Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 6225 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 6225 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3187/2023 R.G. proposto da: COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOMECODICE_FISCALE , domiciliazione digitale come in atti
-ricorrenti-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, MINISTERO DELLA DIFESA, MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, MINISTERO DEGLI INTERNI, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che li rappresenta e difende
-controricorrenti- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO PALERMO n. 1149/2022 depositata il 30/06/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa
–NOME COGNOME e NOME COGNOME, proprietari di un motopeschereccio di altura, e di tre piccole imbarcazioni di appoggio, sono stati fermati dalla Guardia Costiera italiana, in prossimità dell’isola di Lampedusa. Sono stati accusati di immigrazione clandestina e le loro imbarcazioni sono state poste sotto sequestro ed affidate ad un custode.
NOME COGNOME che era alla conduzione del moto peschereccio, è stato rinviato a giudizio. Condannato in primo grado, è stato definitivamente assolto in appello. A seguito di tale assoluzione, lo Stato italiano ha restituito le imbarcazioni sequestrate, ma non nelle condizioni in cui si trovavano al momento del sequestro. Era infatti accaduto che le barche di appoggio (di circa 7 metri) erano state rubate ed il motopeschereccio saccheggiato: molte sue componenti mancavano, compresi i pezzi dei motori. Inoltre, lo scafo presentava danni gravi causati da incuria nella custodia.
-I due cittadini tunisini hanno dunque agito nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli Interni, del Ministero della Giustizia e del Ministero della Difesa, per chiedere il risarcimento dei danni causati ai loro beni, oggetto di sequestro e poi restituiti. I convenuti si sono costituiti ed hanno negato la loro legittimazione attiva e comunque la loro responsabilità diretta. L’azione è stata dunque estesa al Ministero delle Infrastrutture, in quanto, nel difendersi, le convenute avevano eccepito che la custodia era stata affidata da altro Ministero ad un soggetto privato, ed era emerso che tale soggetto privato era stato incaricato della custodia dalla Capitaneria di Porto, organismo, per l’appunto, dipendente dal Ministero infrastrutture e Trasporti.
-Il Tribunale di Palermo in primo grado ha ritenuto che gli attori avessero proposto una domanda di risarcimento da ingiusto processo, ossia fondata sul fatto di essere stati accusati, ma poi assolti, del reato di immigrazione clandestina, e dunque ha ritenuto che una tale domanda, significando responsabilità per attività giudiziaria, andasse proposta nelle forme proprie della legge 117 del 1988.
-I due ricorrenti hanno proposto appello e la Corte di Appello di Palermo ha stimato che si fosse formato il giudicato sulla domanda di risarcimento verso la Presidenza del Consiglio ed il Ministero degli interni, mentre ha ritenuto che effettivamente in primo grado gli attori avevano proposto domanda di risarcimento da ingiusto processo, e che solo in appello, e dunque tardivamente, avevano precisato che la domanda era invece di risarcimento per il danneggiamento delle cose sequestrate.
-Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione i due proprietari delle imbarcazioni con tre motivi di censura, cui ha fatto seguito il controricorso della Presidenza del Consiglio e di tutti i Ministeri già indicati.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
-Con il primo motivo si prospetta violazione dell’articolo 112 c.p.c.
I ricorrenti infatti sostengono che la loro domanda è stata male intesa e che dunque i giudici di merito hanno rigettato una domanda diversa da quella effettivamente proposta: essi avevano chiaramente agito per i danni da incuria nella custodia dei beni sequestrati, mentre i giudici hanno interpretato tale domanda come di risarcimento per l’ingiusta accusa di immigrazione clandestina.
Invece, come risulta sia dall’atto introduttivo che dalle successive memorie, la domanda era chiaramente quella di risarcimento per i danni subiti dalla imbarcazione durante il periodo di custodia, e non
già quella per i danni da ingiustizia dell’accusa di immigrazione clandestina.
Tanto è vero che sulla prima, e non sulla seconda, si erano difese le amministrazioni convenute.
2. -Il secondo motivo prospetta violazione dell’articolo 163 c.p.c. Secondo i giudici di merito la domanda iniziale era di risarcimento da ingiusto processo, mentre solo con le memorie ai sensi del sesto comma dell’art. 183 c.p.c. era stata introdotta quella di risarcimento per danneggiamento dei beni in custodia, e dunque tardivamente.
I ricorrenti invece contestano questa prospettazione ed assumono di avere, sin dall’inizio, proposto la domanda per i danni alle cose, che con le memorie di cui all’articolo 183, sesto comma, c.p.c., è stata solo precisata.
I due motivi pongono una questione comune e sono fondati.
Intanto va sgomberato il campo da un equivoco.
I giudici di appello erroneamente hanno ritenuto ormai giudicata la domanda di danni da ingiusto processo e da ingiusto sequestro, in quanto non impugnata in appello (p. 3 della sentenza).
Ovviamente una tale affermazione ha un senso se veramente tale fosse la domanda. Non ne ha alcuno se invece si ammette che l’impugnazione mirasse proprio a far qualificare diversamente quella domanda.
Senza tacere del fatto che, comunque, anche ad ammettere che sia passato in giudicato il rigetto della domanda di risarcimento da ingiusto processo, ciò non impedisce di valutare se correttamente sia stata rigettata l’altra, quella di risarcimento per i danni da cose sequestrate e custodite.
L’una, del resto, implica l’altra.
Ma, si ripete, il fatto stesso che i ricorrenti abbiano impugnato la decisione di inammissibilità della domanda di risarcimento da ingiusto processo, chiedendo che venisse qualificata diversamente,
ossia come domanda da risarcimento per danni alle cose, ha implicato impugnazione. La Corte di Appello dà atto che l’appello ha avuto ad oggetto proprio la qualificazione della domanda introduttiva e dunque ha avuto ad oggetto la censura rivolta al giudice di primo grado di avere erroneamente pronunciato sulla domanda di risarcimento da ingiusto processo, qualificazione da cui è scaturita la pronuncia di inammissibilità. Contestando la qualificazione della domanda, non si fa passare in giudicato la sua conseguenza, ossia la pronuncia di inammissibilità. Se si contesta che la domanda era diversa, si contesta anche la conclusione che l’errata qualificazione ha comportato. Non vi è dunque preclusione ad accertare se la qualificazione della domanda iniziale sia stata corretta o meno, che è ciò che si chiede con i primi due motivi di ricorso.
Ad ogni modo, i due motivi sono fondati per le ragioni seguenti. E’ noto, innanzitutto, che la qualificazione che il giudice di merito faccia della domanda introduttiva è censurabile in Cassazione, per violazione di legge, poiché una errata qualificazione porta il giudice di merito a decidere su una domanda diversa da quella proposta, e dunque lo porta a violare il disposto dell’articolo 112 c.p.c., che è la norma per l’appunto invocata dai ricorrenti nel primo motivo (Cass. 21421/2014; da ultimo Cass. 30770/2023).
Ciò detto, il giudice di merito, nel qualificare la domanda introduttiva, è vincolato da criteri concettuali e normativi: non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ed ha il potere -dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto (Cass. 27428/2005).
I ricorrenti hanno riportato in ricorso le parti significative ai fini di quella qualificazione, e del resto l’atto di citazione è allegato al ricorso.
Dall’atto introduttivo si evince chiaramente che i ricorrenti hanno agito per ottenere il risarcimento del danno subito alla imbarcazione a causa del difetto di adeguata custodia del bene. E non hanno agito invece, come supposto dai giudici di merito, per i danni da ingiusta accusa o ingiusto sequestro.
Ciò si ricava agevolmente intanto dal tenore letterale del petitum , riportato a pagina 18 del ricorso, che è conforme all’originale atto di citazione (cui il collegio ha avuto accesso, data l’allegazione dell’atto). Ed infatti, gli attori hanno chiesto espressamente che <>, si condannassero <>.
Questo petitum era sorretto da una altrettanto chiara causa petendi , ossia dalla responsabilità per negligente custodia. Si legge infatti, sempre nelle conclusioni della citazione, la richiesta di <>
Dunque: la richiesta di risarcimento del danno ( petitum) è basata ( causa petendi ) sulla responsabilità dei convenuti per il danneggiamento e per i furti.
Ciò è quanto risulta dalle conclusioni dell’atto di citazione.
Ma la stessa identica conclusione è autorizzata dalla lettura della parte narrativa e di quella motiva dell’atto introduttivo.
Nella parte narrativa (p. 7 e ss. in particolare) si dà conto di come i ricorrenti si siano accorti dei danni alla barca, una volta ottenutane la restituzione, di come abbiano sporto denuncia e di come abbiano fatto redigere una perizia. Il che lascia intendere che il loro intento era quello di avere il risarcimento dei danni, che, per l’appunto, avevano causa diretta nella omessa custodia e non nell’ingiusta accusa di un reato.
Alle pagine 10 e ss. della citazione è esposta la causa petendi : si dice chiaramente che il peschereccio è stato oggetto di saccheggio e che di <> (p. 12 della citazione).
Dunque, utilizzando i criteri ermeneutici prima citati, e tenendo conto dei criteri concettuali, ossia di cosa si intende per petitum e per causa petendi , i giudici di merito avrebbero dovuto agevolmente intendere la domanda per quella che era, ossia per una richiesta di risarcimento del danno per il furto ed il danneggiamento delle cose soggette a sequestro e poi restituite.
Ciò che ha indotto i giudici di merito alla loro conclusione è il fatto di avere confuso tra la causa petendi , ossia il titolo giuridico della domanda, e la causa storico -fattuale del danno. Due cose distinte ed oggetto di elementare differenza. Ed infatti, altra è la ragione giuridica della domanda (si chiedono i danni a titolo di omessa custodia del bene), altra è la ragione storica fattuale di quei danni
(essi sono solo materialmente conseguenti all’ingiusta accusa ed all’ingiusto sequestro). Il fatto che i ricorrenti abbiano esposto che la vicenda ha avuto inizio e causa per via dell’ingiusto processo, non significa che abbiano indicato in tale evento la causa petendi , significa che hanno indicato in tale evento l’origine storica degli avvenimenti, il contesto fattuale. La causa petendi è altra cosa, ed era di evidente chiarezza e comprensione: stava nel difetto di custodia del bene sequestrato.
Il giudice di merito ha dato rilievo al fatto che gli attori avevano indicato quale causa dei loro danni ‘l’ingiusta accusa’, ma solo a pagina 12, solo in una frase, senza considerare che il riferimento a tale accusa non era nei termini della causa petendi , ma del fatto storico da cui ha avuto origine la causa petendi : come dire tutto ha avuto origine dalla ingiusta accusa. Ma l’intero atto è volto a domandare i danni per la negligente custodia.
Del resto, mentre l’omessa custodia è causa prossima del danno (e dunque titolo di esso), mentre non lo è l’ingiusta accusa di un reato. Ed è semplice intuirlo: anche se l’accusa fosse ingiusta, ciò non costituirebbe causa del danno alle cose sequestrate se queste ultime fossero custodie adeguatamente. Ciò significa che se si domanda il risarcimento del danno subito dalle cose sequestrate (e che il petitum fosse questo non vi possono essere dubbi) la causa petendi non può che stare nell’ unica condotta che quel danno può avere causato, ossia il difetto di diligente custodia, non già nell’ingiusta accusa di un reato, che è causa non solo remota di quel danno, ma nemmeno efficiente, posto, si ripete che, anche in presenza di una accusa ingiusta e di un ingiusto sequestro, se la custodia dei beni è diligente, non deriva alcun danno da tale custodia.
La Corte di Appello ha dunque errato nel ritenere che la domanda inziale fosse quella di responsabilità da accusa ingiusta, in quanto chiaramente la domanda iniziale era quella di responsabilità per la
negligente custodia dei beni sequestrati, con la conseguenza che l’avere ribadito nella memoria di cui all’articolo 183 c.p.c. che si agiva per far valere il difetto di adeguata custodia non ha costituito mutatio libelli , ma semmai precisazione della domanda già svolta.
Analoga considerazione deve farsi per la domanda formulata con l’atto di chiamata in causa del Ministero delle Infrastrutture che è identica alla domanda originaria e che dunque ripropone la stessa richiesta: danni alle cose da negligente custodia delle medesime durante il sequestro, e non già danni alle cose da ingiusta accusa di un reato.
-Il terzo motivo, che prospetta violazione dell’articolo 354 c.p.p., può dirsi assorbito.
Si censura la violazione delle norme che impongono ai pubblici ufficiali la custodia delle cose pertinenti al reato, si precisa che la chiamata in causa del Ministero Infrastrutture era basata sulla stessa domanda iniziale e si ribadisce -ragione ulteriore di fondatezza dei primi due motivi -che nella memoria di cui all’articolo 183 c.p.c. erano state invocate sentenze della CEDU sulla responsabilità dello Stato nella custodia dei beni sequestrati.
Il ricorso va dunque accolto in questi termini e la decisione cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie primo e secondo motivo di ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa e rinvia alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 9/01/2025.