Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 141 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 141 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/01/2025
Oggetto: ritenute limite del quinto
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7548/2019 R.G. proposto da NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, in proprio e quale erede di NOME COGNOME e procuratore di NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME COGNOME e domiciliati elettivamente in Roma, INDIRIZZO; -ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliato per legge in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente –
nonché
INPS, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME
COGNOME e NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2399/2018 pubblicata l’11 settembre 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gli attuali ricorrenti sono ex dipendenti del MIBACT, inquadrati nell’Area III, fascia economica 6, già IX qualifica funzionale, tutti collocati a riposo, che, con ricorso al Tribunale di Roma, hanno rivendicato l’equiparazione del loro trattamento retributivo a quello attribuito ai dipendenti della medesima area provenienti dal soppresso ruolo ad esaurimento.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 9375 del 2009, in riforma della decisione di primo grado, ha accolto la domanda, con condanna della P.A. a pagare le differenze retributive dovute.
Il MIBACT, versate le somme, ha proposto ricorso per cassazione, accolto con sentenza n. 5961 del 2012.
La Corte di cassazione ha deciso la causa nel merito, con rigetto dell’originaria domanda dei lavoratori, senza alcuna statuizione su gli importi da loro percepiti in esecuzione della sentenza cassata.
Il MIBACT ha chiesto, quindi, la restituzione di tali importi, ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 1544 del 1955, e ha cominciato, assieme all’INPS, quanto ai dipendenti in quiescenza, a effettuare direttamente trattenute sugli importi dovuti a coloro che non avevano aderito a questa richiesta.
Con due ricorsi al Tribunale di Roma, poi riuniti, i ricorrenti hanno chiesto al Tribunale di Roma di accertare l’illegittimità delle trattenute effettuate dal MIBACT e dall’INPS per il recupero unilaterale delle somme
menzionate in carenza di titolo esecutivo, con condanna delle Amministrazioni alla restituzione, e, in via subordinata, hanno domandato di accertare l’illegittimità delle trattenute nella parte eccedente il quinto dello stipendio e della pensione pignorabile, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali, nonché il risarcimento del danno non patrimoniale.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 3423 del 2016, ha rigettato i ricorsi.
I ricorrenti hanno proposto appello che la Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 2399 del 2018, ha respinto.
I ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Le amministrazioni intimate si sono difese con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 336, comma 2, 389 e 474 c.p.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel riconoscere il diritto delle Amministrazioni di procedere al recupero delle somme erogate in esecuzione della sentenza di appello poi cassata dalla S.C., operando trattenute sul loro stipendio senza previamente munirsi di titolo esecutivo che contenesse l’esatta quantificazione del credito.
Essi evidenziano che la sentenza cassata non avrebbe alcuna indicazione degli importi dovuti, che il potere di recupero senza munirsi di un titolo esecutivo non sarebbe previsto dall’art. 336, comma 2, c.p.c.
e che la decisione della Corte di cassazione n. 5961 del 2012 non contemplerebbe statuizioni di condanna.
Inoltre, rappresentano che l’art. 389 c.p.c. im porrebbe l’intervento di un giudice per ripristinare la situazione precedentemente esistente a seguito di pronuncia della Corte di cassazione.
Infine, richiamano il precedente rappresentato da Cass. n. 16548 del 2003, che avrebbe stabilito come il creditore di un pensionato potesse recuperare quanto dovutogli tramite l’ente erogatore solo munendosi di titolo idoneo.
La doglianza è infondata.
I ricorrenti, infatti, non tengono conto che la Pubblica amministrazione datrice di lavoro ben poteva procedere alla compensazione c.d. impropria fra i crediti in esame (la cui esistenza non è messa in dubbio neppure dai ricorrenti medesimi e che erano sorti in seguito alla decisione della Corte di cassazione già menzionata) e gli importi dei quali era debitrice, di mese in mese, in dipendenza del rapporto di lavoro (con le parti ancora in servizio).
La giurisprudenza ha già chiarito che l’istituto della compensazione e la relativa normativa codicistica – ivi compreso l’art. 1246 c.c. sui limiti della compensabilità dei crediti – presuppongono l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti e non operano quando essi nascano dal medesimo rapporto, il quale può comportare soltanto una compensazione in senso improprio, ossia un semplice accertamento contabile di dare e avere, come avviene quando debbano determinarsi le spettanze del lavoratore autonomo o subordinato.
Non a caso, la SRAGIONE_SOCIALE., in applicazione del principio anzidetto, ha ammesso la compensazione tra le somme dovute dai lavoratori per la restituzione del trattamento di fine rapporto e quelle dovute dal datore di lavoro per mensilità retributive arretrate (Cass., Sez. L, n. 21646 del 26 ottobre 2016; Cass., Sez. L, n. 5024 del 2 marzo 2009).
A conclusioni non dissimili deve giungersi quanto all’INPS, con riguardo ai lavoratori ormai in quiescenza, con la differenza che, in questo caso, la compensazione effettuata era propria, concernendo crediti distinti e autonomi, ossia quello restitutorio della P.A. datrice di lavoro e quello concernente la pensione.
Nulla avrebbe, poi, chiaramente impedito alle Amministrazioni di munirsi di un apposito titolo giudiziario, esercitando un’azione diretta con cui fare valere la sopravvenuta carenza di causa del pagamento conseguente alla cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma n. 9375 del 2009 .
Infatti, come non contestato dalle controparti, l’obbligazione restitutoria dei ricorrenti era sorta sin dal momento della pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione n. 5961 del 2012.
Per l’esattezza, la giurisprudenza ha chiarito che, in seguito alla cassazione di una sentenza di secondo grado o alla riforma in appello di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, spetta, a chi le abbia corrisposte, l’azione di ripetizione delle somme pagate in esecuzione di tali sentenze, la quale non si inquadra nell’istituto della condictio indebiti ex art. 2033 c.c., sia perché si ricollega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza sia perché il comportamento dell’ accipiens non si presta a valutazione di buona o mala fede ai sensi della norma citata, non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti (Cass., Sez. L, n. 14178 del 18 giugno 2009). In particolare, ha precisato che l’art. 2033 c.c. riguarda un pagamento eseguito nell’ambito di un rapporto privatistico, pur se erroneamente ritenuto, e non nell’ottemperanza di un atto pubblico autoritativo, in quest’ultimo caso rilevando non lo stato soggettivo di buona o mala fede dell’ accipiens , ma l’assenza originaria di causa del pagamento, ossia del corrispondente arricchimento della controparte, con l’ulteriore
conseguenza della necessità di porre il solvens nella stessa situazione patrimoniale in cui versava prima di pagare (Cass., Sez. 1, n. 23764 del 3 agosto 2023).
La circostanza che i debitori fossero loro dipendenti (o titolari di trattamento pensionistico, quanto all’INPS), però, ha consentito al MIBACT di evitare un nuovo ricorso alla via giudiziaria per ottenere ciò che, con certezza, era oggetto del credito restitutorio de quo .
L’utilizzo del meccanismo compensatorio (diretto e indiretto) non è in contrasto, comunque, con l’esistenza di un obbligo restitutorio dei ricorrenti (come detto, appunto, per assenza di causa del versamento) che, anzi, ne è il presupposto, poiché è la presenza di un pagamento privo di giustificazione, derivante dalla decisione della S.C. n. 5961 del 2012, che rappresenta il titolo che rende operativa la compensazione, sia propria sia impropria.
Neppure potrebbe ritenersi non liquido l’importo indebitamente percepito dai ricorrenti, pari, appunto, a ciò che è stato, senza contestazioni, ricevuto dai medesimi che, sul punto, hanno sollevato eccezioni del tutto generiche.
Con il secondo motivo i ricorrenti contestano la violazione degli artt. 3, d.P.R. n. 1544 del 1955 e 3, r.D.L. n. 295 del 1939 in quanto la corte territoriale non avrebbe considerato che, in seguito alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego, la P.A. avrebbe potuto operare nei confronti dei suoi dipendenti solo con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro e, quindi, non avrebbe potuto avvalersi di poteri di autotutela.
In particolare, la sentenza della Corte di cassazione n. 23060 del 2013 avrebbe limitato il potere di intervento della P.A. in autotutela solo per correggere gli errori di legittimità in cui essa fosse incorsa, il che, nella specie, non si sarebbe verificato.
Inoltre, l’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 avrebbe implicitamente abrogato le leggi speciali sul pubblico impiego in vigore al tempo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 165 del 2001.
La disposizione dell’art. 3 del r.D.L. n. 295 del 1939 non sarebbe stata, allora, applicabile, come chiarito da Cass., n. 15120 del 2004.
In ogni caso, non sarebbe stato possibile il ricorso all’art. 3 del d.P.R. n. 1544 del 1955, trattandosi di disposizione che si riferiva a riscossioni indebite da parte dei dipendenti statali ‘al momento della loro riscossione’, circostanza che, nella spec ie, non si era verificata.
La doglianza è infondata in ordine ai dipendenti ancora in servizio del MIBACT e va accolta con riguardo ai lavoratori in quiescenza.
Innanzitutto, si osserva che, come si evince dall’esito del primo motivo di ricorso, nella specie non è venuto in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo, come sembrano ritenere, errando sul punto, i ricorrenti, ma si sono avute una c.d. compensazione impropria quanto ai crediti retributivi dei lavoratori e una compensazione propria per ciò che concerne quelli previdenziali dei soggetti in pensione.
Nella specie, il MIBACT ha fatto valere il suo credito, limitando il prelievo ai sensi dell’art. 3 del r.D.L. n. 295 del 1939, il quale prescrive che ‘Ove risulti effettuato il pagamento di somma prescritta o, in genere, risultino pagate una o più rate non dovute di stipendi ed assegni equivalenti, di pensione ed indennità che ne tengano luogo, o di una qualsiasi degli assegni indicati dal D.L. Lgt. 2 agosto 1917, n, 1278, l’Amministrazione, se non abbia altro mezzo immediato per conseguire il rimborso, può trattenere il pagamento delle rate successive, ed in genere di qualunque altro credito che venga a maturarsi anche oltre il limite del quinto e fino al massimo di un terzo previa comunicazione scritta del relativo provvedimento amministrativo’.
Si tratta di previsione richiamata dall’art. 3 del d.P.R. n. 1544 del 1955, il quale assegna agli Uffici provinciali del Tesoro il ‘
La giurisprudenza (Cass., Sez. L, n. 15120 del 5 agosto 2004) ha chiarito, in effetti, che l’art. 3 del r.D.L. n. 295 del 1939 è disposizione inserita in un contesto normativo afferente al rapporto di pubblico impiego, come risulta dall’art. 1, che precisa la materia del RDL nei seguenti termini: ‘Per il ricupero dei crediti derivanti da responsabilità dei funzionari, impiegati ed agenti dello Stato civili e militari compresi quelli dell’ordine giudiziario e quelli retribuiti da amministrazioni, aziende e gestioni statali ad ordinamento autonomo (…)’.
La normativa indicata è, quindi, inapplicabile al rapporto di lavoro c.d. contrattualizzato con le Pubbliche amministrazioni in quanto il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti pubblici ha natura privatistica a seguito della c.d. privatizzazione disposta con il d.lgs. n. 29 del 1993 e ss.
La citata giurisprudenza si è espressa in questi termini, per l’esattezza, con riferimento alla questione dell’esistenza di un divieto di rinuncia alla prescrizione per gli enti pubblici coinvolti nella vicenda, concludendo per l’applicazione delle norme del Codice civile sulla prescrizione per le quali il fatto estintivo del diritto va eccepito dal debitore.
Sempre in questa direzione si sono mosse le Sezioni Unite con sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017, le quali hanno chiarito che il d.P.R. n. 180 del 1950, contenente l’approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni, modificato dalla legge n. 311 del 2004 e dalla legge n. 80 del 2005, di
conversione del d.l. n. 35 del 2005, all’art. 2 così recita: ‘Gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti, nonché le pensioni, le indennità che tengono luogo di pensione e gli altri assegni di quiescenza corrisposti dallo stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’articolo 1, sono soggetti a sequestro ed a pignoramento nei seguenti limiti: 1)….; 2) fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per debiti verso lo stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto d’impiego o di lavoro’.
Il terzo comma dell’art. 52, dello stesso decreto, introdotto dalla citata legge di modifica n. 80 del 2005, prevede, poi, che i compensi corrisposti a soggetti titolari dei rapporti di lavoro ex art. 409, n. 3, c.p.c., sono sequestrabili e pignorabili nei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il quale statuisce che: ‘Le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario.., possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato… ed in eguale misura per ogni altro credito’.
Secondo le Sezioni Unite del 2017, le modifiche apportate dalle leggi n. 311 del 2004, e n. 80 del 2005 al d.P.R. n. 180 del 1950 hanno comportato, quindi, la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate solo per il lavoro pubblico.
I precedenti menzionati, però, non sono idonei a sostenere la tesi dei ricorrenti sia per il periodo in servizio sia per quello da pensionati.
Infatti, la non compatibilità dell’art. 3 del r.D.L. n. 295 del 1939 con il pubblico impiego c.d. contrattualizzato non può comportare l’applicabilità, nella specie, degli artt. 2 del d.P.R. n. 80 del 1950 e 545 c.p.c. quanto ai crediti recuperati sulla retribuzione.
Queste ultime sono disposizioni che concernono il pignoramento dei crediti dei dipendenti pubblici (nonché il loro sequestro e cessione, per ciò che concerne la normativa del 1950), ma i ricorrenti in servizio, che ne hanno reclamato l’idoneità a disciplinare la presente controversia, non hanno considerato che, nel caso in esame, il recupero del credito della
P.A. è avvenuto per mezzo di una compensazione c.d. impropria sulla retribuzione corrisposta.
La giurisprudenza ha chiarito che il divieto previsto dall’art. 1246, n. 3, c.c., in relazione ai crediti impignorabili, opera solamente con riguardo alla compensazione propria, che ricorre quando le reciproche ragioni di debito-credito nascono da distinti rapporti giuridici, e non anche per quella impropria, ove le suddette ragioni provengono da un unico rapporto, quale è indubbiamente il rapporto di lavoro (Cass., Sez. L, n. 21646 del 26 ottobre 2016).
L’istituto della compensazione e la relativa normativa codicistica – ivi compreso l’art. 1246 c.c. sui limiti della compensabilità dei crediti presuppongono l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti e non operano quando essi nascano dal medesimo rapporto, il quale può comportare soltanto una compensazione in senso improprio, ossia un semplice accertamento contabile di dare e avere, come avviene quando debbano accertarsi le spettanze del lavoratore autonomo o subordinato (Cass., Sez. L, n. 5024 del 2 marzo 2009).
Ne deriva che i limiti al recupero delle somme spettanti al MIBACT invocati dai ricorrenti in servizio non sussistono, non trovando applicazione, nella specie, gli artt. 2 del d.P.R. n. 180 del 1950 e 545 c.p.c.
Detti limiti, però, vanno rispettati per ciò che riguarda i lavoratori in quiescenza.
Infatti, la compensazione che li concerne è, come sopra esposto, propria, al che consegue che va applicato l’art. 1246, n. 3, c.c., che esclude la compensazione con i crediti dichiarati impignorabili.
Questa disposizione consente, quindi, di dare spazio agli artt. 2 del d.P.R. n. 180 del 1950 e 545 c.p.c. e impone, alla fine, di contenere la compensazione entro quanto stabilito dalla normativa da ultima menzionata (Cass., Sez. L, n. 3648 del 7 febbraio 2019).
Quanto affermato è coerente con il principio, pure enunciato dalla S.C., per il quale , in tema di indebito, l’INPS, salvo il diritto di avvalersi dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c., può recuperare gli indebiti previdenziali anche in via di compensazione, mediante trattenute che non superino, in applicazione dell’art. 69, comma 1, legge n. 153 del 1969, la misura di un quinto del trattamento in godimento e fatto comunque salvo il trattamento di pensione minimo, non applicandosi i diversi limiti di pignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c. – come novellato dall’art. 13, comma 1, lett. l), del d.l. n. 83 del 2015, conv., con modif., dalla legge n. 132 del 2015 ed ulteriormente modificato ex art. 21 bis del d.l. n. 115 del 2022, conv. dalla legge n. 142 del 2022 – che rilevano nelle sole ipotesi in cui la pensione venga aggredita da soggetti diversi dall’Istituto previdenziale, o quando l’ INPS agisce per crediti diversi dall’indebita percezione di prestazioni a suo carico o da omissioni contributive (Cas s., Sez. L, n. 26580 dell’11 ottobre 2024).
3) Con il terzo motivo i ricorrenti contestano la violazione degli artt. 545 c.p.c., 2 d.P.R. n. 180 del 1950 e 13 del d.l. n. 83, conv. dalla legge n. 132 del 2015, in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel non applicare queste disposizioni, che consentivano il recupero sulle somme oggetto dello stipendio e del trattamento pensionistico nel quinto della retribuzione al netto delle ritenute mentre, nel caso in questione, le Pubbliche amministrazioni avrebbero agito considerando gli importi de quibus al lordo.
La doglianza merita accoglimento.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso. Ne consegue che, in tale evenienza, il datore di lavoro, salvi i rapporti col
fisco, può ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass., Sez. L, n. 1464 del 2 febbraio 2012). Pertanto, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto ex tunc dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade nel raggio di applicazione dell’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell’obbligo (Cass., Sez. L, n. 19735 del 25 luglio 2018; con riferimento all’INPS, Cass., Sez. L, n. 2691 del 29 gennaio 2024).
Il ricorso è accolto quanto al secondo motivo, limitatamente ai soli dipendenti che hanno subito il prelievo contestato sulla pensione percepita, e al terzo motivo, rigettati il primo e il secondo per la restante parte.
La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale deciderà la causa in applicazione dei seguenti principi di diritto:
‘In tema di pubblico impiego privatizzato, la P.A. datrice di lavoro , che operi ritenute sulla retribuzione del proprio dipendente al fine di recuperare le somme allo stesso corrisposte in esecuzione di sentenza di appello di condanna al relativo pagamento poi cassata sul punto dalla Corte di cassazione, può operare una compensazione c.d. impropria,
senza essere tenuta ad applicare le disposizioni di cui agli artt. 2 del d.P.R. n. 80 del 1950 e 545 c.p.c. Al contrario, tali disposizioni disciplinano la materia, ove tale prelievo sia eseguito dall’INPS, dietro incarico della menzionata P.A., sull’importo corrisposto a titolo di pensione ai medesimi dipendenti una volta in quiescenza, venendo in rilievo una compensazione c.d. propria’;
‘In ipotesi di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il primo ha diritto di ripetere quanto il secondo abbia effettivamente percepito e non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente’.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il secondo motivo di ricorso, limitatamente ai soli dipendenti che hanno subito il prelievo contestato sulla pensione percepita, e il terzo, rigettati il primo e il secondo motivo per la restante parte;
cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma,