Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 4978 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 4978 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME , rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliato presso il loro studio, in Lucca, INDIRIZZO,
-ricorrente-
Contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso da ll’ AVV_NOTAIO elettivamente domiciliata presso il suo studio, in EmpoliINDIRIZZO -controricorrente – avverso la sentenza n. 1263/2021, della Corte di Appello di Firenze, pubblicata il 21.6.2021, non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20.2.2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Oggetto: società recesso liquidazione quota
FATTI DI CAUSA
1. -La società RAGIONE_SOCIALE veniva costituita il 5 gennaio 1980 da COGNOME NOME e COGNOME NOME allo scopo di esercitare in comune la produzione e la vendita di mobili. La durata era fissata al 2030, ma «tacitamente rinnovata di quinquennio in quinquennio». Il 4 dicembre 1981 RAGIONE_SOCIALE entrava in società con una quota del 16.67% rimanendovi per circa 30 anni, finché il 21 aprile 2011 manifestava la volontà di recedere e chiedeva quindi la liquidazione della quota, sul presupposto che la scadenza dell’ente fosse da ritenere indeterminata, in quanto fissata oltre la presumibile vita dei soci.
Non ottenendo positivo riscontro, con atto di citazione notificato il 22 novembre 2012 il COGNOME conveniva in giudizio la partecipata, chiedendone di accertare la legittimità del proprio recesso e di conseguenza la condanna della società al pagamento del controvalore della quota, quantificato in € 100.579,52.
La convenuta si costituiva in giudizio per resistere alla domanda, sostenendo che la scadenza del patto sociale era ben determinata ed allegando comunque il verificarsi di una causa di scioglimento, rappresentata dall’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, sicché non poteva essere accolta la richiesta di liquidazione della singola quota.
-All’esito dell’istruttoria, espletata una CTU, con sentenza pubblicata il 12 giugno 2018, il Tribunale di Firenze, riteneva legittimo il recesso del COGNOME, in quanto la società non era formalmente in liquidazione, né la sua durata poteva ritenersi determinata. Accoglieva, infine, la domanda e condannava la società a pagare al COGNOME la somma di € 52.796,53 corrispondente al valore stimato della quota.
3. -La società proponeva gravame dinanzi alla Corte di Appello di Firenze che, con la sentenza qui impugnata, accoglieva l’appello .
-Per quanto qui di interesse la Corte di merito statuiva che:
L’art. 2285 c.c., applicabile alle società in nome collettivo in virtù del richiamo operato dall’art. 2293 c.c., dispone al primo comma che «Ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci».
Nel caso di specie, però, la durata prevista della società non esorbitava da una concreta, seppur ottimistica, speranza di vita dei soci. Nel 1980, al momento della costituzione della società, COGNOME aveva 38 anni, COGNOME ne aveva 35 e COGNOME (peraltro divenuto socio nel 1981) aveva 32 anni;
la previsione contrattuale non esprime una scadenza tanto lontana da risultare praticamente irraggiungibile dai soci, dunque non v’è ragione di considerare per via ermeneutica indeterminata la scadenza espressamente determinata al momento della stipulazione del patto sociale. In altre parole, l’atto costitutivo della società non indica una scadenza solo teorica ma praticamente indeterminata, indica una scadenza raggiungibile che non può essere obliterata per via interpretativa.
–RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha presentato ricorso per cassazione con un motivo ed anche memoria.
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha presentato controricorso ed anche memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente deduce:
-Con il primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2285 c.c. ai sensi ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. la Corte ha interpretato l’art. 2285 c.c. nel senso che la società deve intendersi costituita a tempo indeterminato solo quando l’orizzonte temporale
della cessazione del rapporto sociale sia fissato assolutamente oltre qualsiasi speranza di vita dei soci, praticamente irraggiungibile per qualunque essere umano. In tal modo ha disatteso il parametro di riferimento per poter esercitare legittimamente il diritto di recesso ad nutum che è individuato nella ‘normale durata della vita umana’ o nella ‘speranza di vita media’
6.1 -La censura non è fondata.
L’art. 2285 c.c. nell’ambito delle società di persone, prevede il diritto di recesso ad nutum , non solo quando la società sia contratta a tempo indeterminato, ma anche quando sia contratta per tutta la vita di uno dei soci. Se il termine di durata previsto dall’atto costitutivo sia superiore alla normale durata della vita umana, si considera la società come contratta a tempo indeterminato, con conseguente possibilità per i soci del recesso ad nutum (testualmente in motivazione Cass., n.8962/2019). L’ art. 2285 c.c. per le società di persone, ove prevale l’ intuitus personae , delinea una diversa tutela dei creditori sociali, che, diversamente dalle società di capitali, possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili. E per tale differenza strutturale e funzionale prevede la possibilità di recesso del socio se la durata del vincolo eccede la presumibile durata di vita del socio.
Nel caso in oggetto la discussione è limitata all’interpretazione di cosa debba intendersi con la locuzione ‘aspettativa di vita’, o ‘normale durata della vita umana’ . In tale direzione la Corte di Appello usa dei parametri esplicitati in modo chiaro e coerente facendo riferimento all’età dei soci al momento della costituzione della società o alla presumibile età al momento del recesso o rispetto all’indicazione della data di durata della società. La censura contesta l’utilizzo di tali parametri con censure di carattere meritale che non possono essere oggetto di valutazione in sede di legittimità poiché esenti da vizi logici o ermeneutici.
7. -Per quanto esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità a favore di ciascun controricorrente che liquida in € 8.000 per compensi e € 200 per esborsi oltre spese generali, nella misura del 15% dei compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30.5.2002, n.115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione