Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24221 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24221 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24387-2020 proposto da:
Oggetto
R.G.N. 24387/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 09/07/2025
CC
È STATA DISPOSTA D’UFFICIO LA SEGUENTE ANNOTAZIONE: IN CASO DI DIFFUSIONE OMETTERE LE GENERALITA’ E GLI ALTRI DATI IDENTIFICATIVI DI:
, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME; NOMECOGNOME.
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 356/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/03/2020 R.G.N. 100/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
09/07/2025 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME.
1.Con sentenza n. 356 del 3.3.2020, la Corte d’Appello di Milano ha respinto l’appello proposto da avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva respinto il ricorso dallo stesso presentato nei confronti di Banca Nazionale del Lavoro S.p.a., volto ad ottenere l’accertamento del diritto alla qualifica dirigenziale in luogo del formale inquadramento come quadro di IV livello, in relazione alla mansione di Responsabile Territoriale p. A. RAGIONE_SOCIALE, ricoperta a partire dal 12.1.09. K.H.
In particolare, la Corte d’Appello ha ritenuto non condivisibile il primo motivo di gravame, concernente il mancato riconoscimento dell’invocata qualifica dirigenziale, in ragione dell’inidoneità delle deduzioni svolte nel ricorso di primo grado in ordine ai relativi presupposti. Ha ribadito che la dimostrazione degli elementi tipici della figura dirigenziale incombe sul dipendente che invochi l’attribuzione della relativa qualifica e richiede la comparazione fra i requisiti del livello di appartenenza e quelli caratteristici del livello rivendicato, comparazione che ha ritenuto difettasse nel caso di specie.
Ha escluso, poi, il lamentato danno non patrimoniale, oggetto del quarto motivo di gravame, sulla base della C.T.U. esperita. Anche le richieste risarcitorie riferite al lamentato mobbing sono state infine disattese, in quanto non sono state ravvisate condotte persecutorie riconducibili a tale illecita fattispecie.
Ha, infine, escluso la Corte il lamentato demansionamento ed il danno non patrimoniale richiesto.
Avverso tale pronuncia propone ricorso assistito da memoria , affidandolo a sei motivi. NOMECOGNOME.
Resiste, con controricorso, la Banca Nazionale del Lavoro S.p.A.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione impugnata per violazione degli artt. 116 c.p.c., 132 c.p.c. comma 4, 2103 c.c., 2095 c.c., e art. 2 CCNL Dirigenti Credito quanto al mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale invocata.
1.1 Il secondo motivo deduce, sempre in ordine al mancato riconoscimento della dirigenza, la violazione degli artt. 2103 c.c., 2095 c.c., 112 c.p.c., 1362, 1366, 1368 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (ex art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.).
1.2. La terza censura concerne, quanto al mancato riconoscimento del demansionamento, la violazione degli artt. 2103 c.c., 3 D.Lgs. 81/2015, 1218 c.c., 11 Disp. Att. Cod. Civ., 132 c.p.c. comma 4 (ex art. 360, n. 3, c.p.c.).
1.3. Con il quarto motivo, ancora con riguardo al riconoscimento del demansionamento, si denunzia la violazione degli artt. 2103 c.c., 3 D.Lgs. 81/2015, 1218 c.c., 11 Disp. Att. Cod. Civ., 132 c.p.c. comma 4, 112 c.p.c. (ex art. 360, n. 3 e n. 4 c.p.c.).
1.5. Il quinto motivo denunzia, ancora con riguardo al mancato riconoscimento del danno da demansionamento, la violazione degli artt. 112 c.p.c., 113 c.p.c., 132 c.p.c. comma 4, 115 e 116 c.p.c. (ex art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.).
1.5. Con il sesto motivo si deduce, con riguardo all’esclusione del mobbing e del danno non patrimoniale, l’errata valutazione delle risultanze della CTU, l’omessa valutazione documenti decisivi, la violazione degli artt. 112 c.p.c., 132 c.p.c. comma 4, 196 c.p.c. (ex art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.).
I primi due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico-sistematiche, non possono trovare accoglimento.
Va preliminarmente rilevato che è da ritenersi inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. S.U. n. 3397 del 2024).
2.1. Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. (disponibilità e valutazione delle prove), occorre evidenziare che una questione di violazione e falsa applicazione di tali norme non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).
Nel caso di specie, come si evince agevolmente dall’esame della motivazione della sentenza di secondo grado, del tutto
inconferente deve reputarsi il richiamo alla disposizione considerata, atteso che parte ricorrente lamenta esclusivamente una erronea interpretazione delle prove offerte, delle quali, tuttavia, suggerisce un diverso apprezzamento, meramente contrapponendo alla motivazione della Corte la propria diversa interpretazione, senza apportare elementi che possano indurre a reputare la prima implausibile.
2.2. Va, poi, rilevato, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., che si verte nell’ambito di una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione de ll’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017);
nella specie, non solo parte ricorrente non deduce l’omessa valutazione di un fatto storico ma appunta le proprie censure su aspetti valutativi dell’ iter motivazionale, concernenti la
asseritamente erronea valutazione di materiale istruttorio concernente il perfezionamento della notificazione.
Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede l’ ” omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate ( cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass.n. 2268 del 2022).
2.3. Il ricorrente censura la decisione della Corte d’Appello per non aver riconosciuto il diritto alla qualifica dirigenziale, sostenendo l’idoneità delle proprie allegazioni e la scorretta interpretazione del CCNL da parte dei giudici di merito. In particolare, il lamenta che la Corte non avrebbe considerato il coordinamento di figure dirigenziali (non previsto per i quadri), le deleghe creditizie rilevanti, l’inserimento nel GSIP, la collocazione dell’ufficio e i contatti con le funzioni apicali, tutti elementi tipici del ruolo dirigenziale; si lamenta, quindi, con riguardo al consolidato orientamento di legittimità secondo cui la qualifica dirigenziale è possibile in presenza di un’attività caratterizzata da elevato grado di professionalità, autonomia e discrezionalità decisionale, e influenza sugli obiettivi complessivi dell’impresa, l’omesso esame del procedimento trifasico di accertamento della qualifica. K.H.
Questa Corte ha costantemente affermato che l’onere della prova in merito allo svolgimento di mansioni superiori, e, quindi, del diritto a un superiore inquadramento, incombe sul lavoratore. Tale prova deve essere rigorosa e deve basarsi sulla
comparazione tra le mansioni effettivamente svolte e le declaratorie contrattuali collettive pertinenti, evidenziando i caratteri di autonomia, discrezionalità, iniziativa e ampiezza dei poteri tipici della figura dirigenziale, non essendo sufficienti mere allegazioni generiche o elementi estrinseci al contenuto sostanziale delle mansioni.
In particolare, ai fini del riconoscimento della qualifica di dirigente, il lavoratore deve non solo provare di aver svolto mansioni implicanti l’esercizio di poteri decisionali e direttivi propri di essa (Cfr., sul punto, Cass. n. 17123 del 2015), ma anche effettuare una comparazione tra il livello di appartenenza ed il livello rivendicato e dimostrare l’inadeguatezza del primo in relazione all’attività svolta.
In merito alle doglianze sulla mancata valutazione di fatti decisivi (ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), si ribadisce il consolidato orientamento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. n. 8053 del 2014) secondo cui tale vizio è configurabile solo in caso di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Non è consentita la censura che miri a una rivalutazione del fatto da parte del giudice di legittimità o che si traduca in una diversa interpretazione delle prove acquisite.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha correttamente valutato le allegazioni del ricorrente ritenendole inidonee a supportare la domanda di inquadramento dirigenziale, rilevando la mancanza di una comparazione tra le declaratorie contrattuali e i concreti contenuti di autonomia decisionale, iniziativa, discrezionalità e responsabilità dei compiti assegnati. Le circostanze dedotte dal ricorrente sono state ritenute, in sé, non sufficienti a qualificare
il ruolo come dirigenziale in assenza della necessaria specificità e del raffronto contrattuale.
Il ricorso, sotto questo profilo, si risolve in una richiesta di nuova valutazione del merito, inammissibile in sede di legittimità.
Il terzo, il quarto e il quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione, non possono essere accolti.
Il ricorrente censura la Corte d’Appello per aver escluso il diritto al risarcimento del danno da demansionamento, pur avendo riconosciuto una riduzione qualitativa e quantitativa del ruolo a partire dall’ottobre 2009.
La critica si concentra sull’applicazione del nuovo art. 2103 c.c. (D.Lgs. 81/2015) a un demansionamento iniziato prima della riforma, sostenendo l’irretroattività della norma.
Si lamenta inoltre la mancata verifica dei requisiti previsti dal nuovo art. 2103 c.c. (modifica assetti organizzativi, obbligo formativo, comunicazione scritta) per legittimare un demansionamento.
Il ricorrente lamenta, poi, che la Corte d’Appello abbia escluso il risarcimento del danno professionale, limitandolo al solo mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale, violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e il principio iura novit curia . Il ricorrente sostiene che la domanda di risarcimento del danno professionale non fosse vincolata all’accertamento della qualifica dirigenziale, ma alla perdita professionale in generale.
Nel merito, il giudice di secondo grado ha rilevato che la riduzione dell’ambito di competenza di a partire dall’ottobre del 2009, con il suo ritorno all’originario ruolo di Responsabile RAGIONE_SOCIALE e con le successive decurtazioni territoriali, avesse comportato un K.H.
ridimensionamento non solo quantitativo, ma anche qualitativo del suo ruolo nell’ambito aziendale. Tuttavia, la Corte ha escluso che alcun demansionamento fosse ravvisabile nell’epoca successiva all’innovazione normativa (D.Lgs. n. 81/2015), attesa la permanente riconducibilità delle mansioni al medesimo livello di formale inquadramento.
Il tema dell’applicabilità delle nuove norme sul demansionamento (D.Lgs. 81/2015) ai rapporti in corso all’entrata in vigore della riforma è stato oggetto di ampio dibattito.
Questa Corte ha di recente affermato (Cfr., sul punto, Cass. n. 11870 del 2024), a conclusione del dibattito innescatosi, che in caso di lamentato demansionamento illegittimo, la protrazione nel tempo della condotta datoriale di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori costituisce un illecito di natura permanente, cosicché, se essa persiste anche dopo la modifica dell’art. 2103 c.c. disposta dall’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, occorre valutare se le mansioni assegnate sono ancora qualificabili come “inferiori” alla luce della nuova disciplina; in caso negativo, la connotazione di illiceità di detta condotta viene meno limitatamente alla frazione della stessa successiva all’entrata in vigore della novella, che si applica ex nunc (cioè, dal 24/06/2015).
Nel caso di specie, la motivazione della corte d’appello del rigetto della richiesta di risarcimento del danno si fonda principalmente sul mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale rivendicata dal ricorrente per il periodo precedente. Il giudice di secondo grado, infatti, ha applicato il principio per cui, non essendo stato provato il diritto all’inquadramento dirigenziale, il “ritorno” a mansioni di quadro (pur se ridotte) non integra un demansionamento risarcibile nel modo preteso,
essendo tali mansioni comunque compatibili con la qualifica di quadro; il ricorrente, invero, aveva collegato inscindibilmente il danno alla perdita di un ruolo che riteneva dirigenziale.
Invero, non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite (Cass. n. 10284 del 2000; Cass. n. 5651 del 2004). Invero, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area operativa (Cass. n. 16594 del 2020).
Come affermato dalla già richiamata Cass. n. 11870 del 2024, in tema di limiti all’esercizio dello “ius variandi” del datore di lavoro, l’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, di modifica dell’art. 2103 c.c., stabilisce il principio della fungibilità delle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale, il quale deve intendersi nel senso che, se il c.c.n.l. articola una medesima categoria legale in più livelli professionali, lo “ius variandi” è legittimamente esercitato solo se le nuove mansioni appartengono, oltre che alla medesima categoria legale, anche allo stesso livello professionale di quelle precedenti; se invece il
c.c.n.l. non prevede più livelli professionali, ma solo livelli economici differenziati per anzianità o sulla base di criteri diversi dalla tipologia di mansioni svolte, detto potere sarà ugualmente esercitabile a condizione che le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale.
Nella specie la Corte, con motivazione sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto che le mansioni attribuite fossero perfettamente riconducibili all’area di quadro non essendo stato dimostrato il superiore profilo dirigenziale richiesto.
Quanto alla lamentata lesione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), esso impone al giudice di pronunciare su tutta la domanda e solo sulla domanda, senza andare extra petita o ultra petita . Esso può ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti (Cass. n. 17897 del 2029). Tuttavia, il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica data dalle parti ai fatti (principio iura novit curia ex art. 113 c.p.c.) e può riqualificare la domanda purché rimangano invariati i fatti costitutivi e il petitum sostanziale (Cass. 7413/2020; Cass. 13602/2019; Cass. 13049/2016; C. 23669/2014).
Nel caso specifico, come già rilevato, la Corte d’Appello ha ritenuto che la domanda risarcitoria del ricorrente fosse rigidamente ancorata alla pretesa di un inquadramento dirigenziale e alla conseguente natura demansionante del “ritorno” a mansioni di quadro. Essendo stata esclusa la natura
dirigenziale delle mansioni, è stato ritenuto coerentemente escluso il danno nei termini richiesti.
Come noto, questa Corte ha affermato in modo consolidato che l’onere di allegare e dimostrare il danno alla professionalità spetta al lavoratore, e che tale danno non è un automatismo, richiedendo specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (fra le altre, Cass. n. 10405 del 2020).
La censura del ricorrente, in realtà, mira a una rivisitazione del giudizio di merito sull’interpretazione della domanda, il che è inammissibile in questa sede.
6. Il sesto motivo, con cui si lamenta, con riguardo all’esclusione del mobbing e del danno non patrimoniale, l’errata valutazione delle risultanze della CTU, l’omessa valutazione di documenti decisivi, la violazione degli artt. 112 c.p.c., 132 c.p.c. comma 4, 196 c.p.c. (ex art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.) è inammissibile.
Parte ricorrente si duole dell’errato rigetto della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e del mobbing , sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe acriticamente aderito alle risultanze della CTU, nonostante presunte carenze e contraddizioni dell’elaborato peritale. Si lamenta l’omesso esame di documentazione clinica decisiva (referto RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE Medicina del Lavoro).
La valutazione delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio e del materiale probatorio è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità in presenza di motivazione non implausibile.
Occorre ribadire quanto già affermato con riguardo ai primi due motivi di ricorso e, cioè, che è da ritenersi inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate
dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (Cass. S.U. n. 3397 del 2024).
Quanto, nella specie, all’esame della CTU, va rilevato come la Cassazione non possa riesaminare il merito della valutazione della CTU, ma solo verificare se la sentenza abbia adeguatamente motivato la propria adesione o dissenso rispetto alle conclusioni del consulente. Come già evidenziato, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (ex art. 360, n. 5 c.p.c.) ricorre solo se il fatto storico, che sia tale, sia stato completamente trascurato e non se ne sia stata data una valutazione non gradita alla parte (Cass. Sez. Un. n. 8053 del 2014).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha motivato la propria adesione alle conclusioni della CTU, la quale ha escluso la presenza di un disturbo clinicamente significativo e la riconducibilità causale al demansionamento. La Corte ha altresì rilevato che la CTU ha dato conto delle osservazioni del CTP del ricorrente.
Le conclusioni della CTU, secondo la Corte, trovano riscontro nella relazione inerente la valutazione testistica, allegata all’elaborato peritale, nella quale viene rilevata in capo all’appellante “la tendenza ad enfatizzare la sintomatologia”, tale da dare luogo a risultati “discordanti” delle prove somministrate sotto una pluralità di profili.
L’accertata carenza della lamentata patologia priva di rilevanza le questioni concernenti il nesso causale. Le doglianze concernenti l’omessa valutazione del referto del RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE si traducono in una critica alla
valutazione delle prove, piuttosto che in un vizio di omesso esame di un fatto decisivo, rientrando nell’ambito del sindacato di merito.
La giurisprudenza di legittimità ha, poi, chiarito che il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, con conseguente mortificazione ed emarginazione del dipendente ed effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (Cass. n. 11547 del 2015; Cass. n. 18927 del 2012; Cass. n. 20230 del 2014). Tali elementi non sono stati ravvisati dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto le condotte addotte non esulanti dalle comuni dinamiche lavorative e i giudizi negativi del 2009 espressi nei confronti del ricorrente conformi ai risultati di gestione.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, deve concludersi che parte ricorrente, nel formulare le proprie censure mediante ricorso per cassazione, non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., S.U. n. 34476 del 2021).
8.1. Il ricorso deve, pertanto, respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.lgs. n. 196/2003, in caso di diffusione si dispone di omettere le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente.
PQM
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5.000.00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di l egge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.lgs. n. 196/2003, in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente.
Cosi deciso nell’Adunanza camerale del 9 luglio 2025.
La Presidente NOME COGNOME