Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7575 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7575 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 22964-2019 proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, tutti nella qualità di eredi di COGNOME NOME, originario ricorrente, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrenti –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliati
in ROMA, INDIRIZZO , nello studio dell’AVV_NOTAIO, che li rappresenta e difende
– controricorrenti –
nonchè contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
nonchè contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2765/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/05/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 15.2.2007 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME, NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Gragnano, invocando l’accertamento dell’inesistenza del loro diritto di affissione sulla facciata esterna di un immobile e la loro condanna all’eliminazione di un impianto citofonico, di alcune tabelle pubblicitarie e di un lampioncino, nonché al risarcimento del danno.
Nella resistenza dei convenuti, e con l’intervento in giudizio di COGNOME NOME e COGNOME NOME, i quali invocavano in via riconvenzionale la condanna degli attori al pagamento della somma di € 115,69 spesa per la realizzazione di un pozzetto di raccolta delle acque di scarico, il Tribunale dichiarava la cessazione della materia del
contendere relativamente al rapporto processuale tra COGNOME NOME e NOME, rigettava la domanda proposta nei confronti di COGNOME NOME ed accoglieva in parte quella diretta nei confronti di COGNOME NOME, condannandolo a rimuovere la tabella pubblicitaria affissa sul muro di cui è causa. Rigettava invece la domanda riconvenzionale degli intervenienti.
Con la sentenza impugnata, n. 2765/2019, la Corte di Appello di Napoli riformava la decisione di prima istanza limitatamente al governo delle spese, compensandole per metà e ponendole per la restante metà a carico di COGNOME NOME.
Propone ricorso per la cassazione di tale pronuncia NOME, affidandosi a sei motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Resistono con separati controricorsi anche COGNOME NOME, da un lato, e COGNOME NOME, dall’altro lato.
In prossimità dell’adunanza camerale, si sono costituiti gli eredi dell’originario ricorrente COGNOME NOME, medio tempore deceduto, depositando memoria.
Risulta inoltre depositata in via telematica una memoria nell’interesse di COGNOME NOME, che in effetti non è tale, trattandosi di un semplice indice dei documenti depositati (controricorso, ricorso, sentenza e copia delle e-mail attestanti la notifica del controricorso).
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1063 e 1065 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato il titolo costitutivo del diritto di servitù, ritenendo lecita l’installazione del citofono realizzato da NOME
COGNOME. In particolare, le opere da quest’ultima realizzate integrerebbero una innovazione del diritto reale, implicante l’imposizione sul fondo servente di un peso diverso da quello originariamente previsto e costituito.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha interpretato il contenuto della divisione a rogito del notar COGNOME rep. 63441 del 4.3.1983, ritenendo che esso prevedesse la facoltà, per i condividenti, di sostituire il portone di accesso al fabbricato e di collocare citofoni e campanelli; ha poi considerato le fotografie depositate in atti idonee a dimostrare l’effettiva sostituzione del portone stesso, ma non anche la data in cui sarebbe stata realizzata la pulsantiera citofonica oggetto della censura in esame (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). Su tali presupposti, il giudice di appello ha confermato la decisione di prime cure, che già aveva ritenuto lecita, e non idonea a creare nuove servitù, l’installazione del citofono da parte di NOME.
Tale ricostruzione, certamente non implausibile, viene attinta dagli odierni ricorrenti mediante la contrapposizione, a quella prescelta dalla Corte distrettuale, di una differente ed alternativa lettura del dato negoziale, senza tuttavia considerare che ‘La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili
interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649; conf. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018, Rv. 649677; in precedenza, nello stesso senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013, Rv. 628585).
Con il secondo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 949 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente affermato che costituisce fatto notorio che i cavi a servizio degli accessi con apertura elettrica debbano essere collocati nella parte sottostante e che il cancello di cui è causa ne sarebbe dotato sin dal 1976.
La censura è inammissibile, in quanto non coglie la ratio della decisione impugnata: l’argomento del notorio, infatti, non è stato di certo utilizzato dalla Corte di Appello, ma piuttosto dal Tribunale. Il giudice di seconda istanza, invece, ha condotto una interpretazione del contenuto dell’atto di divisione del 1983, già richiamato in occasione dello scrutinio del primo motivo, sulla base della quale ha ritenuto non provata l’epoca in cui sarebbe stato sostituito il portone ed installato il citofono, con i relativi cavidotti a servizio. Trattandosi di interpretazione non implausibile, per essa valgono le considerazioni già esposte in relazione alla prima doglianza. Né è possibile, per il ricorrente, contestare il percorso motivazionale seguito dal giudice di seconda istanza, posto che il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., è circoscritto, a seguito della novella del 2012, alla sola ipotesi di
omesso esame di un fatto decisivo; vizio, questo, che nella fattispecie non sarebbe comunque deducibile, posto che si configura sostanzialmente una ipotesi di cd. ‘doppia conforme’ , avendo la Corte territoriale riformato la decisione di prime cure solo in relazione al governo delle spese (v. art. 348 ter cpc).
Con il terzo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare la fotografia allegata come documento 16 al fascicolo di parte in primo grado, dalla quale emergerebbe la prova che la pulsantiera citofonica realizzata dalla RAGIONE_SOCIALE non era presente alla data del 3.6.1987.
La censura è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata. La documentazione alla quale fa riferimento il motivo in esame, infatti, è stata ritenuta tardiva, e inammissibile, in quanto di epoca remota, e dunque utilmente producibile nel rispetto delle preclusioni istruttorie del giudizio di prima istanza (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). La doglianza non attinge specificamente tale statuizione, in quanto gli odierni ricorrenti non dimostrano, al contrario, di aver avuto, senza colpa, la disponibilità della fotografia solo dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. e dunque di non averla potuto produrre, senza colpa, in primo grado. Inoltre, la Corte di Appello ha ravvisato l’irrilevanza della documentazione di cui si discute ai fini della decisione, in quanto la realizzazione del citofono era consentita dalla divisione del 1983; è quindi indifferente il momento in cui l’impianto è stato realizzato o modificato (cfr. ancora pag. 8 della sentenza).
Con il quarto motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato la tardività ed inutilizzabilità della documentazione allegata dal COGNOME NOME alla comparsa conclusionale, nonostante si trattasse di documentazione indispensabile che la parte non aveva potuto acquisire in precedenza, perché detenuta da terze parti.
La censura è inammissibile, in quanto poiché la decisione del Tribunale è del 2013, si applica, ratione temporis , l’art. 345 c.p.c. nel testo modificato per effetto della novella del 2012. Di conseguenza, è fuori luogo il richiamo al concetto di indispensabilità dei documenti tardivamente prodotti (v. pag. 22 ricorso), essendo limitata la produzione di documenti o la proposizione di istanze istruttorie che la parte non dimostri di non aver potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
Sul punto, va data continuità al principio secondo cui ‘La nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., introdotta dal D. L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, che prevede il divieto di ammissione, in appello, di nuovi mezzi di prova e documenti, salvo che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrre per causa non imputabile, trova applicazione, in difetto di un’espressa disciplina transitoria ed in base al generale principio processuale tempus regit actum, quando la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21606 del 28/07/2021, Rv. 661833; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6590 del 14/03/2017, Rv. 643372).
Inoltre, le quattro censure sin qui esaminate sono, nel loro complesso, inammissibili anche perché esse, in realtà, sollecitano un complessivo riesame del fatto e delle prove, precluso in sede di legittimità.
Con il quinto motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 91, 92 c.p.c. e 1295 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente duplicato la condanna del COGNOME NOME alle spese del giudizio di merito, pronunciandola una prima volta in favore degli eredi di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, ed una seconda volta in favore dell’AVV_NOTAIO, procuratore di COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Con il sesto motivo, infine, i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione degli artt. 303, 306 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale non avrebbe dichiarato la contumacia di COGNOME NOME e COGNOME NOME, citati in riassunzione e non costituitisi in modo specifico con nuova comparsa; la Corte di merito, inoltre, avrebbe erroneamente condannato COGNOME NOME alla refusione delle spese anche in favore di COGNOME NOME e COGNOME NOME, che non avevano proposto appello incidentale sul punto e si erano costituiti in appello soltanto con una memoria di stile.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
In particolare, è inammissibile, per difetto di specificità, la censura, contenuta nel quinto motivo, relativa alla presunta duplicazione della condanna alle spese, poiché la parte odierna ricorrente non dimostra che le difese dei due gruppi di convenuti indicati nel motivo anzidetto erano identiche.
Del pari inammissibile è la doglianza, contenuta nel sesto motivo, sulla mancata dichiarazione di contumacia di COGNOME NOME e COGNOME NOME perché la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma
mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa (tra le varie, Sez. 2 – , Sentenza n. 21480 del 19/08/2019).
Parimenti inammissibile è la doglianza secondo cui COGNOME NOME e COGNOME NOME si sarebbero costituiti in seconda istanza con una ‘memoria di stile’ (di cui non si riporta neppure sinteticamente il contenuto) qualsiasi sia il significato che si voglia attribuire a tale espressione. Peraltro, la stessa parte ricorrente deduce che i predetti appellati avevano concluso invocando la conferma della sentenza di prime cure, in tal modo esprimendo in modo non equivoco la loro richiesta. Irrilevante, al riguardo, è il fatto che la parte appellata, dopo essersi costituita invocando il rigetto dell’appello, non svolga ulteriore attività difensiva, poiché ‘Nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate’ (Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 22360 del 30/09/2013, Rv. 627928; conf. Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 11222 del 09/05/2018, Rv. 648580 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4664 del 22/02/2021, Rv. 660707).
Nel resto, le censure in esame sono infondate, in quanto occorre evidenziare che la Corte distrettuale ha parzialmente accolto il motivo di gravame con il quale COGNOME NOME, dante causa degli odierni ricorrenti, aveva contestato la statuizione assunta dal Tribunale in punto di spese, compensandole per la metà in relazione al rapporto processuale corrente tra il medesimo, originario attore, e COGNOME NOME, a fronte della reciproca soccombenza derivante dal rigetto della domanda risarcitoria che era stata proposta dal primo nei confronti del secondo (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). La Corte
di Appello ha poi dato atto che solo con la comparsa conclusionale, e dunque tardivamente, il COGNOME NOME aveva contestato la statuizione sulle spese anche in relazione al rapporto processuale corrente tra lo stesso e gli interventori COGNOME NOME e COGNOME NOME, nei confronti dei quali non era stato proposto specifico motivo di gravame (cfr. sempre pag. 9 del ricorso); ed ha, dunque, confermato la statuizione assunta dal Tribunale in relazione a detto secondo rapporto processuale, evidenziando che la compensazione delle spese trovava giustificazione anche in questo caso dalla reciproca soccombenza, essendo stata rigettata la domanda riconvenzionale che era stata svolta dagli intervenienti in prime cure, ma accertato comunque il loro diritto di eseguire interventi sulla facciata esterna dell’edificio.
Di conseguenza, la Corte di Appello ha regolato le spese del doppio grado soltanto in relazione al rapporto processuale corrente tra COGNOME NOME e COGNOME NOME, compensandole per metà e ponendole per il resto a carico del secondo; mentre ha regolato le sole spese di appello, in relazione alle altre parti appellate, con applicazione del criterio della soccombenza.
Non si configura, quindi, alcuna duplicazione delle spese, poiché COGNOME NOME, NOME, NOME e NOME, unitamente a COGNOME NOME, si erano costituiti in appello con il ministero dell’AVV_NOTAIO, mentre COGNOME NOME si era affidato all’AVV_NOTAIO ed all’AVV_NOTAIO e COGNOME NOME si era invece costituito con l’AVV_NOTAIO (cfr. pagg. 1 e 2 della sentenza impugnata). Corretta, quindi, è la condanna dell’appellante, odierno ricorrente, alla refusione delle spese di appello nei confronti di tutte le parti diverse dal COGNOME NOME, poiché verso le stesse l’appello era stato rigettato.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in favore di ciascuna parte controricorrente, per tali dovendosi intendere, rispettivamente:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, unitariamente considerati, con distrazione in favore dell’AVV_NOTAIO che ne ha fatto richiesta;
COGNOME NOME;
COGNOME NOME.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, come individuate in motivazione, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 2.200,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge, con distrazione in favore dell’AVV_NOTAIO, quanto alle spese sostenute dai propri assistiti, come precisato in motivazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda