Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19898 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19898 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 24239/2020 proposto da:
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-ricorrenti –
contro
INPS, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Roma n. 526/2020 pubblicata il 18 febbraio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno chiesto al Tribunale di Roma, con distinti ricorsi, di accertare l’illegittimità della pretes a di restituzione della somma erogata a titolo di indennità di buonuscita per la parte eccedente quanto loro dovuto
In particolare, hanno contestato l’errata individuazione del giorno di decorrenza del termine di decadenza annuale ex art. 30, commi 1 e 2, d.P.R. n. 1032 del 1973, in quanto avrebbe dovuto essere individuato non nella data di ricezione della comunicazione del datore di lavoro, ma in quella di emanazione dell’originario provvedimento di liquidazione del trattamento.
Si sono doluti, altresì, del fatto che le pretese dell’INPS erano state conteggiate al lordo e non al netto delle ritenute fiscali e retributive.
Il Tribunale di Roma, riuniti i ricorsi, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 10076/2017, li ha rigettati.
I ricorrenti hanno proposto appello. L’INPS ha presentato appello incidentale.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 526/2020, ha accolto l’appello incidentale integralmente e, in parte, quello principale, in ordine alla rideterminazione al netto delle somme dovute.
I ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
L’INPS si è difesa con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. in quanto la motivazione della sentenza appellata sarebbe stata apparente.
La censura è inammissibile, atteso che, dalla lettura della decisione gravata, si evince che la corte territoriale ha ritenuto di applicare, nella specie, l’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 1032 del 1973, sul presupposto che l’errore in esame fosse stato compiuto dall’Amministrazione di appartenenza, con la conseguenza che la richiesta di restituzione dell’INPS non poteva che essere avanzata dal giorno della comunicazione, ad opera della medesima Amministrazione, del provvedimento che comportava la variazione dell’indennità già erogata.
Si tratta di una ratio decidendi estremamente chiara ed enunciata in modo non ‘apparente’, che individua la disposizione da applicare sulla base dell’identità della P.A. alla quale sarebbe da imputare l’erronea quantificazione dell’indennità.
Con il secondo motivo i ricorrenti contestano la violazione e falsa applicazione degli artt. 26, comma 6, e 30 commi 1, 2 e 3 del d.P.R. n. 1032 del 1973, anche alla luce dell’art. 97 Cost.
Essi osservano che la corte territoriale non avrebbe correttamente interpretato l’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973, che avrebbe riguardato i soli provvedimenti di ricostruzione della carriera adottati dalla P.A. statale e non le questioni concernenti la mera computabilità di certe voci retributive nella buonuscita. In pratica, sarebbe stato l’art. 30, comma 3, del medesimo d.P.R. a regolare le situazioni nelle quali non vi erano provvedimenti datoriali atti ad incidere retroattivamente sulla retribuzione spettante ai dipendenti in costanza di rapporto.
Il giudice del merito non avrebbe tenuto conto che la P.A. statale non avrebbe potuto adottare provvedimenti decisori direttamente riguardanti l’indennità di buonuscita.
Questa interpretazione sarebbe stata confermata dall’esistenza di un rapporto di continenza fra il termine di un anno, previsto dall’art. 30 citato, e quello di 60 giorni, menzionato dal precedente art. 26.
La censura è infondata.
Come chiarito di recente da questa Suprema Corte (Cass., Sez. L, n. 15597 del 4 giugno 2024), in tema di liquidazione dell’indennità di buonuscita, il provvedimento adottato dall’amministrazione del fondo di previdenza può essere
revocato, modificato o rettificato dalla stessa nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione del successivo provvedimento, con il quale l’amministrazione di appartenenza ricalcoli il trattamento di fine servizio del dipendente per errato riferimento, nel precedente conteggio, alla retribuzione dirigenziale in luogo di quella relativa alla qualifica di funzionario di inquadramento formale, trovando applicazione il disposto dell’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973, come richiamato dal successivo art. 30, ultimo comma, del medesimo d.P.R.
Ciò che rileva, nella specie, è la motivazione dell’ordinanza sopra menzionata, alla quale si fa rinvio ex art. 118 disp. att. c.p.c. perché si ritiene sia pertinente, ai fini della decisione, stante l’analogia delle situazioni, anche alla presente vicenda, concernente l’ammontare dell’indennità ex art. 31, comma 1, d.P.R. n. 761 del 1979 e non l’ errato riferimento alla retribuzione dirigenziale in luogo di quella relativa alla qualifica di funzionario di inquadramento formale .
Preliminarmente, si osserva che tutti i ricorrenti, ex dipendenti dell’Università di Roma La Sapienza che avevano svolto la loro attività presso il Policlinico Umberto I, si sono visti ridurre dalla loro Amministrazione di appartenenza lo stipendio utile alla determinazione del trattamento di fine servizio (con riferimento, come si evince dal ricorso, all’ammontare dell’indennità ex art. 31, comma 1, d.P.R. n. 761 del 1979, da loro percepita in costanza di rapporto) e, quindi, richiedere dall’INPS il rimbo rso delle somme conseguite, a tale titolo, in eccedenza rispetto al dovuto.
La sentenza impugnata ha accertato che l’istanza dell’INPS era stata ‘formulata sulla scorta della rideterminazione dei dati retributivi da parte dell’amministrazione di provenienza comunicata nei 60 giorni precedenti al Fondo’.
Pertanto, le domande di restituzione dell’INPS sarebbero del tutto legittime, ove fosse ritenuto applicabile il termine di 60 giorni dalla ricezione delle debite comunicazioni della P.A. di appartenenza previsto dall’art. 26 del d.P.R. n. 1032 del 1973.
Quindi, occorre stabilire quale sia la normativa rilevante.
Questa è rappresentata dagli artt. 26 e 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973.
Per l’esattezza, l’art. 30 citato dispone che:
‘I provvedimenti adottati dall’amministrazione del Fondo di previdenza nelle materie previste dal presente testo unico possono essere revocati, modificati o rettificati d’ufficio quando:
vi sia stato errore di fatto o si sia omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti;
vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell’indennità di buonuscita o dell’assegno vitalizio;
siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento;
il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi.
Nei casi previsti dalle precedenti lettere a) e b) il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione; nei casi previsti dalle lettere c) e d) il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti.
Nel caso previsto dall’art. 26, comma sesto, il provvedimento è revocato, modificato o rettificato nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale’.
L’art. 26 prescrive, invece, che:
‘L’indennità di buonuscita, spettante al dipendente statale e ai superstiti, è liquidata di ufficio.
A tal fine l’amministrazione alla quale il dipendente appartiene o apparteneva trasmette all’amministrazione del Fondo di previdenza un progetto di liquidazione, a favore del dipendente stesso o dei suoi superstiti, corredato della copia autentica dello stato di servizio.
In caso di cessazione dal servizio per limite di età, gli atti di cui al comma precedente devono essere predisposti dall’amministrazione competente tre mesi prima ed essere inviati almeno un mese prima del raggiungimento del limite predetto all’amministraz ione del Fondo, la quale è tenuta ad emettere il mandato
di pagamento in modo da rendere possibile la effettiva corresponsione dell’indennità immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima. Non occorre, in ogni caso, alcuna comunicazione da parte d ell’amministrazione statale, alla quale compete soltanto la tempestiva segnalazione dell’eventuale esistenza di motivi ostativi.
Nei casi di cui al comma precedente, ai fini della liquidazione e della corresponsione dell’indennità di buonuscita, non occorre che sia preventivamente perfezionato il provvedimento di cessazione dal servizio.
Nei casi di cessazione dal servizio per qualsiasi altra causa, l’amministrazione statale competente è tenuta a trasmettere all’amministrazione del Fondo di previdenza gli atti di cui al secondo comma nel termine massimo di quindici giorni dalla data di ces sazione dal servizio, in modo che l’amministrazione del Fondo predetto possa eseguire, nei confronti del dipendente statale, la effettiva corresponsione dell’indennità nel più breve tempo possibile e comunque non oltre trenta giorni dalla data di ricezione della documentazione; questo ultimo termine vale anche per la corresponsione dell’indennità di buonuscita ai superstiti del dipendente.
Eventuali modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata, saranno comunicate alla amministrazione del Fondo di previdenza, ai fini del pagamento di supplementi de ll’indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, delle somme non dovute.
Non si fa luogo alla corresponsione di acconti.
Alla riliquidazione dell’indennità di buonuscita e alla liquidazione del supplemento di indennità, previste dall’art. 4, si provvede su domanda degli interessati’.
La Corte d’appello di Roma ha ritenuto che la presente vicenda fosse regolata dall’art. 26, comma 6, d.P.R. n. 1032 del 1973, per il quale ‘Eventuali modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’i ndennità di buonuscita già erogata, saranno comunicate alla
amministrazione del Fondo di previdenza, ai fini del pagamento di supplementi dell’indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, delle somme non dovute’.
Il citato art. 26, comma 6, sarebbe stato applicabile in ragione del rinvio allo stesso fatto dall’art. 30, u.c., del d.P.R. n. 1032 del 1973, il quale stabilisce che ‘Nel caso previsto dall’art. 26, comma sesto, il provvedimento è revocato, modificato o rettificato nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale’.
Al contrario, i ricorrenti sostengono che verrebbe in rilievo l’art. 30, comma 2, prima parte, del d.P.R. n. 1032 del 1973, il quale dispone che ‘Nei casi previsti dalle precedenti lettere a) e b) il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione’.
In pratica, ad avviso dei lavoratori, essendosi verificato un caso di errore nella determinazione del TFS da parte dell’amministrazione del Fondo di previdenza, la richiesta di restituzione della somma pagata in eccesso avrebbe dovuto essere avanzata entro un anno dalla data di emanazione del relativo provvedimento. Chiaramente, secondo quest’interpretazione, le richieste di rimborso sarebbero state tardive, in quanto i pagamenti contestati erano avvenuti fra il 2011 e il 2012 e le domande di rimborso erano state inviate, a seconda dei casi, nel 2016 o 2017.
Alla luce di quanto esposto, si ritiene di confermare la decisione di appello.
In primo luogo, depone in tal senso un’interpretazione letterale della normativa, che tenga conto della presenza, nell’art. 30 citato, di un rinvio espresso all’art. 26, comma 6.
Inoltre, l’interpretazione sistematica conduce ad affermare che la ratio del sistema è di porre un termine fisso di un anno, decorrente dall’emanazione del provvedimento da correggere, qualora gli errori di calcolo o di fatto che lo inficiano siano da imputare all’ente che eroga il TFS.
In questo caso, detto ente ha da subito tutti gli elementi per avvedersi del suo errore.
Diversamente, se gli errori de quibus sono dovuti ad inesattezze riferibili ad altre P.A., il termine per la revoca non può che essere computato da quando siffatte inesattezze sono rese note all’amministrazione del Fondo di previdenza.
In questa seconda eventualità, il tempo per intervenire è più breve, proprio per evitare una eccessiva dilatazione dello spazio entro il quale il beneficiario può essere destinatario di provvedimenti di recupero.
D’altronde, non può non darsi rilievo alla posizione della P.A. che paga la somma da restituire e che, quindi, deve essere messa in condizione di determinarla con piena cognizione di causa.
Pertanto, se l’errore è suo, è giusto che il termine per il recupero decorra immediatamente. Invece, se detto errore è di altra P.A., è logico che si guardi al momento nel quale l’amministrazione del Fondo di previdenza riceve le informazioni complete.
Questa conclusione trova conferma nel disposto del l’art. 30, comma 2, parte seconda, il quale prescrive, sempre con riguardo alla rettifica in questione, che ‘nei casi previsti dalle lettere c) e d) il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti’.
Le lettere c) e d) concernono evenienze nelle quali ‘c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento’ o ‘d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi’ e il detto termine è di sessanta giorni, similmente a quanto previsto dall’art. 26, comma 6, atteso che la rettifica avviene perché sono stati acquisiti dei nuovi elementi dall’amministrazione del Fondo di previdenza .
A supporto di questo esito interpretativo depone anche un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni citate, ai sensi degli artt. 3 e 97 Cost., che miri a garantire, in maniera ragionevole, da un lato, il buon andamento della P.A. e l’efficacia della sua azione, e, dall’altro, l’affidamento di coloro che entrino in contatto con la stessa.
Neppure potrebbe affermarsi che il comma 6 dell’art. 26 andrebbe letto in correlazione con i precedenti commi 4 e 5, nei quali si richiama il provvedimento di cessazione del servizio.
In realtà, assume qui rilievo la circostanza che l’art. 30 del d.P.R. n. 1072 del 1973 richiama espressamente l’art. 26, comma 6, e non i precedenti commi 4 e 5.
Sostengono i ricorrenti che l’art. 26, comma 6, si riferirebbe a ‘provvedimenti’ della P.A. e che la comunicazione della variazione in esame non avrebbe potuto rientrare fra i ‘provvedimenti’. Peraltro, non si comprende per quale ragione tale comunicazione non possa essere qualificata come ‘provvedimento’, ai fini della normativa in questione, mentre lo potrebbe essere l’atto con il quale l’amministrazione del Fondo di previdenza determina il TFS e ne dispone il pagamento.
Neanche vi sono elementi, ricavabili dall’art. 26, che possano indurre ad adottare una nozione di ‘provvedimento’ ristretta solo ad alcune categorie di atti, come quelli che incidono direttamente sul rapporto di lavoro.
Infatti, l’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 si riferisce espressamente ai provvedimenti che ‘comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata’.
In realtà, l’art. 26, nella sua interezza, e il comma 6, in particolare, richiamano atti relativi al la liquidazione dell’indennità di buonuscita, senza distinguerne la tipologia, ma unificandoli in base all’effetto.
Priva di pregio è, poi, la considerazione che il termine di sessanta giorni di cui all’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 avrebbe dovuto essere inteso come ulteriore termine da iscrivere all’interno di quello decadenziale di un anno previsto per la correzione di eventuali errori nel calcolo dell’indennità in esame.
Tale assunto non è condivisibile.
Il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 26, comma 6, risponde alla medesima ratio del termine di sessanta giorni stabilito dall’art. 30, comma 2, parte seconda, dello stesso d.P.R. il quale si riferisce alle ipotesi che si verificano ‘nei casi previsti dalle lettere c) e d)’ del precedente comma 1.
Le lettere c) e d) concernono, come sopra evidenziato, evenienze nelle quali ‘c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento’ o ‘d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi’.
In queste situazioni, il detto termine è di sessanta giorni, similmente, come detto, a quanto previsto dall’art. 26, comma 6, atteso che la rettifica avviene perché sono stati acquisiti dei nuovi elementi.
Diversamente da quanto rilevano i ricorrenti, sarebbe contrario ai precetti di buona amministrazione, al principio di ragionevolezza e alla buona fede imporre alla P.A., per il recupero di somme indebitamente versate, un termine di decadenza breve di un anno come quello di cui all’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 1032 del 1973, decorrente dall’emanazione del provvedimento, ove l’erroneità del calcolo non sia dipesa da alcuna colpa della stessa P.A., ma da informazioni errate comunicate da altro ente.
D’altronde, non è dato comprendere per quale ragione sia assegnato alla P.A. un nuovo termine di sessanta giorni per recuperare le somme pagate in eccesso, nell’eventualità di rinvenimento di documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento o di provvedimento adottato in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi, decorrente da tale rinvenimento o dalla notizia della falsità, e allo stesso risultato non possa giungersi quando l’esigenza di recuperare sorga da un provvedimento di una diversa amministrazione che sopravvenga a quello che ha disposto il versamento dell’ammontare in contestazione.
Si tratta, infatti, di situazioni sostanzialmente analoghe, nelle quali l’amministrazione del Fondo previdenziale non è in alcun modo responsabile dell’inesatta liquidazione.
Neppure potrebbe sostenersi che si rischierebbe una dilatazione sine die del termine entro il quale la P.A. potrebbe agire, atteso che, allora, la medesima esigenza dovrebbe porsi pure ‘nei casi previsti dalle lettere c) e d)’ del comma 1 dell’art. 30 del d.P.R. n. 1072 del 1973.
Non condivisibile è, quindi, la menzionata considerazione dei ricorrenti, mutuata da parte della giurisprudenza amministrativa, che il termine di sessanta giorni di cui all’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 avrebbe dovuto essere inteso come ulteriore termine da iscrivere all’interno di quello decadenziale di un anno previsto per la correzione di eventuali errori nel calcolo dell’indennità in esame.
Non è chiaro, d’altronde, come possa inserirsi all’interno del termine annuale di decadenza ex art. 30, comma 1, d.P.R. n. 1032 del 1973, decorrente dall’emanazione del provvedimento che qui interessa, un ulteriore e più breve termine di decadenza specificamente indicato per una situazione particolare e il cui dies a quo è un evento successivo alla detta emanazione.
La soluzione più ragionevole e più rispondente alla lettera e allo scopo della legge è che il nostro legislatore, nella sua discrezionalità, abbia ritenuto di correggere l’estremo rigore del termine annuale di decadenza di cui all’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 1032 del 1973 – che risponde, nella sua brevità e nella sua immediata decorrenza, alla volontà di garantire l’affidamento dei destinatari dei provvedimenti – in alcune particolari situazioni, espressamente indicate, nelle quali circostanze oggettive e indipendenti dalla volontà della P.A. erogatrice del trattamento consigliano di permettere un recupero successivo degli importi entro, però, un lasso di tempo ancora più breve del precedente (appunto, sessanta giorni).
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione dell’art. 437, comma 2, c.p.c., in quanto la corte territoriale avrebbe errato a considerare ammissibile l’appello incidentale dell’INPS, atteso che quest’ultimo ente non avrebbe chiesto in primo grado l’applicazione del menzionato art. 26, comma 6.
La censura è inammissibile.
In primo luogo, si evidenzia che la Corte d’appello di Roma ha espressamente accertato che la questione era stata posta già davanti al Tribunale di Roma e questo passaggio della sentenza di appello non è stato adeguatamente contestato dai ricorrenti, riportando il contenuto, almeno nella parte rilevante, delle difese dell’INPS in primo grado.
Inoltre, si sottolinea che il giudice può sempre, sulla base dei fatti di causa allegati dalle parti, riqualificare la vicenda giuridica, individuando la normativa correttamente applicabile.
4) Con il quarto motivo i ricorrenti contestano la violazione e falsa applicazione degli artt. 26, comma 6, d.P.R. n. 1032 del 1973 e 3 Cost. perché la corte territoriale avrebbe errato ad affermare l’irrilevanza della natura dell’errore in esame, se di diritto o di fatto.
Ad avviso dei ricorrenti, la Corte d’appello di Roma avrebbe dovuto tenere conto del fatto che gli indebiti in esame sarebbero stati generati da un errore di diritto compiuto dalla P.A. e che, quindi, similmente a quanto stabilito dalla giurisprudenza cont abile con riferimento all’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 208 del 2014, in presenza di un errore di questo genere non sarebbe stato possibile agire per la ripetizione del dovuto.
La censura è priva di rilievo.
Al riguardo, si osserva che l’esatto ammontare della retribuzione è il presupposto di fatto necessario perché l’ente previdenziale possa calcolare il trattamento pensionistico spettante; pertanto, la sua errata comunicazione costituisce errore di fatto, non di diritto, che legittima la modifica del provvedimento di liquidazione definitivo ex art. 204, lett. a), del d.P.R. n. 1092 del 1973.
Inoltre, si evidenzia che l’errore qui contestato è stato commesso dall’ente datore di lavoro, mentre l’errore di diritto che potrebbe rilevare ex art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 (individuato come tertium comparationis ) è solo quello del soggetto che eroga il trattamento pensionistico e, quindi, dell’ente previdenziale, ossia l’INPS, come si può ricavare dalla motivazione di Cass., Sez. L, n. 6181 dell’8 marzo 2025 (massimata, in realtà, su altro profilo qui non rilevante).
5) Il ricorso è rigettato, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
‘In tema di liquidazione dell’indennità di buonuscita, il provvedimento adottato dall’amministrazione del fondo di previdenza può essere revocato, modificato o rettificato dalla stessa nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione del successivo provvedimento con il quale l’amministrazione di appartenenza ricalcoli il trattamento di fine servizio del dipendente per errato
riferimento, nel precedente conteggio, all’ammontare dell’indennità ex art. 31, comma 1, d.P.R. n. 761 del 1979, trovando applicazione il disposto dell’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973, come richiamato dal successivo art. 30, ultimo comma, del medesimo d.P.R.’;
‘In tema di liquidazione dell’indennità di buonuscita, l’esatto ammontare della retribuzione è il presupposto di fatto necessario perché l’ente previdenziale possa effettuare il calcolo del trattamento spettante; pertanto, la sua errata comunicazione costituisce errore di fatto, non di diritto, imputabile, peraltro, non al detto ente previdenziale, ma al datore di lavoro, con la conseguenza che, nel caso previsto dall’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973, trova applicazione il termine di cui al successivo art. 30, ultimo comma, del medesimo d.P.R.’.
Le spese di lite sono compensate, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., in ragione della novità della controversia al momento della proposizione del ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso;
compensa le spese;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile della