Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12626 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12626 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 12450-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata nello studio del primo in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ed
elettivamente domiciliata presso lo studio dei primi due in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
nonchè contro
COGNOME NOME COGNOME NOME
-non costituiti –
avverso la sentenza n. 7710/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata in data 22/11/2021
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 9.6.2009 la RAGIONE_SOCIALE di NOME e RAGIONE_SOCIALE, già Ing. NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, oggi divenuta RAGIONE_SOCIALE, evocava in giudizio la RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Roma, invocando l’accertamento della proprietà di alcuni locali siti nei sotterranei del fabbricato sito in Roma, INDIRIZZO, 36, 37 e 38 e INDIRIZZO. da 11 a 25 compresi, che la società attrice aveva acquistato giusta decreto di trasferimento del Tribunale di Roma del 5.7.1969, in tesi in quanto pertinenze del cespite principale, ed in ipotesi per usucapione. L’attrice deduceva di aver scoperto, nei sotterranei del palazzo di cui anzidetto, alcuni ambienti di epoca romana, con sovrastanti ambienti seicenteschi, aventi rilevanza archeologica, estesi per circa 72 mq. ed alti 4,50 mt., aventi accesso dalla scala sita in corrispondenza del civico INDIRIZZO di INDIRIZZO Cimarra e dalla porta contraddistinta dal civico INDIRIZZO di INDIRIZZO Detti vani erano stati restaurati negli anni ’70 dall’ing. NOME COGNOME come da nota della Soprintendenza Archeologica del 23.11.1977 e come risulta da una
monografia di NOME COGNOME del 1980, tratta dagli atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei – Biblioteca Fondazione Mario COGNOME, ed erano stati poi oggetto di ulteriori interventi di manutenzione e miglioria, con sistemazione della scala di accesso e predisposizione dell’illuminazione, a cura della società attrice, la quale si era anche attivata per difenderli da intrusione di terzi, come da denunce del 4.2.1999 e del 23.5.2000.
Con sentenza n. 2373/2014, resa nella resistenza della società convenuta, il Tribunale accoglieva la domanda, dichiarando l’attrice proprietaria dei locali di cui è causa per usucapione.
Con la sentenza impugnata, n. 7710/20231, la Corte di Appello di Roma accoglieva il gravame proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso la pronuncia di prime cure, riformandola e rigettando la domanda proposta dall’odierna ricorrente. La Corte capitolina riteneva, in particolare, che fosse passata in giudicato, per mancanza di appello incidentale, la statuizione del Tribunale che aveva rigettato la domanda di accertamento della proprietà in funzione del vincolo pertinenziale esistente tra i beni oggetto di causa e l’immobile acquisito all’asta dalla RAGIONE_SOCIALE Riteneva inoltre, sulla base della complessiva valutazione delle risultanze dell’istruttoria, non conseguita la prova del possesso continuo ultraventennale da parte dell’odierna ricorrente e rigettava quindi la domanda di usucapione.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione RAGIONE_SOCIALE affidandosi a cinque motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
NOME COGNOME NOME parti del secondo grado del giudizio di merito, non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 c.p.c. e 1158 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per l’usucapione, non ravvisando il possesso attuale dell’immobile in capo alla società ricorrente, ignorando in tal modo che, in base alle prove acquisite, era stato dimostrato che il possesso si era protratto ininterrottamente dal 1970 al 1990, con conseguente compimento del tempus richiesto dalla norma. La Corte distrettuale, in altre parole, avrebbe del tutto omesso di valutare le risultanze istruttorie che avevano confermato l’esistenza del possesso utile ad usucapionem nel periodo 1970-1990. Ad avviso della società ricorrente, le testimonianze avrebbero dimostrato che RAGIONE_SOCIALE aveva utilizzato i locali oggetto di causa solo a partire dal 1999, data alla quale l’usucapione, in favore di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE si sarebbe già maturata.
Con il secondo motivo, invece, lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché il giudice di secondo grado non avrebbe considerato le circostanze e gli elementi di prova emersi nel corso dell’istruttoria, che avrebbero confermato che l’odierna ricorrente aveva posseduto pacificamente e ininterrottamente i locali oggetto di causa dal 1970 al 1990, maturando così il ventennio necessario per il riconoscimento dell’acquisto della proprietà del bene per usucapione.
Con il terzo motivo, inoltre, la parte ricorrente contesta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento dell’usucapione sulla base di circostanze successive al 2003, e dunque avvenute dopo la maturazione del ventennio di possesso ininterrotto dei beni di cui è causa, tra il 1970 ed il 1990. Inoltre, la Corte capitolina avrebbe erroneamente omesso di dare rilievo alle denunce presentate dalla RAGIONE_SOCIALE negli anni 1990 e 2000, ritenendole irrilevanti; ed avrebbe affermato che la nota della Soprintendenza del 1977 e la monografia del 1980, pur se indicative di una relazione con la cosa, e quindi idonee a farne presumere il possesso, non costituiscono elementi sufficienti ai fini della prova della permanenza nel tempo di tale situazione di fatto, valorizzando un presunto stato di abbandono dei locali di cui si discute, che in realtà non sarebbe stato tale, poiché l’odierna ricorrente li utilizzava come deposito del materiale edile necessario per il restauro dei soprastanti appartamenti compresi nello stabile.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto perché tutte attinenti alla valutazione delle risultanze istruttorie in relazione al rigetto della domanda di usucapione formulata, in subordine, da RAGIONE_SOCIALE, sono inammissibili.
La Corte di Appello, dopo aver ripercorso dettagliatamente le dichiarazioni dei vari testimoni escussi in prime cure (cfr. pagg. 6 e ss. della sentenza impugnata) ha ritenuto che ‘… seppure l’acquisto dei locali per usucapione è asseritamente maturato nel 1990, stante l’iniziale possesso nel 1970, gli stessi, come evidenziato dai testi di parte appellante, si trovavano nel 1999 (teste COGNOME) e, quantomeno, nel 2003 alla data dell’immissione in possesso della società appellante,
in uno stato di abbandono (ingombri di materiale di risulta e di detriti), peraltro (almeno stante le dichiarazioni sul punto del teste COGNOME) così come si presentavano al momento della scoperta. Inoltre, con riguardo allo stato dei luoghi e dunque all’accessibilità o meno di tutti i locali scantinati, la circostanza dell’asserita esistenza di un muro di antichissime origini -situato subito a destra dell’ingresso di INDIRIZZO– che rendeva inaccessibili i locali (indicati con le lettere H ed I) a terzi (e quindi evidentemente anche alla PR.IM.), che peraltro -così come dedotto dalla stessa parte appellata- non era raffigurato nella planimetria catastale allegata dall’appellante, vi sono dichiarazioni contrastanti. Ed infatti, mentre il teste COGNOME ha precisato che l’Arch. COGNOME -uno dei due funzionari del Comune che avevano fatto il sopralluogo- gli aveva riferito che il muro posto sul fondo del locale H era di origine medievale e non di origine romana, diversamente la teste di parte appellante, NOME COGNOME ha riferito che nel 2007 (il muro) era presente, che era stato realizzato con parte di materiale di epoca contemporanea, che ‘non era un muro originario’ e che ‘la sovrintendenza ne consentì l’abbattimento’. Dunque, pur provato che detto muro, indicato come posto a destra dell’ingresso da INDIRIZZO che separava il locale H da quello N – così come indicati (cfr. relazione pag. 20) dal ctu Arch. NOME COGNOME nominato in primo grado per l’espletamento della consulenza – era stato abbattuto nel 2007 dalla società appellante (cfr. sopra dichiarazioni testi COGNOME e COGNOME), tuttavia non emergono risultanze certe dell’epoca in cui detto muro era stato realizzato e, dunque, dell’assunta inutilizzabilità dei locali da parte di terzi poiché il teste COGNOME dell’appellata, ha detto che per quanto riferitogli si trattava di un muro di epoca medievale, la teste COGNOME dell’appellante, invece, ha riferito che non era un muro originario e la sovrintendenza ne aveva autorizzato la
demolizione. Inoltre, sempre la teste COGNOME ha precisato che l’entrata nel locale ‘H’ avveniva tramite l’apertura esistente sopra i vasconi, una volta rimossa l’inferriata, che gli attori in primo grado hanno asserito di avere apposta nell’anno 2000 (dunque successivamente all’asserito acquisto per usucapione). Peraltro, anche con riguardo all’altro lato sempre del locale denominato H, pur essendo emersa la prova (testi COGNOME, COGNOME) della realizzazione di due muri per chiudere il varco esistente tra il locale H e quello L di proprietà RAGIONE_SOCIALE, è stato poi detto (teste COGNOME) che al di là del muro vi era un salto di quota anche superiore al metro, circostanza questa che trova riscontro nella relazione del perito d’ufficio che riferisce sul punto che vi era tra i locali detti un salto di quota di ml. 0,90 benché superabile da tre gradini in muratura riscontrabili sul lato dell’ambiente G (cfr. pag. 17 relazione), gradini questi realizzati, per quanto si legge nell’atto introduttivo, dall’odierna appellata in sostituzione di quelli in legno. Da ciò, oltre a quanto dichiarato dal teste COGNOME secondo cui il locale ‘I’ aveva due aperture e quanto riscontrato dal ctu che (cfr. pag. 18 relazione), con riguardo alla demolizione del muro (sulla parete di fondo dell’ambiente I con l’ambiente Q, di proprietà PR.IM), riferisce che si trattava di una demolizione che tamponava ‘una breccia certamente non recente … che risulta interessare una muratura portante in opera reticolare di antiche origini’, emerge la circostanza che i locali confinanti erano tutti accessibili, sia da INDIRIZZO che da INDIRIZZO e quindi anche i locali H ed I. Orbene, da questa circostanza, unitamente all’altra dello stato di abbandono dei locali al momento dell’acquisto, dunque dalle risultanze tutte acquisite non può ritenersi che l’odierna parte appellata -sulla quale grava l’onere- abbia dato la prova di un possesso continuo di tenere la cosa come propria’ (cfr . pagg. 12, 13 e 14 della sentenza impugnata).
Sulla base di tali considerazioni, fondate sulla valutazione delle risultanze della prova acquisita agli atti del giudizio di merito, la Corte capitolina ha dunque escluso il conseguimento della prova certa del possesso esclusivo, utile ad usucapionem , in capo all’odierna ricorrente. Quest’ultima, nell’attingere tale statuizione, contrappone alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Né si configura alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., dovendosi dare continuità, al riguardo, al principio secondo cui ‘Il dovere imposto al giudice di non pronunciare oltre i limiti della domanda, né di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, non comporta l’obbligo di attenersi all’interpretazione prospettata dalle parti in ordine ai fatti, agli atti ed ai negozi giuridici posti a base delle loro domande ed eccezioni, essendo la valutazione degli elementi documentali e processuali, necessaria per la decisione, pur sempre devoluta al giudice, indipendentemente dalle opinioni, ancorché concordi, espresse in proposito dai contendenti. Al riguardo non è configurabile un vizio di ultrapetizione, ravvisabile unicamente nel caso in cui il giudice attribuisca alla parte un bene non richiesto, o maggiore di quello richiesto’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 702 del 04/03/1968, Rv. 331920; conf. Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16608 del 11/06/2021, Rv. 661686). Non costituisce quindi vizio di ultrapetizione la libera valutazione dei mezzi di prova dedotti dalle parti, relativamente ai fatti sui quali permanga la contestazione tra le medesime, che sia condotta dal giudice di merito nei limiti della questione che è stata sottoposta alla sua cognizione (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15734 del 17/05/2022, Rv. 665101).
Neppure sussiste la denunciata violazione dell’art. 116 c.p.c., poiché essa sussiste soltanto ‘… ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa- secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale),
oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021, Rv. 661360). Nel caso di specie, nessuna delle ipotesi suindicate si è verificata, essendosi la Corte di Appello limitata a fornire una ricostruzione del fatto, ed una interpretazione del compendio istruttorio, evidentemente difforme dalle aspettative della parte odierna ricorrente, avendo peraltro cura di fornire una motivazione non viziata da apparenza, né manifestamente illogica, idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Con il quarto motivo, la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto che il gravame proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contenesse una critica sufficientemente specifica della decisione di prime cure.
La censura è infondata.
Occorre ribadire il principio secondo cui ‘Nel giudizio di appello che non è un novum iudicium- la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici
motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18932 del 27/09/2016, Rv. 641832; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9244 del 18/04/2007, Rv. 597867; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21566 del 18/09/2017, Rv. 645411). Il principio è interpretato, con orientamento ormai consolidato, nel senso che ‘L’onere di specificità dei motivi di appello deve ritenersi assolto quando, anche in assenza di una formalistica enunciazione, le argomentazioni contrapposte dall’appellante a quelle esposte nella decisione gravata siano tali da inficiarne il fondamento logico giuridico’ (Cass. Sez.3, Sentenza n. 18307 del 18/09/2015, Rv. 636741). In senso conforme, cfr. anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25218 del 29.11.2011, Rv. 620524, secondo la quale ‘Ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possono
sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice’ (conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del 12/02/2016, Rv.638551). Detti principi sono stati ribaditi anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno affermato che ‘Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D. L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017, Rv. 645991; conf. Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 13535 del 30/05/2018, Rv. 648722 e Cass. Sez. U, Ordinanza n. 36481 del 13/12/2022, Rv. 666375).
Da quanto precede discende che la Corte di Appello, avendo esaminato, ed accolto, l’impugnazione proposta dall’odierna controricorrente avverso la decisione di prime cure, l’ha evidentemente e correttamente ritenuta sufficientemente specifica. Del resto, in prime cure era stata proposta, dall’odierna ricorrente, una domanda di riconoscimento della proprietà dei locali di cui si controverte, in tesi per il loro rapporto pertinenziale con il bene
principale, di proprietà di RAGIONE_SOCIALE ed in ipotesi per usucapione. Poiché la prima domanda, rigettata dal Tribunale, non era stata coltivata con apposito appello incidentale, come accertato dalla Corte distrettuale, con statuizione non attinta dai motivi di ricorso, è evidente che la questione devoluta al giudice del gravame riguardava soltanto la domanda subordinata di usucapione, che la parte appellante, odierna controricorrente, aveva contestato con il suo gravame principale.
Con il quinto motivo, infine, la società ricorrente si duole della nullità della sentenza ed omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che non fosse contestata la circostanza che RAGIONE_SOCIALE aveva acquistato la proprietà dei locali controversi per effetto del decreto di trasferimento del 17.2.2003; al contrario, secondo la parte ricorrente, tale circostanza era stata sempre contestata, posto che sia il sequestro giudiziario che la consegna operata dal curatore del fallimento dal quale RAGIONE_SOCIALE aveva avuto causa non menzionavano i locali seminterrati oggetto di causa. Tale decisiva circostanza non sarebbe stata considerata dal giudice di seconde cure, che avrebbe ritenuto pacifico un fatto, in realtà, controverso.
La censura è inammissibile.
In conseguenza del mancato raggiungimento, da parte della società odierna ricorrente, della prova certa del possesso utile ad usucapionem dei locali di cui è causa, la stessa non ha alcun interesse a dolersi del fatto che il giudice di appello ne abbia attribuito la proprietà alla società controricorrente. L’accertamento dell’eventuale erroneità di tale affermazione, infatti, non comporta alcun vantaggio, né sostanziale, né processuale, per RAGIONE_SOCIALE la cui domanda è comunque stata rigettata per difetto di prova. Non esiste, infatti, una relazione di alternatività tra la domanda di usucapione e quella di riconoscimento della proprietà, le
quali hanno regime autonomo e sono regolate da diverso regime della prova, e non interferiscono dunque, l’una con l’altra, se non nel caso in cui il convenuto, nell’opporre l’usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l’appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all’epoca in cui assume di avere iniziato a possedere, mentre la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell’attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall’attore (così Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28865 del 19/10/2021, Rv. 662516).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
L’esito del giudizio consente di non esaminare la questione della mancata notificazione del ricorso introduttivo a NOME e COGNOME NOME, parti del giudizio di appello, nei cui confronti sarebbe comunque inutile procedere all’integrazione del contraddittorio, in funzione del principio della ragionevole durata del processo, dovendosi ritenere la fissazione di un termine per procedere ai relativi incombenti, ai sensi dell’art.331 c.p.c., del tutto ininfluente sull’esito del giudizio, in considerazione dell’infondatezza del ricorso (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 21670 del 23/09/2013, Rv. 627449; negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4917 del 27/02/2017, Rv. 644315).
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 6.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda