conclusioni del Procuratore Generale dr. NOME COGNOME e del difensore delegato della controricorrente
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne innanzi il Tribunale di Siracusa, NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedendo che venisse accertata la
proprietà esclusiva in suo favore di un terreno, esteso per mq 120, distinto al catasto al foglio 32 particella 574 antistante la propria abitazione sita in Siracusa, INDIRIZZO occupato illegittimamente dai convenuti, i quali avevano demolito il vecchio muro di cinta, posto a confine, ed avevano edificato un manufatto in violazione delle distanze legali. Chiese, pertanto, la condanna al rilascio, la riduzione in pristino, nonché la demolizione delle costruzioni edificate ed il risarcimento dei danni per la lamentata occupazione.
I coniugi COGNOME e COGNOME si costituirono in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea e formulando domanda riconvenzionale di acquisto dei fabbricati per usucapione ultraventennale.
In esito all’istru zione probatoria, il giudice adito, qualificata la domanda proposta dalla COGNOME quale azione di regolamento dei confini, accertò il lamentato sconfinamento e condannò i convenuti alla riduzione in pristino dei luoghi mediante demolizione dei manufatti.
A seguito di rituale impugnazione proposta dalle parti soccombenti, con sentenza n. 461 depositata il 25 febbraio 2020, la Corte di Appello di Catania rigettò il gravame e confermò la sentenza di primo grado.
I giudici catanesi confermarono la qualificazione della domanda data dal Tribunale, ritenendo che la stessa non mutasse in seguito alla richiesta di rilascio dell’area svolta dall’attrice ‘essendo l’effetto recuperativo una conseguenza dell’accertamento del confine’ (pag. 4).
Ritennero, inoltre, che nessun dubbio potesse sorgere in ordine alla proprietà del terreno in capo alla COGNOME, a fronte dei titoli prodotti dalla stessa, non contestati ex adverso , nonché della dettagliata ricostruzione dei luoghi effettuata nella CTU.
Rigettarono, altresì, il terzo motivo d’appello riguardante l ‘ istanza ex art. 938 c.c., poiché, trattandosi di una vera e propria domanda, e non di una mera difesa, era soggetta ai limiti ed alle preclusioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., non rispettate dai convenuti in primo grado, né la stessa avrebbe potuto essere proposta per la prima volta in appello, sussistendo il divieto di cui all’art. 345 c.p.c.
Ritennero, infine, che le spese fossero state correttamente liquidate dal Tribunale, trattandosi di causa di valore indeterminabile.
Contro la predetta sentenza ricorrono per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME sulla scorta di sette motivi.
Resiste NOME COGNOME con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DI DIRITTO
La Corte deve preliminarmente dare atto che la memoria ex art. 378 c.p.c. di parte ricorrente risulta depositata in data odierna. E’ dunque tardiva, non avendo rispettato il termine di giorni cinque, previsto dall’art. 378 c.p.c.
La Corte deve altresì dare atto, sempre in via preliminare, che la procura speciale rilasciata all’avv. NOME COGNOME con scrittura privata è inammissibile, essendo il giudizio iniziato in primo grado il 21 marzo 2005, allorquando la procura speciale richiedeva necessariamente un atto notarile.
Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza di secondo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 950 c.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5 c.p.c., avendo la Corte d’appello qualificato, erroneamente, la domanda proposta dalla COGNOME quale azione di regolamento dei confini e non come rivendicazione.
A conferma che si sarebbe trattato di tale ultima azione, militerebbero alcune circostanze, tra cui la richiesta dell’attrice di vedersi riconosciuta giudizialmente la proprietà della porzione di terreno, e non l’accertamento del confine, nonché la contestazione
svolta dai ricorrenti circa la validità ed idoneità del titolo di proprietà della RAGIONE_SOCIALE ed il conseguente conflitto tra titoli sollevato dai convenuti in primo grado.
Con il secondo mezzo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 101 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5 .
Nel qualificare la domanda quale azione di regolamento dei confini, i giudici di secondo grado avrebbero, inoltre, violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, avendo di fatto alterato sia il ‘petitum’ che la ‘causa petendi’.
Con la terza lagnanza i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza sempre per erronea qualificazione della domanda, ex artt. 99 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 nn. 3 e 4, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.
Nel qualificare la domanda quale azione di regolamento dei confini, i giudici di secondo grado avrebbero altresì sottratto l’attrice al rigoroso onere probatorio previsto dalla rivendicazione, onere che invero non sarebbe stato assolto dalla COGNOME.
La domanda, dunque, non avrebbe potuto essere accolta.
I tre motivi possono essere scrutinati congiuntamente, perché avvinti dai medesimi presupposti logico-giuridici, e sono infondati. La Corte d’appello ha in proposito affermato ‘ nelle premesse dell’atto di citazione, parte attrice, richiamando i propri titoli di provenienza, ma senza invocare un conflitto con i titoli dei convenuti, chiaramente afferma che le costruzioni di costoro hanno occupato una parte del proprio immobile, con il relativo, conseguente, sconfinamento. Peraltro, sulla questione, è decisiva la prospettazione di parte convenuta che, nella comparsa di costituzione, non contesta il titolo invocato dall’attrice, tanto è vero che, in via riconvenzionale, chiede l’usucapione di quei contestati ma nufatti -domanda dichiarata inammissibile perché tardivamente proposta ‘.
Con tale motivazione non si confrontano i motivi di ricorso, specie per ciò che concerne il titolo dell’originaria attrice.
Inoltre, la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del ” petitum “, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di ” error in judicando “, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di ” error facti “, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 3, n. 11103 del 10 giugno 2020; Sez. 5, n. 30770 del 6 novembre 2023).
I ricorrenti non contestano i fatti allegati nell’atto introduttivo, ma l’interpretazione che ne ha dato il giudice di merito. Orbene, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del
giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 1, n. 3340 del 5 febbraio 2019).
4. Con il quarto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza di secondo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 832, 948, 2697, 2704 c.c. ed artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5., avendo la Corte catanese ritenuto, erroneamente, provata la proprietà del terreno in capo alla resistente, sulla base di titoli contestati nonché di una CTU erronea e contraddittoria.
Medesime considerazioni varrebbero anche per quanto riguarda la prova delle costruzioni che sarebbero state eseguite dai ricorrenti sul terreno in contesa.
Il motivo è complessivamente infondato.
Per un verso, allorquando NOME COGNOME e NOME COGNOME assumono che controparte non avrebbe dimostrato la proprietà del mappale 574, omettono di dare gli opportuni riferimenti circa la tempestiva contestazione dell’assunto avversario.
Per altro verso, la sentenza impugnata ha affermato ‘ Il motivo è infondato perché si scontra -senza incrinarla – con la dettagliata ricostruzione dei luoghi effettuata dalla consulenza e, poi, dal Giudice nella sentenza impugnata, nella quale si richiama, ulteriormente, l’atto di provenienza del 1991 nel quale i fa riferimento, invece, alla part. 574 in questione -per cui nessun dubbio permane sulla proprietà dell’immobile in capo alla Perna sul quale i convenuti hanno realizzato le costruzioni incriminate ‘.
Orbene, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, se, in via generale, il giudice di merito che aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo di motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, solo ove, invece, le censure all’elaborato peritale si rivelino non solo
puntuali e specifiche, ma evidenzino anche la totale assenza di giustificazioni delle conclusioni dell’elaborato, la sentenza è tenuta a motivare la propria adesione alle predette conclusioni per non risultare affetta da nullità (Sez. 1, n. 15804 del 6 giugno 2024; Sez. 1, n. 32069 del 20 novembre 2023).
Nella specie, la Corte d’appello ha plausibilmente motivato circa l’adesione alle conclusioni del CTU.
D’altronde, la consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (Sez. 6-2, n. 9483 del 9 aprile 2021).
Con riguardo all’invocata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. occorre aggiungere quanto segue.
La differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dai ricorrenti non tiene conto del principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. U., n. 24148 del 25 ottobre 2013).
E’ allora opportuno ricordare in proposito che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il ‘convincimento’ che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2 c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore
attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Sez. U., n. 20867 del 30 settembre 2020).
Occorre aggiungere che il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (” demonstrandum “), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (” demonstratum “), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Sez. 1, n. 9507 del 6 aprile 2023).
Le condizioni che precedono non ricorrono nel caso di specie.
Per il resto, va ribadito che l’esame dei documenti esibiti e la valutazione degli stessi, come anche il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che,
sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 1, n. 19011 del 31 luglio 2017; Sez. 1, n. 16056 del 2 agosto 2016).
D’altronde, sempre per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre -come detto – è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. U., n. 20867 del 30 settembre 2020).
È, in conclusione, inammissibile la censura che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, n. 34476 del 27 dicembre 2019; Sez. 1, n. 5987 del 4 marzo 2021).
5. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5 c.p.c., dovendosi ravvedere nel caso di specie il vizio di ultra petizione della sentenza impugnata, laddove ha disposto ‘erroneamente l’arretramento a distanza legale dei manufatti edificati dai coniugi COGNOME–COGNOME, benchè la sig.ra COGNOME avesse domandato la sola eliminazione delle opere realizzate oltre il confine’ (pag. 21).
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
Da un lato, la doglianza pone, ancora una volta, questioni di merito. Dall’altro , la misura contestata era stata disposta dal Tribunale. La sentenza impugnata non ne ha trattato, né i ricorrenti hanno
dimostrato di averla impugnata in appello (come si desume dai motivi di gravame riportati a pag. 6 e ss. del ricorso).
Conseguentemente, qualora la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato si riferisca alla sentenza di primo grado, essa non può essere denunziata per la prima volta in cassazione, essendosi formato il giudicato sulla questione oggetto della decisione (Sez. 2, n. 20402 del 5 settembre 2013).
D’altronde, ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ” ex actis ” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (Sez. 2, n. 2038 del 24 gennaio 2019).
Con il sesto motivo si censura la sentenza gravata per violazione degli artt. 936 e 938 c.c. e degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e 5.
In particolare, i giudici di secondo grado, avrebbero errato nel ritenere inammissibile l’applicazione dell’art. 938 c.c., formulata, invero, ritualmente, così come avrebbero illegittimamente applicato l’art. 936 c.c., stante la buona fede dei ricorrenti ed il decorso di oltre sei mesi dal giorno dell’incorporazione.
Il motivo è complessivamente inammissibile.
Per un verso, la deduzione della cd. accessione invertita di cui all’art. 938 c.c. non dà luogo ad una mera difesa o eccezione, ma ad una vera e propria domanda (principale o riconvenzionale), volta a conseguire un provvedimento giudiziale ad un tempo costitutivo del diritto di proprietà a favore del costruttore ed estintivo del diritto del proprietario del suolo, oltre che impositivo del pagamento del doppio
del valore dell’area stessa, sicché tale richiesta è soggetta ai limiti ed alle preclusioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., ed è inammissibile ove proposta, per la prima volta, in appello, ex art. 345 c.p.c. (Sez. 2, n. 12415 del 17 maggio 2017; Sez. 2, n. 4286 del 22 febbraio 2011).
La decisione impugnata è dunque perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Suprema Corte.
Per altro verso , la violazione dell’art. 936 c.c. risulta eccepita per la prima volta nel presente giudizio. Del resto, anche l’eccezione di tardività della domanda di rimozione delle opere non costituisce mera difesa, ma eccezione da sollevare o riproporre, ad istanza di parte, e non suscettibile di rilievo d’ufficio.
7 . Con l’ultimo motivo si denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 poiché se la Corte d’appello avesse applicato i principi sopra richiamati ‘non avrebbe condannato gli appellanti alle spese e compensi dei due gradi di giudizio’.
Il motivo è inammissibile.
In generale, l’individuazione della parte soccombente, ai fini della condanna alle spese, deve essere operata in considerazione dell’esito finale della controversia sulla base di una valutazione globale ed unitaria, senza che possa rilevare l’esito di una peculiare fase del processo (Sez. 6-3, n. 13356 del 18 maggio 2021; Sez. 6-3, n. 6369 del 13 marzo 2021).
In particolare, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la
valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Sez. 6-3, n. 14459 del 26 maggio 20231; Sez. 1, n.19613 del 4 agosto 2017).
La sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi che precedono.
Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese processuali in favore della COGNOME, come liquidate in dispositivo.
La Corte da atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di cassazione
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di NOME COGNOME delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.500 (quattromila/500) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di NOME COGNOME e NOME COGNOME di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Seconda Sezione Civile il 26 giugno 2025.
IL PRESIDENTE NOME COGNOME
IL CONSIGLIERE ESTENSORE NOME COGNOME