Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31499 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 31499 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26168/2019 R.G. proposto da: NOME COGNOME elettivamente domiciliata in INDIRIZZO ROMA , presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE PALERMO, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, con diritto di ricevere le notificazioni all’indirizzo PEC degli avvocati COGNOME NOME e NOME che la rappresentano e difendono
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO PALERMO n. 183/2019 depositata il 08/03/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/07/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza n. 183/2019 pubblicata lo 08/03/2019, ha rigettato il gravame proposto da NOME COGNOME nella controversia con la RAGIONE_SOCIALE Palermo.
La controversia ha per oggetto il pagamento delle retribuzioni maturate dallo 01/01/2015 al 31/12/2016, ossia dalla data di scadenza del contratto a tempo determinato illegittimamente risolto dal datore di lavoro (risoluzione accertata con sentenza n.3373/2013 del Tribunale di Palermo, passata in giudicato), alla ulteriore scadenza del contratto, siccome prorogata al 31/12/2016 in forza di deliberazione direttoriale n.38/2014.
Il tribunale di Palermo rigettava la domanda, ritenendo che risoluzione del rapporto allo 02/11/2012, ancorché illegittima, non ne consentisse la proroga in forza di un provvedimento successivo alla risoluzione del rapporto.
La Corte d’appello ha ritenuto che l’illegittimità del recesso datoriale anticipato rispetto alla data di naturale scadenza del contratto al 31/12/2014, non incidesse comunque sulla durata del rapporto ormai risolto, e dunque insuscettibile di essere ripristinato. Sulla base di questa premessa la Corte territoriale ha
tratto la conclusione che la delibera di proroga n.38 del 14/07/2014 era intervenuta quando il rapporto si era già risolto virgola in virtù del recesso datoriale; e che pertanto non poteva prorogare nel tempo gli effetti di un contratto definitivamente cessati.
Per la Cassazione della sentenza ricorre NOME COGNOME con ricorso affidato ad un unico motivo. La RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso. Sono state depositate memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso NOME COGNOME lamenta la violazione degli artt.1218, 1223 e 2909 cod. civ. in relazione all’art.360 co mma primo n.3 cod. proc. civ. La ricorrente deduce che in virtù delle statuizioni della sentenza del Tribunale di Palermo n.3373/2013, passate in giudicato, la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere ad un accertamento di tipo prognostico, ai fini risarcitori, verificando se il contratto di lavoro a tempo determinato sarebbe stato prorogato se non fosse intervenuto il recesso illegittimo. E ciò in considerazione del fatto che a seguito del recesso illegittimo la lavoratrice aveva il diritto di ricevere tutte le retribuzioni che avrebbe avuto diritto di percepire laddove non fosse intervenuto il recesso. Lamenta pertanto che la Corte territoriale, al fine di verificare quale sarebbe stata l’effettiva scadenza del contratto rispetto alla quale commisurare l’entità del risarcimento, avrebbe dovuto accertare se la proroga di cui alla deliberazione direttoriale n.38/2014 sarebbe stata applicabile al contratto dedotto in giudizio nel caso in cui non ci fosse stato il licenziamento illegittimo.
Aggiunge la ricorrente che la deliberazione direttoriale de qua ha determinato la proroga dell’originaria scadenza dei contratti di lavoro ai quali essa si riferiva, e non la loro rinnovazione; e che la
proroga è intervenuta prima della scadenza naturale del contratto, stabilita al 30/12/2014.
Il motivo è inammissibile, come eccepito nel controricorso ed in conformità alle conclusioni rassegnate dal pubblico ministero.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, al quale si intende dare continuità, «il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 num. 4 cod. proc. civ.» (Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7.074).
Con riferimento agli errores in judicando l ‘impugnazione a critica vincolata impone un ineludibile confronto con la sentenza impugnata, ed è necessariamente dialettica, perché solo dalla contrapposizione tra l’argomentazione giuridica della sentenza che si assume viziata ex art.360 comma primo n.3 cod. proc. civ.
-e quella prospettata nel ricorso -che si afferma ortodossa -che la Corte di Cassazione può procedere ad apprezzare la sussistenza dei vizi lamentati. Diversamente opinando la sentenza impugnata cessa col costituire il contesto della impugnazione, per diventare solo il pretesto per riproporre le tesi e gli argomenti difensivi già spiegati nei gradi precedenti.
La Corte territoriale, nella sua lapidaria ma puntuale motivazione, ha posto a fondamento della propria decisione gli effetti prodotti dal licenziamento (illegittimamente) intimato il 01/11/2012. Ha correttamente preso atto dell’accertamento della illegittimità del recesso datoriale in forza della sentenza del Tribunale di Palermo n.3373/2013, passata in giudicato. Sulla base di queste premesse ha concluso per la insussistenza di alcun principio di «continuità giuridica del rapporto di lavoro» applicabile nel caso di recesso illegittimo dal contratto a termine, e ne ha tratto la conclusione che il recesso, ancorché illegittimo, è comunque in grado di produrre il suo effetto tipico, ossia lo scioglimento del rapporto contrattuale tra le parti, con cessazione dei suoi effetti ex nunc .
Il motivo di ricorso non attacca, in modo immediato e diretto, il ragionamento giuridico svolto dalla Corte territoriale, ed in particolare, il nucleo essenziale della decisione: la immediata cessazione degli effetti del contratto a tempo determinato per effetto del recesso, ancorchè illegittimo. E dunque la impossibilità giuridica di prorogare gli effetti di un rapporto giuridico cessato ed esaurito, sia pure ai soli fini risarcitori.
Il danno risarcibile ex artt.1218 e 1223 cod. civ. nel caso di recesso ante tempus dal contratto a termine, è stato correttamente parametrato con riferimento al mancato guadagno, ossia con
riferimento alle retribuzioni in maturazione dal recesso alla scadenza del contratto.
9 . La Corte territoriale ha correttamente applicato l’art.2909 cod. civ. (che la ricorrente assume violata), in quanto ha inteso che il riferimento alle retribuzioni «dalla data di illegittima risoluzione del rapporto a quella di naturale scadenza del contratto» fosse da interpretarsi nel senso delle retribuzioni maturate fino alla data di «naturale scadenza del contratto» accertata al momento della statuizione passata in giudicato, ossia al 30/12/2014.
La parte ricorrente avrebbe dovuto censurare anche questa parte di motivazione, spiegando per quale ragione il giudicato formatosi con riferimento alla scadenza del contratto al 30/12/2014 dovesse in parte qua ritenersi travolto dalla delibera di proroga. Il tutto sul presupposto della ultrattività del contratto a termine, in radicale contrasto con i costanti principi stabiliti da questa Corte.
La perdita di chances sostanzialmente pretesa dalla parte ricorrente postula la possibilità di risarcire un lucro cessante ulteriore a quello che è conseguenza immediata e diretta -ex art.1223 cod. civ. -del recesso ante tempus illegittimo: ossia le retribuzioni dovute sino alla data di scadenza del contratto. Ma la Corte territoriale non ha fondato la propria decisione sull’art.1223 cod. civ., ha rigettato il gravame ritenendo che per effetto del recesso datoriale -ancorchè illegittimo -non vi fosse più alcun contratto suscettibile di proroga. Questa è la ratio decidendi, e questo doveva essere il nucleo del confronto dialettico con la motivazione. Confronto mancato, per le ragioni già esposte.
Per questo motivo il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
13. La ricorrente deve essere condannata in favore della controricorrente, al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge/oltre alle spese prenotate a debito . Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 02/07/2024.