Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23456 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23456 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 30040-2021 proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
nonchè contro
COGNOME
– intimati –
avverso la sentenza n. 716/2021 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 21/09/2021 R.G.N. 36/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Retribuzione rapporto privato
R.G.N. 30040/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 07/05/2025
CC
Fatti di causa
La Corte di appello di Bologna, con la sentenza n. 716/2021, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva respinto le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, nella loro qualità di eredi di COGNOME NOME, per il quale la ricorrente aveva dedotto di avere lavorato come collaboratrice domestica/familiare presso la sua seconda casa, dall’anno 2005 sino al decesso, avvenuto il 27.5.2017, rivendicando il pagamento di differenze retributive, TFR e indennità di mancato preavviso.
I giudici di seconde cure hanno condiviso le conclusioni del Tribunale che aveva ritenuto simulato il rapporto di lavoro intercorso tra la COGNOME e COGNOME COGNOME perché tra i due vi era stata una relazione sentimentale e l’esistenza del fittizio rapporto domestico era diretto solo ad ottenere la richiesta di soggiornare, per la originaria ricorrente, in Italia con un regolare visto: ciò era dimostrato non già attraverso mere presunzioni, bensì dall’esame della copiosa documentazione prodotta dai resistenti e non oggetto di specifica e tempestiva contestazione.
Avverso la decisione di secondo grado NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui ha resistito il solo COGNOME NOME; gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Le parti hanno depositato memorie.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché la violazione o falsa applicazione degli artt. 1414 e 1417 cod. civ., in tema di prova della simulazione, per avere la Corte territoriale accertato erroneamente la sussistenza della simulazione del rapporto di lavoro di cui è causa, sulla base di meri elementi presuntivi, omettendo la valutazione della documentazione versata in atti da essa ricorrente (contratto, buste paga, lettera di licenziamento, etc.) nonché omettendo di ammettere le prove testimoniali da lei articolate in primo grado e di valutare la ammissione, da parte degli stessi eredi, circa l’onerosità del rapporto di lavoro.
Con il secondo motivo si eccepisce, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 4 e n. 5 cpc, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall’accertamento della simulazione assoluta del contratto di lavoro, con una anomalia motivazionale che non consentiva di intendere il processo deliberativo adottato, fondato, peraltro, sulla base di prove documentali insufficienti a dimostrare la chiesta simulazione.
Con il terzo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione di norma di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché la violazione dell’art. 96 co. 3 cpc, perché la Corte di appello, nel confermare la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretta la condanna ex art. 96 co. 3 cpc, di euro 5.000,00, equitativamente determinata dal primo giudice, in favore di ciascun controricorrente, abusando del proprio potere discrezionale e avvalorando la condanna ad una somma sproporzionata, determinata a titolo di risarcimento del
danno per lite temeraria, a fronte, invece, di una pretesa giudiziaria azionata in maniera legittima e fondata.
I primi due motivi, da scrutinare congiuntamente per connessione logico-giuridica, non sono meritevoli di accoglimento.
Le dedotte censure sono, infatti, inammissibili perché tendono, in sostanza, ad ottenere la revisione del ragionamento decisorio del giudice, non sindacabile in sede di legittimità, in quanto la Corte di cassazione non può mai procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 91/2014; Cass. S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 5024/2012) e non potendo il vizio consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 6694/2009; Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 4766/2006).
Con riguardo alle prove, quindi, mai può essere censurata la valutazione in sé degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass. 24155/2017; Cass. n. 1414/2015; Cass. n. 13960/2014) se non nei limiti di cui alla nuova formulazio ne dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc come individuati dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte, cfr. Cass. Sez. Un. n. 8053/2014 e Cass. Sez. Un. n. 5792/2024).
Le doglianze, invece, al di là delle denunziate violazioni di legge, si limitano, in sostanza, in una richiesta di riesame del
merito della causa, attraverso una nuova valutazione delle risultanze processuali, in quanto sono appunto finalizzate ad ottenere una revisione degli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte territoriale (Cass. n. 6519/2019) che, con motivazione giuridicamente congrua, è giunta alla conclusione che la simulazione del rapporto di lavoro, che era finalizzata ad ottenere l’illecita permanenza sul territorio nazionale della Karasevich e poi l’indebita percezione della Naspi, era ricavabile non già da mere presunzioni, ma all’esito di un accertamento diretto, tratto dalla copiosa documentazione prodotta dagli eredi COGNOME che, peraltro, non era stata oggetto di specifica e tempestiva contestazione e che dimostrava la sussistenza di un ben altro tipo di rapporto in essere tra le parti.
La stessa Corte ha precisato, concordemente al primo giudice, che i contratti di lavoro non erano inesistenti, bensì simulati e non veritieri, perché tra i due soggetti vi era una relazione sentimentale senza che la COGNOME avesse mai svolto attività di collaboratrice domestica.
Sotto tale profilo va ribadito che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467/2017).
Quanto, inoltre, alle dedotte violazioni ex art. 360 n. 5 cpc, deve precisarsi che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n.
134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, come sopra detto, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 27415/2018; Cass. 19881/2014).
Va anche ribadito che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (Cass. n. 22598/2018; Cass. n. 7090/2022).
Nella fattispecie in esame, oltre ad evidenziarsi che si verte in una ipotesi di cd. ‘doppia conforme’ che rende inammissibili le doglianze articolate ex art. 360 co. 1 n. 5 cpc, va comunque sottolineato che è chiaro, per quanto sopra detto, il criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, con una logica esplicitazione del quadro probatorio ed una attenta disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 3819/2020).
In ordine, infine, alle censure sulla mancata ammissione delle prove testimoniali della originaria ricorrente, deve ribadirsi che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudizio sulla superfluità o sulla genericità di una prova per testimoni è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto, che, tuttavia, può essere censurata se basata su erronei principi giuridici ovvero su incongruenze di carattere logico (Cass., sez. 1, 10/08/1962, n. 2555; Cass., sez. 3, 06/09/1963, n. 2450; Cass., sez. 3, 16/11/1971, n. 3284; Cass., sez. 3, 24/02/1987, n. 1938; Cass., sez. 2, 10/09/2004, n. 18222; Cass., sez. L, 21/11/2022, n. 34189).
Tanto non è ravvisabile nel caso de quo dove entrambi i giudici del merito hanno ritenuto la determinante consistenza probatoria rappresentata dalla documentazione in atti per ritenere fondata la ricostruzione della vicenda come prospettata dai resistenti in prime cure circa la individuazione del vero ruolo della COGNOME che era quello di convivente more uxorio , e non certo di collaboratrice domestica, tanto è
che usufruiva, in modo dispotico, anche di una domestica di nome NOME
Il terzo motivo è infondato.
La liquidazione in concreto della somma in via equitativa ex art. 96 co. 3 cpc rientra nel potere discrezionale del giudice e non è suscettibile, in questa ipotesi, di sindacato in sede di legittimità, in quanto la valutazione del primo giudice circa la temerarietà della lite (censurata in appello con la sola deduzione ‘appare evidente come tale condanna sia ingiusta ed afflittiva al di là di ogni ragione’) è stata fatta propria dalla Corte territoriale attraverso la condivisione totale delle argomentazioni, in fatto e in diritto, svolte dal Tribunale la cui pronuncia è stata totalmente confermata.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
L’infondatezza del ricorso rende superflua la rinnovazione della notifica del ricorso all’intimata nei cui confronti essa non si è perfezionata. Invero, la notifica del ricorso per cassazione per COGNOME NOME, contumace in appello, non è stata effettuata ritualmente in quanto eseguita non alla parte personalmente bensì al suo difensore di primo grado.
Come già statuito a riguardo da questa S.C. (cfr. Cass. n. 15106/13; cfr. altresì, Cass. n. 6826/2010; Cass. n. 2723/2010; Cass. n. 18410/2009), il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cpc) di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo
del principio del contraddittorio e delle garanzie di difesa e dal diritto a partecipare al processo in condizioni di parità.
Ne deriva che, acclarata l’infondatezza del ricorso in oggetto alla stregua delle considerazioni sopra svolte, sarebbe comunque vano disporre la fissazione di un termine per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei tempi di definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio in termini di garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo; nulla va disposto per gli intimati che non hanno svolto attività difensiva.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge; nulla per gli altri intimati che non hanno svolto attività difensiva. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.