Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31285 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31285 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 01/12/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 23643/2024 proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, per procura a margine del ricorso, dall’AVV_NOTAIO
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, rappresentata e difesa, come da procura in calce al ricorso, dall’AVV_NOTAIO del RAGIONE_SOCIALE di Perugia;
-controricorrente –
e
COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO del RAGIONE_SOCIALE, giusta procura rilasciata e da intendersi apposta in calce al ricorso;
-controricorrente –
COGNOME NOME ed COGNOME NOME appresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO, in forza di procura speciale;
-controricorrente –
e
COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO -controricorrente –
-avverso la sentenza n. 695/2024 emessa dalla C orte d’appello di Perugia in data 09/10/2024 e notificata il 05/11/2024;
udita la relazione della causa svolta dal AVV_NOTAIO;
FATTI DI CAUSA
COGNOME NOME conveniva in giudizio NOME per sentir ‘accertare e dichiarare la non esistenza del diritto di proprietà e/o di ogni eventuale diverso diritto reale affermato da NOME sulla parte apicale della particella 121 del foglio 134 del catasto terreni del Comune di Città di Castello di proprietà di NOME COGNOME e nel contempo ordinare al convenuto la cessazione di ogni turbativa e molestia del diritto di proprietà dell’attrice sull’indicato bene immobile’.
Nel costituirsi in giudizio, il convenuto proponeva, a sua volta, domanda riconvenzionale al fine di sentir dichiarare l’intervenuto acquisto per usucapione ventennale di una porzione della particella 121 in ragione di una convenzione di permuta del 9.9.1970 e chiedeva chiamarsi in causa, a titolo di garanzia, COGNOME NOME (quale parte della detta convenzione) e gli aventi causa di quest’ultimo COGNOME NOME e COGNOME NOME, i quali poi avevano venduto il bene immobile alla COGNOME.
A seguito di successive chiamate in causa, si costituivano in giudizio, separatamente, COGNOME NOME ed COGNOME NOME (in proprio e quali eredi di COGNOME NOME) e COGNOME NOME (quale erede di COGNOME NOME), deducendo, rispettivamente, la loro estraneità alla lite (non essendo parti della scrittura privata invocata dal convenuto) e che l’appezzamento di terreno per cui era disputa era sempre stato nella piena disponibilità dei loro genitori (avendolo acquistato dal COGNOME il 25.7.1990 e
rivenduto alla COGNOME l’8.9.2001). La seconda, in subordine, chiedeva di essere tenuta indenne dal COGNOME, di cui insisteva per la chiamata in causa. Nel corso del giudizio si costituivano altresì COGNOME NOME ed COGNOME NOME (sempre nella qualità di eredi di COGNOME NOME), riportandosi alle difese svolte dagli altri convenuti e deducendo che il COGNOME non aveva proposto la domanda di garanzia impropria nei loro confronti.
Il Tribunale di Perugia, con sentenza del 5.7.2022, rigettava la domanda riconvenzionale di usucapione del NOME ed accoglieva quella principale della COGNOME, condannando, per l’effetto, il convenuto alla restituzione immediata all’attrice della parte ap icale della part.lla 121, a risarcire i danni dalla medesima sopportati e liquidati in via equitativa nella misura di euro 15.000,00 ed a rimborsare le spese di lite affrontate dalle controparti, compensandole però nei rapporti tra la COGNOME ed i chiamati in causa.
Sull’appello di NOME, la Corte d’appello di Perugia accoglieva in parte il gravame, limitatamente alla domanda risarcitoria proposta dalla COGNOME, sulla base delle seguenti considerazioni:
COGNOME NOME aveva svolto una domanda di negatoria, avendola proposta contro un soggetto che si era affermato proprietario del bene senza, però, averne il possesso;
COGNOME NOME (ed i suoi eredi) e COGNOME NOME erano del tutto estranei alla scrittura privata di permuta del 9.9.1970 invocata dal COGNOME, ragion per cui non si giustificava la loro chiamata in causa a titolo di garanzia;
premesso che l’onere di dimostrare di aver posseduto il bene per oltre venti anni gravava sul NOME, quest’ultimo non aveva fornito la relativa prova, atteso che la detta scrittura privata non era idonea, nulla attestando con riferimento al possesso, ed i testi dell’originario convenuto avevano riferito circostanze generiche e superflue, peraltro contraddette dai testi intimati dalle altre parti (i quali avevano riferito che, al momento – 2001 dell’acquisto della COGNOME, il tratto di terreno oggetto di lite era completamente abbandonato ed incolto e che anche dopo l’acquisto si presentava in uno stato di totale abbandono), che in ogni caso non era stata precisata la durata della coltivazione (ad ogni buon conto non
sufficiente a dimostrare l’esistenza di un possesso ad usucapionem, dovendo la stessa essere svolta uti dominus e, quindi, contro il possessore); d) andava respinta la domanda risarcitoria svolta dalla COGNOME, in quanto il giudice di prime cure l’aveva accolta senza aver previamente delibato sull’esistenza o meno di un danno, laddove il danno emergente era ravvisabile nelle spese di lite sopportate d all’appellata (puntualmente liquidate) e non era configurabile un lucro cessante (essendo risultato il tratto di terreno per molto tempo incolto e non avendolo il convenuto materialmente appreso);
le spese liquidate per il procedimento possessorio (instaurato in corso di causa dal COGNOME) in favore di COGNOME NOME non potevano essere riconosciute, atteso che i danti causa della COGNOME non avevano alcun motivo per resistere in quel giudizio, mentre quelle del giudizio ordinario andavano nuovamente liquidate, dovendosi il valore della controversia ritenersi indeterminabile.
Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME sulla base di quattro motivi. Hanno resistito con separati controricorsi COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME NOME.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce la ‘Violazione dei principi in diritto che presiedono la domanda di rivendicazione (art. 948 c.c.), l’azione negatoria (art. 949 c.c.), la domanda di usucapione (art. 1158 c.c.) e relativi oneri (art. 2697 c.c.), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.’, per aver la Corte d’appello erroneamente, a suo dire, qualificato la domanda attorea come negatoria, anziché di rivendicazione (nonostante, mentre era pendente il giudizio petitorio, la COGNOME lo avesse estromesso manu militari dal possesso della part. 121, a tal punto che il Tribunale di Perugia, in sede di reclamo, con provvedimento del 15.12.2015, aveva accolto la sua domanda di reintegra e la COGNOME era stata condannata in sede penale per il reato di cui all’art. 633 c.p.), e per aver rigettato la sua domanda di usucapione senza considerare che, una volta dimostrato il
corpus possessionis (che aveva avuto inizio contestualmente alla stipula della scrittura del 9.9.1970), l’ animus rem sibi habendi si presumeva (con la conseguenza che l’onere di provare il contrario gravava sulla parte che contestava quell’elemento).
1.1. Il motivo, quanto alla prima doglianza, è inammissibile (per carenza di interesse) e, comunque, infondato.
Gli eventi traslativi della proprietà sul terreno per cui è causa sarebbero, alla luce di quanto esposto dalle parti e nella sentenza qui impugnata, i seguenti:
in data 9.9.1970 (presumibilmente) NOME e COGNOME NOME avrebbero stipulato una ‘convenzione di permuta’ in virtù della quale il primo, a fronte della cessione della parte apicale della part. 121 per cui è disputa, avrebbe acquistato dal secondo la proprietà delle part.lle nn. 119/a e 135/a al fine di realizzare una strada a valle che non passasse davanti alla sua abitazione ed attraversasse il suo cortile;
in data 25.7.1990 i coniugi COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno acquistato dal COGNOME la stessa part. 121;
in data 8.9.2001 i coniugi COGNOME hanno rivenduto il terreno a COGNOME NOME.
Va premesso che, sebbene l’odierno ricorrente abbia affermato che, a fronte di un atto di citazione notificatogli da COGNOME NOME in data 11.1.2013 (cfr. pag. 9 del ricorso), lo spoglio della particella 121 in suo danno sarebbe stato perpetrato dalla COGNOME in pendenza del giudizio petitorio (e, precisamente, nel giugno del 2013; cfr. pag. 13 del ricorso), COGNOME NOME ha controdedotto (cfr. pag. 21 del controricorso) che, in realtà, già a seguito del compimento, da parte della COGNOME, di opere di sistemazione e miglioria nel corso del 2012, il COGNOME le avrebbe inoltrato una missiva lamentandosi, appunto, dell’immissione, asseritamente indebita, nel possesso del terreno. A sua volta, la COGNOME ha riprodotto la detta missiva (cfr. pag. 15 del controricorso), datata 18.7.2012, dalla quale si desume che a quella data la medesima già si era (re)immessa nel possesso della parte apicale del
terreno
Ebbene, a fronte di tali contrastanti ricostruzioni, il COGNOME non si è peritato di trascrivere, almeno nei loro passaggi maggiormente significativi, il ricorso possessorio, l’ordinanza del 15.12.2013 adottata all’esito del reclamo e la sentenza di condanna penale resa dal giudice di pace di Città di Castello, in tal guisa precludendo a questo Collegio la possibilità di scrutinare se, al momento della instaurazione del giudizio petitorio da parte della COGNOME, quest’ultima fosse o no nel possesso del terreno per cui è causa. Ciò assume particolare rilevanza alla luce del fatto che il Tribunale adìto dal NOME con la domanda di spoglio aveva, in formazione monocratica, respinto l’istanza per tardività, questione che (per quanto poi superata in sede di reclamo) difficilmente si sarebbe posta se lo spoglio fosse stato effettivamente perpetrato nel giugno del 2013 (tenuto presente che il ricorso possessorio è stato depositato il 26.6.2013).
1.2. In ogni caso, occorre evidenziare che il rigore della cosiddetta probatio diabolica , la quale comporta l’onere a carico dell’attore in rivendicazione, di provare la proprietà del bene risalendo, anche attraverso i propri danti causa, sino ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, si attenua nel caso in cui il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, nel senso che, in tale ipotesi, il rivendicatore non ha l’onere di provare il diritto dei suoi autori sino ad un acquisto a titolo originario, ma solo che il bene abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto e di quello dei suoi danti causa, sino al proprietario comune autore tra i contendenti (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 518 del 26/01/1982; conf. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 439 del 28/01/1985, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1873 del 07/03/1985, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4556 del 27/08/1985, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 6592 del 11/11/1986).
Pertanto, in tema di rivendicazione il rigoroso onere probatorio cui è soggetto l’attore (cosiddetta probatio diabolica ) – che consiste nella prova della proprietà del bene, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, sino ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento
dell’usucapione, mediante il cumulo dei successivi possessi uti dominus – si attenua, in relazione sia al comportamento ed alla linea difensiva della controparte, sia in tutti quegli altri casi che ne evidenzino l’inutilità, come nell’ipotesi in cui la controversia riguardi un bene che le parti non contestano essere appartenuto ad un dante causa comune ad entrambe (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 8394 del 18/08/1990).
Ne deriva, alla luce della ricostruzione degli eventi riportata sub 1.1., che nessuna rilevanza, sul piano delle ricadute processuali, avrebbe avuto in concreto la configurazione dell’azione proposta dalla COGNOME come di rivendica, anziché negatoria.
1.3. Da ultimo, si sottolinea che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile solo: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum , potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando , in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di error facti , nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020; conf. Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 30770 del 06/11/2023, secondo cui, in materia di ricorso per cassazione, l’individuazione e l’interpretazione del contenuto della domanda, attività riservate al giudice di merito, sono comunque sindacabili, come vizio di nullità processuale ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., qualora l’inesatta rilevazione del contenuto
della domanda determini un vizio attinente all’individuazione del petitum , sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato).
Nel caso in cui venga in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto (riservato, come tale, al giudice del merito), insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 16596 del 05/08/2005; conf. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 15603 del 07/07/2006, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7932 del 18/05/2012, Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 30684 del 21/12/2017).
1.5. Avuto riguardo alle censure concernenti la domanda di usucapione proposta dal COGNOME in via riconvenzionale, le stesse si rivelano infondate. Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del “corpus”, ma anche dell'”animus”; quest’ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà ed in tal caso sul convenuto grava l’onere di dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore mediante un titolo (si pensi ad un contratto di comodato) che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 22667 del 27/09/2017).
Ne deriva che l’elemento soggettivo dell’ animus rem sibi habendi può presumersi, sia pure iuris tantum , solo qualora colui che invoca l’acquisto a titolo di usucapione dimostri di aver svolto per almeno un ventennio attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà.
L’acquisto della proprietà per usucapione dei beni immobili ha per fondamento una situazione di fatto caratterizzata dal mancato esercizio del diritto da parte del proprietario e dalla prolungata signoria di fatto sulla cosa da parte di chi si sostituisce a lui nell’utilizzazione di essa. La pienezza e
l’esclusività di questo potere che soddisfano il requisito dell’univocità del possesso e lo rendono idoneo a determinare il compiersi della prescrizione acquisitiva vanno dal giudice di merito apprezzate e valutate non in astratto, ma con riferimento alla specifica natura del bene, alla sua destinazione economica e produttiva, alle utilità che esso secondo un criterio di normalità è capace di procurare al proprietario ed il cui conseguimento costituisce secondo un analogo criterio il precipuo contenuto delle sue facoltà di godimento (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4807 del 22/04/1992).
In tema di possesso ad usucapionem , non è censurabile in sede di legittimità -ove, come nel caso di specie, congruamente motivato ed immune da vizi giuridici – l’apprezzamento del giudice del merito in ordine alla validità degli eventi dedotti dalla parte al fine di accertare se, nella concreta fattispecie, ricorrano, o no, gli estremi del possesso idoneo ad usucapire (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9106 del 07/07/2000; conf. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 11410 del 11/05/2010, Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 356 del 10/01/2017). In particolare, l’accertamento relativo al possesso ad usucapionem , alla rilevanza delle prove ed alla determinazione del decorso del tempo utile al verificarsi dell’usucapione è devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4035 del 21/02/2007). Orbene, la corte d’appello, con valutazione incensurabile e, comunque, congrua dal punto di vista logico-formale, dopo aver premesso che dalle deposizioni rese dai testi indicati dal COGNOME non si evinceva quale fosse stata la durata del possesso da lui esercitato sul terreno e che occorreva una manifestazione esteriore dalla quale ricavare che il potere di fatto fosse stato svolto contro il possessore, ha, all’esito dell’esame delle deposizioni testimoniali (reputate, peraltro, quanto ai testi dell’appellante, ‘generiche e superflue’), escluso che fosse stato provato l’esercizio, da parte del COGNOME, sia prima che dopo l’acquisto ad opera della COGNOME (2001), di una qualche forma di signoria sulla porzione (incompatibile con il possesso altrui) di terreno oggetto di lite, la quale si presentava come incolta ed in totale
abbandono da anni.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la ‘Violazione dell’art. 115 c.p.c. per travisamento del contenuto oggettivo della prova, sia orale che documentale, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., per non aver la corte d’appello adeguata mente valutato le prove documentali da lui prodotte (la scrittura di permuta del 9.9.1970, le foto depositate nella fase possessoria, l’ordinanza del T ribunale di Perugia in composizione collegiale emessa il 15.12.2015 in sede di reclamo, il rapporto di servizio dei C.C. di Città di Castello del 20.6.2013, la relazione del geom. NOME COGNOME del 21.6.2013 e la sentenza del giudice di pace di Città di Castello del 20.10.2022) e le risultanze della prova testimoniale.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Di recente, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, Sentenza n. 5792 del 05/03/2024) hanno statuito che il travisamento del contenuto oggettivo della prova – che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio -trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c., mentre – se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
Ragion per cui, venendo in considerazione un fatto sostanziale, rappresentato dalle risultanze istruttorie, non è ammissibile la censura sul piano dell’ error in procedendo . In ogni caso, l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa (o meno) del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile nel giudizio di legittimità (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7187 del 04/03/2022).
In secondo luogo, in tema di ricorso per cassazione, può essere dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. qualora il giudice, in contraddizione con la
prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo (ipotesi diversa dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova – non censurabile in sede di legittimità – che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto), a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12971 del 26/04/2022).
Del resto, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1 , n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto che va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021). Nella fattispecie in esame, essendosi in presenza di una cd. doppia conforme e non avendo il ricorrente neppure dedotto che le due decisioni di merito fossero fondate su differenti ragioni inerenti ai fatti, una censura di tal fatta è preclusa.
In definitiva, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio),
mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020; conf. Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021). A ben vedere, il ricorrente sollecita una rivalutazione delle risultanze istruttorie che è preclusa nella presente sede.
Senza tralasciare che, in tema di ricorso per cassazione, l’errore di percezione, in relazione all’art. 115 c.p.c., cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, non può ravvisarsi laddove la statuizione di esistenza o meno della circostanza controversa presupponga un giudizio di attendibilità, sufficienza e congruenza delle testimonianze, che si colloca interamente nell’ambito della valutazione delle prove, estranea al giudizio di legittimità (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 25166 del 08/10/2019). Invero, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. E’, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 21187 del 08/08/2019).
In conclusione, l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le
deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016; conf. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 19011 del 31/07/2017 e Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 29404 del 07/12/2017).
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della ‘Nullità della sentenza ex art. 132, n. 4, c.p.c. per erronea ricognizione della fattispecie concreta in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.’, per non comprendersi, a suo dire, quale sia stata effettivamente la ratio decidendi sottesa alla pronuncia impugnata.
3.1. Il motivo è infondato.
E’ ormai noto come le Sezioni Unite (sentenza n. 8053 del 2014) abbiano fornito una chiave di lettura della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, nel senso di una riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione, con conseguente denunciabilità in cassazione della sola “anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motiva zione. E’ stato altresì precisato che (in termini, Cass. n. 2876 del 2017) che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111, sesto comma, Cost.), e cioè dell’art. 132, sesto comma, n. 4, c.p.c. (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i
motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (cfr. Cass. nn. 2876/2017 e 1461/2018).
Ebbene, nel caso di specie, la sentenza qui impugnata si pone senz’altro al di sopra del cd. minimo costituzionale, atteso che, con argomentazioni congrue dal punto di vista logico-formale e corrette sul piano giuridico, dopo aver premesso che l’onere di d imostrare di aver posseduto il bene per oltre venti anni gravava sul NOME, ha evidenziato che quest’ultimo non aveva fornito la relativa prova, non essendo la detta scrittura privata idonea, nulla attestando con riferimento al possesso, ed avendo i suoi testi riferito circostanze generiche e superflue, peraltro contraddette dai testi intimati dalle altre parti (i quali avevano riferito che, al momento – 2001 dell’acquisto della COGNOME, il tratto di terreno oggetto di lite era completamente abbandonato ed incolto e che anche dopo l’acquisto si presentava in uno stato di totale abbandono), non tralasciando, peraltro, che in ogni caso non era stata precisata la durata della coltivazione (ad ogni buon conto non sufficiente a dimostrare l’esistenza di un posses so ad usucapionem , dovendo la stessa essere svolta uti dominus e, quindi, contro il possessore)
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la ‘Violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.’, per non aver la corte d’appello regolato ex novo le spese di prime cure, nonostante la riforma parziale della sentenza di primo grado, e non aver disposto la compensazione delle spese relative al giudizio d’appello, nonostante l’accoglimento parziale della sua impugnazione.
4.1. Il motivo è infondato.
La C orte d’appello ha nuovamente regolamentato le spese di lite sulla base dei seguenti criteri:
ha escluso le spese liquidate in primo grado in favore di COGNOME NOME per il procedimento possessorio, non avendo i danti causa della COGNOME (tra cui la predetta) alcun motivo o legittimazione per resistere in quel procedimento;
sulla premessa che il valore della controversia era da ritenersi indeterminabile, ha ritenuto che quelle riconosciute in favore di COGNOME NOME, di COGNOME NOME e di COGNOME NOME fossero perfettamente conformi al d.m. 10.3.2014, allineando allo stesso importo quelle spettanti ad COGNOME NOME.
Da quanto precede deriva, in primo luogo, che, all’esito del parziale accoglimento dell’appello proposto dal COGNOME (avuto riguardo alla domanda risarcitoria proposta dalla COGNOME, considerata infondata), la corte territoriale ha regolamentato nuovamente anche le spese relative al primo grado di giudizio, pur confermando (fatta eccezione per COGNOME NOME) gli importi riconosciuti dal tribunale. Ciò è confermato dal dispositivo finale, nel quale ha, da un lato, rideterminato le spese riconosciute in primo grado ad COGNOME NOME e, dall’altro lato, confermato per il resto (ivi compreso, quindi, il governo delle spese) la sentenza impugnata.
In secondo luogo, premesso che la doglianza concernente la compensazione delle spese relative al secondo grado del giudizio può riguardare solo i rapporti tra il COGNOME e la COGNOME (essendo solo quest’ultima risultata soccombente quanto alla domanda risarcitoria), va ricordato che, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 24502 del 17/10/2017).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso non merita di essere accolto.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio, che si liquidano, in favore di ciascuna parte controricorrente, in € 2.500,00 per compensi ed € 200,00 per spese, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, Iva e Cap, con distrazione delle spese dovute alla COGNOME a favore dell’AVV_NOTAIO, dichiaratosi antistatario;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi in data 25.11.2025.
Il Presidente
AVV_NOTAIO NOME COGNOME