Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 196 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 1 Num. 196 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 18936/2017 R.G . proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , domiciliato in Roma INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende ex lege -controricorrente- avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6822/2016 depositata il 12.11.2016,
sentito il Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso, richiamando le conclusioni scritte depositate, sentiti per la parte ricorrente gli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME quest’ultimo in forza di delega dell’Avvocato NOME COGNOME
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.12.2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Un lodo arbitrale del 21.9.1993 condannò la Regione Siciliana subentrata con la legge n. 195 del 1991 al Presidente del Consiglio dei Ministri nella gestione fuori-bilancio già istituita presso la Tesoreria Provinciale dello Stato, nell’ambito di un piano straordinario d’interventi per le città di Palermo e Catania in base alla concessionecontratto dell’8.4.1988 – in favore della RAGIONE_SOCIALE, subentrata in seguito a varie vicende di fusione e incorporazione all’RAGIONE_SOCIALE, al pagamento della somma di £ 33.203.739.610.
Con sentenza dell’1.9.2009 il Tribunale di Roma rigettò l’opposizione proposta dal Ministero dell’Economia e Finanza ( breviter : MEF) -Ispettorato Enti disciolti – quale referente per la liquidazione delle gestioni fuori bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri dopo la chiusura delle gestioni affidate ai Sindaci di Palermo e Catania – al decreto ingiuntivo richiesto da RAGIONE_SOCIALE ed emesso il 14.5.2003 con il quale era stato ingiunto al MEF di pagare la somma di € 29.673.257,78.
Il lodo del 21.9.1993, posto a fondamento del suddetto decreto ingiuntivo, era stato dichiarato nullo dalla Corte d’appello di Roma con sentenza n.2615 del 5.7.1996, che era stata impugnata innanzi
alla Corte di Cassazione e da questa cassata con rinvio con la sentenza n. 12662 del 17.12.1998.
Avverso la sentenza del Tribunale del 2009 propose appello il MEF in contraddittorio con RAGIONE_SOCIALE
Con sentenza del 12.11.2016, la Corte d’appello accolse l’opposizione, revocando il decreto ingiuntivo, in quanto la mancata riassunzione del giudizio di impugnazione del lodo, a seguito della cassazione con rinvio disposta in sede di legittimità con la suddetta sentenza n. 12622 del 1998, aveva fatto perdere al lodo qualsiasi effetto.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso in cassazione avverso la predetta sentenza con due motivi, illustrati con memoria.
Il MEF ha resistito con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria n.21300 del 19.7.2023 la Corte ha disposto il rinvio alla pubblica udienza, ravvisando due questioni di particolare rilevanza implicate nella decisione del ricorso.
Il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria illustrativa.
La causa è stata discussa e trattenuta a decisione nella pubblica udienza del 21.12.2023.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 324, cod.proc.civ., 2909 cod.civ., e si lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto ammissibile, sebbene privo di specificità, il motivo d’appello con cui il Ministero aveva impugnato la decisione del giudice di primo grado nella parte in cui aveva stabilito l’inammissibilità per la tardività dell’eccezione di nullità del lodo arbitrale del 1993, con conseguente violazione del giudicato interno su tale pronuncia.
Al riguardo, e più in particolare, la ricorrente lamenta che il Ministero solo con la comparsa conclusionale in primo grado abbia allegato una serie di nuove circostanze di fatto relativamente alla questione della nullità del suddetto lodo arbitrale, senza chiedere la rimessione in termini e senza indicare e dimostrare le ragioni della non imputabilità della tardività della suddetta eccezione; la ricorrente aggiunge che il MEF con l’appello non aveva specificamente contestato la statuizione del Tribunale sull’inammissibilità dell’eccezione di nullità del lodo per tardività, limitandosi a rilevare l’omessa pronuncia sull’eccezione.
Al proposito questa Corte nell’ordinanza interlocutoria ha osservato che la questione riguardava l’ammissibilità dei documenti prodotti dal Ministero controricorrente in primo grado con il deposito della comparsa conclusionale, oggetto del secondo motivo del ricorso.
La Corte ha ricordato poi che, secondo un recente orientamento, nel giudizio di appello il potere del giudice di ammettere una prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, non può essere esercitato rispetto a prove già in prime cure dichiarate inammissibili, perché dedotte in modo difforme dalla legge, o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto o per la cui deduzione siano maturate preclusioni, le quali non possono essere qualificate prove nuove (Sez. 3, n. 11804 del 5.5.2021; Sez. 2, n. 12574 del 10.5.2019).
La Corte ha aggiunto altresì che secondo altro orientamento, propugnato dalle Sezioni Unite (Sez.Un. n. 10790/17; n. 24129/18), nel giudizio di appello costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, quella di
per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado.
La Corte ha quindi ritenuto meritevole della pubblica udienza la discussione della questione, poiché i due citati orientamenti giurisprudenziali valutavano diversamente la tardiva, pur colpevole, produzione in primo grado di documenti utilizzati per la decisione, attribuendo un diverso rilievo all’inosservanza delle preclusioni contemplate in primo grado e poiché nel caso concreto, la Corte d’appello aveva ritenuto ammissibile l’eccezione di nullità del titolo posto a fondamento della domanda, cioè il lodo, sollevata tardivamente in primo grado e corredata da documentazione ritenuta indispensabile ai fini della decisione, senza attribuire rilievo alla preclusione formatasi in primo grado.
È opportuno preliminarmente mettere bene a fuoco la vicenda processuale.
La ricorrente assume che solo con la comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado del 26.4.2009 il MEF ha sollevato per la prima volta la questione della nullità del lodo del 1993 in ragione della mancata riassunzione del giudizio di impugnazione, dopo che la Corte di Cassazione con sentenza n.12622 del 1998 aveva dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario e aveva cassato la sentenza n.2615 del 1996 della Corte di appello di Roma, dichiarativa della nullità del lodo.
Effettivamente, come osserva la ricorrente, la predetta eccezione di nullità e la contestuale produzione documentale di supporto non erano state accompagnate da richiesta di rimessione in termini e
neppure dall’indicazione delle ragioni giustificatrici della tardività di tali attività processuali.
Quanto esposto dalla ricorrente a pagina 10 sub D) del ricorso trova riscontro nella comparsa conclusionale del MEF nel giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Roma, allegata al ricorso sub 2).
Il Ministero, pur producendo solamente la sentenza n.25615/1996 della Corte di appello di Roma, dichiarativa della nullità del lodo (vedi nota in calce all’atto, pag.11, che fa riferimento esclusivamente a quel documento), ha sostenuto non solo che la Corte di appello con la citata sentenza aveva dichiarato la nullità del lodo per carenza di potere giurisdizionale degli arbitri, ma anche che la Cassazione, adita dalla RAGIONE_SOCIALE, incorporante di RAGIONE_SOCIALE, aveva cassato la sentenza n.25615/1996 predetta con la sentenza n.12622 del 1998, ritenendo la giurisdizione del giudice ordinario e rinviando la causa alla Corte di Roma, dinanzi alla quale il giudizio tuttavia non era stato riassunto; ed ancora, che RAGIONE_SOCIALE aveva intimato atto di precetto opposto dal Presidente della Regione Sicilia dinanzi al Tribunale di Palermo, che aveva annullato il precetto con sentenza n.4037 del 2002, appellata con giudizio tuttora pendente.
La ricorrente ha ricordato che il Tribunale nella sentenza di primo grado aveva dato atto del fatto che la richiesta era stata formulata solo in comparsa conclusionale ed aveva affermato che essa era stata tardivamente e inammissibilmente proposta in causa.
Per la necessaria maggior precisione (cfr ricorso, pag.12; sentenza n.17784/2009 del Tribunale di Roma, doc. allegato sub 3 dalla ricorrente, pag.12) il Tribunale ha affermato che il MEF in comparsa conclusionale aveva eccepito la nullità del lodo « per adottata sentenza della Corte di appello di Roma n.2615/1996 » e ha aggiunto che quello di parte opponente sembrava « più un argomento a sostegno delle tesi difensive svolte, ma in ogni caso lo
stesso risulta del tutto tardivamente prodotto in lite e come tale inammissibilmente proposto ».
Il MEF ha proposto appello sul punto con il suo terzo motivo (cfr atto di appello prodotto come doc. sub 4 allegato al ricorso), ripetendo le stesse sopracitate allegazioni della comparsa conclusionale, ma aggiungendo anche che la sentenza del Tribunale di Palermo, che aveva annullato il precetto spiccato da RAGIONE_SOCIALE era stata confermata dalla Corte di appello di Palermo con sentenza n.1355 del 2009.
Questi documenti non risultano allegati all’atto di appello, opportunamente prodotto dalla ricorrente, o almeno questo non ne fa alcuna menzione.
Dalla sentenza impugnata (pag.4) risulta infine che la Corte di appello ha preso in considerazione tutta una serie di provvedimenti giudiziari e cioè non solo la sentenza della Corte di appello di Roma n.2615/1996 di annullamento del lodo, ma anche la sentenza di cassazione con rinvio di questa Corte n.12622/1998, l’opposizione ad atto di precetto da parte della Regione Sicilia decisa con sentenza n.4037/2002 del Tribunale di Palermo di nullità del precetto per inesistenza del titolo, la sentenza n.1355/2009 della Corte di appello di Palermo, reiettiva del gravame, e financo la sentenza n.6188/2014 della Corte di Cassazione di definitivo rigetto del ricorso (questa neppure menzionata nell’atto di appello).
La decisione della Corte romana al proposito, pur assai sintetica, non è per questo meno chiara.
Secondo la Corte:
l’eccezione di nullità era ammissibile e lo era anche nel giudizio di primo grado, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, perché volta a contestare la validità del titolo posto a base della pretesa;
la documentazione prodotta era ammissibile nel giudizio di secondo grado, ai sensi dell’art.345, comma 3, cod.proc.civ.,
applicabile ratione temporis , perché indispensabile ai fini della decisione;
il motivo, pur discorsivo, conteneva una critica adeguata e specifica;
nella sostanza il MEF aveva lamentato che fosse stata ignorata la sua deduzione di nullità del titolo azionato da Fintecna, eccezione sollevata appena il Ministero ne aveva avuto conoscenza.
Nell’affermare la formazione di un giudicato interno, con il primo motivo di ricorso RAGIONE_SOCIALE si concentra essenzialmente sulla asserita inammissibilità del terzo motivo di appello del Ministero, perché volto a dedurre una omessa pronuncia e consistente in una doglianza assolutamente generica, priva di riscontri fattuali e slegata dalla motivazione di tardività contenuta nella sentenza di primo grado.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, gli artt. 342 e 434 cod.proc.civ., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Sez. U, n. 36481 del 13.12.2022; Sez. U, n. 27199 del 16.11.2017).
Allorché si discuta in cassazione della ammissibilità o della inammissibilità di un motivo di appello (la giurisprudenza prevalente riguarda il caso speculare in cui la parte impugna la dichiarazione di inammissibilità del motivo da parte del giudice di
appello), la parte interessata, rimasta soccombente, che ricorre in cassazione contro tale sentenza, ha l’onere di denunziare l’errore in cui è incorsa la sentenza gravata e di dimostrare che il motivo d’appello, ritenuto non specifico, aveva invece i requisiti richiesti dell’art. 342 cod.proc.civ. ovvero che il motivo ritenuto specifico invece non lo era (Sez. 3, n. 18776 del 4.7.2023; Sez. 2, n. 21514 del 20.8.2019).
Inoltre l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche puntualmente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, dovendo tale specificazione essere contenuta, a pena d’inammissibilità, nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di precisare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto al giudice d’appello, riportandone il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità, non potendo limitarsi a rinviare all’atto di appello. (Sez. 1, n. 24048 del 6.9.2021; Sez. L, n. 3612 del 4.2.2022).
In questi casi oggetto del giudizio di legittimità non è la sola argomentazione della decisione impugnata, bensì sempre e direttamente l’invalidità denunciata e la decisione che ne dipenda, anche quando se ne censuri la non congruità della motivazione; di talché in tali casi spetta al giudice di legittimità accertare la sussistenza del denunciato vizio attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità
dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. (Sez. 5, n. 27368 del 1.12.2020).
Nella specie RAGIONE_SOCIALE ha assolto il proprio onere riproducendo nel ricorso la statuizione di primo grado impugnata e il motivo di appello del Ministero, che del resto è stato richiamato anche nella sentenza impugnata.
Il motivo è quindi ammissibile, ma non è fondato.
Infatti il MEF con il terzo motivo di appello, a prescindere dalla denuncia di omessa pronuncia, certo impropriamente evocata, visto che il Tribunale si era pronunciato sulla sua eccezione, sia pure in rito, manifestando preliminarmente un dubbio ontologico (nel senso che fosse una mera argomentazione) e comunque ritenendola tardiva e inammissibile, aveva rivolto alla statuizione, anche e soprattutto, una critica sostanziale, ben percepita dalla Corte capitolina, laddove aveva rimproverato al Tribunale di non aver colto che la pretesa creditoria azionata da RAGIONE_SOCIALE si basava proprio sul lodo arbitrale annullato dalla Corte di appello di Roma con la sentenza n.2615/1996 e aveva dedotto che la questione era stata proposta quando era stata conosciuta dal Ministero, che non era parte del giudizio introdotto con il lodo arbitrale.
In altri termini, il MEF, sia pur molto sinteticamente, ma inequivocabilmente, aveva sostenuto che le sue deduzioni non erano inammissibili e tardive perché relative alla nullità del titolo azionato a fondamento della pretesa avversaria e perché proposte quando il relativo sostrato fattuale era pervenuto a sua conoscenza.
Il Collegio condivide perciò l’opinione del Procuratore generale secondo cui con il motivo di appello il MEF lamentava che il Tribunale, nel pronunciare la tardività dell’eccezione di nullità del lodo arbitrale, non aveva tenuto conto del fatto che il Ministero solo nel corso del giudizio di primo grado aveva potuto prender
conoscenza della inesistenza del lodo arbitrale, acclarata in giudizi a cui esso non aveva preso parte.
In tal modo il Ministero appellante si doleva che la dichiarazione di tardività dell’eccezione non avesse considerato la sopravvenienza della conoscenza del relativo substrato fattuale solo in epoca successiva agli ordinari termini di preclusione e lamentava che il Tribunale si fosse fermato al rilievo dell’inammissibilità di tale eccezione, senza affrontarne la fondatezza nel merito.
Pertanto, non può parlarsi di difetto di specificità del motivo di appello relativo alla inesistenza del lodo arbitrale.
Trattandosi di eccezione relativa alla nullità del titolo posto a fondamento del decreto ingiuntivo opposto, essa poteva essere formulata anche in grado di appello -ove non coperta dal giudicato interno (il che si è poc’anzi escluso) quale eccezione rilevabile officiosamente, ex art. 345, comma 2, cod.proc.civ.
Quindi condivisibilmente la Corte romana ha ravvisato l’esistenza di una critica sufficientemente adeguata e specifica della decisione impugnata che le consentiva di percepire chiaramente la portata della censura.
Vi è da aggiungere sulla scorta delle considerazioni sopra sviluppate che l’eccezione di nullità proposta in primo grado dal MEF poggiava su di un sostrato fattuale parzialmente diverso (e ridotto), in quanto integrato nell’apparato argomentativo della sentenza impugnata sia dalla circostanza del rigetto dell’appello da parte della Corte di Palermo avverso la sentenza del Tribunale di Palermo che aveva annullato l’atto di precetto (aggiunto solo in secondo grado dal MEF), sia dalla circostanza della conferma di tale sentenza da parte della Cassazione con sentenza n.6188/2014 (evidenziata dalla sentenza qui impugnata e non indicata in atto di appello).
Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, comma 1,
n.4, cod.proc.civ., perché la Corte territoriale aveva prima affermato che l’eccezione di nullità del lodo avrebbe dovuto essere considerata ammissibile già in primo grado, e poi aveva ritenuto ammissibile in appello la stessa eccezione in quanto fondata su documentazione indispensabile ai fini della decisione.
In particolare, la ricorrente assume che la Corte d’appello non avrebbe potuto rilevare la suddetta nullità, data la preclusione del giudicato interno; non avrebbe potuto rilevare d’ufficio tale nullità, avendo l’eccipiente omesso di allegare i fatti posti a sostegno dell’eccezione, e senza la deduzione della non colpevole omessa tempestiva formulazione dell’eccezione di nullità; la Corte territoriale, inoltre, non aveva chiarito la natura della documentazione ritenuta indispensabile per la decisione, che era verosimilmente rappresentata da quella depositata dal Ministero, e aveva ritenuto indispensabile la documentazione prodotta tardivamente, così sanando, senza giustificato motivo, le preclusioni maturate.
In disparte la questione del preteso giudicato interno, già esaminata supra , non convince la censura rivolta dalla ricorrente alla decisione della Corte circa la tempestività della deduzione della nullità del lodo, che appare ineccepibile e suscettibile di rilievo anche officioso, come rimarca il Ministero controricorrente, purché i fatti risultino ex actis, trattandosi di eccezione in senso lato.
Ancora recentemente è stato ribadito che le nullità negoziali che non siano state rilevate d’ufficio in primo grado sono suscettibili di tale rilievo in grado di appello o in cassazione, a condizione che i relativi fatti costitutivi siano stati ritualmente allegati dalle parti (Sez. 3, n. 20713 del 17.7.2023), in conformità al consolidato insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha sempre
facoltà di procedere ad un siffatto rilievo (Sez. U, n. 26242 del 12.12.2014).
Gli stessi principi non possono non valere anche per un titolo di formazione giudiziale, qual è un lodo rituale dichiarato esecutivo e impugnato giudizialmente.
La ricorrente ravvisa contraddittorietà fra le due statuizioni della Corte in ordine alla tempestività dell’eccezione in senso lato e in ordine alla produzione del documento in appello, ma anche questa recriminazione critica non persuade.
Le due affermazioni hanno infatti diversi oggetti, ossia la tempestività dell’eccezione e l’indispensabilità della produzione documentale di supporto.
In ogni caso, la Corte di appello non si è affatto pronunciata sulla ammissibilità della produzione documentale in primo grado, perché, adottando, implicitamente il criterio della ragion più liquida, ha ritenuto che la produzione fosse indispensabile ai fini della decisione, astenendosi così da qualsiasi affermazione sulla causa giustificativa prospettata dal MEF con il motivo di appello (ignoranza dell’esistenza della documentazione per la sua estraneità al processo in cui si era formata).
Le osservazioni critiche della ricorrente, secondo la quale la precedente dichiarazione di inammissibilità della produzione documentale non avrebbe consentito l’ingresso in appello dei documenti come indispensabili ai fini della decisione, appaiono fuori fuoco rispetto alla vicenda processuale per due distinte e concorrenti ragioni.
In primo luogo, il Tribunale, giudice di primo grado, non ha affatto dichiarato inammissibile la produzione documentale effettuata dal Ministero in primo grado e infatti ha preso posizione solo sull’eccezione, peraltro misconosciuta come tale e comunque considerata tardiva e inammissibile.
Infatti il brano sopra riportato della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma n.17784/2009 ignora del tutto il profilo relativo alla produzione del documento, che, a quanto risulta dalla documentazione allegata al ricorso e in particolare dalla ridetta comparsa conclusionale di primo grado del MEF, opportunamente allegata al ricorso, era comunque solo la sentenza della Corte di appello di Roma n.2615 del 1996.
In secondo luogo, mentre in primo grado la produzione effettuata dal Ministero era limitata alla sentenza della Corte di appello di Roma n.2515/1996 di annullamento del lodo, la sentenza della Corte di appello qui impugnata (pag.4) fa riferimento a numerosi provvedimenti giudiziari e a varie risultanze processuali, in parte allegati nella narrativa d’appello del MEF: come si è detto la sentenza di cassazione con rinvio di questa Corte n.12622/1998, l’opposizione ad atto di precetto da parte della Regione Sicilia decisa con sentenza n.4037/2002 del Tribunale di Palermo di nullità del precetto per inesistenza del titolo, la sentenza n.1355/2009 della Corte di appello di Palermo reiettiva del gravame e la sentenza n.6188/2014 della Corte di Cassazione di definitivo rigetto del ricorso.
Si tratta peraltro di circostanze oggettive che la stessa parte ricorrente enuncia analiticamente nei § 2 e 3 del suo ricorso alle pagine da 5 a 7, in cui descrive i presupposti fattuali dell’azione e in cui fa ampi riferimenti agli altri due giudizi implicati dalla vicenda e connessi al procedimento in cui è stata resa la sentenza impugnata (il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale e l’opposizione ad atto di precetto al Presidente della Regione Sicilia). La Corte territoriale non ha dato conto da dove abbia attinto la propria conoscenza degli atti e delle vicende indicate a pagina 4 per riassumere « i principali passaggi procedurali della complessa vicenda », non si è espressamente riferita a tal fine a documenti prodotti e può benissimo aver fatto riferimento a circostanze
riferite dalle parti o provate dalle parti nel corso del processo o ancora ritenute non contestate.
La statuizione di indispensabilità espressa a pagina 3 della sentenza impugnata si riferisce infatti genericamente alla « documentazione che la supporta », senza spiegare chi e quando l’avesse introdotta in giudizio e soprattutto quale fosse.
Al riguardo tuttavia non è dato cogliere nel ricorso censura specifica e puntuale , integrata dall’indicazione degli specifici documenti censurati, dalla loro «localizzazione» in atti e delle specifiche circostanze della loro acquisizione al giudizio (che, come si è detto, non risulta essere a corredo della comparsa conclusionale MEF di primo grado).
Il punto è comunque che il fondamento della decisione impugnata riposa sul fatto che il giudizio di impugnazione del lodo non era stato riassunto dopo la sentenza della Cassazione, cosa questa che la ricorrente neppure contesta in linea fattuale, e non già sul fatto che in precedenza la Corte di appello di Roma con la sentenza cassata n.2615/1996 avesse annullato il lodo (unica circostanza documentata dal MEF con la comparsa conclusionale di primo grado).
La decisione della Corte di appello appare dunque corretta alla luce dello stabile orientamento delle Sezioni Unite, secondo cui nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Sez.
U, n. 10790 del 4.5.2017; conformi, Sez.1 n.24164 del 13.10.2017; Sez,2, n.24129 del 3.10.2018).
Giova ricordare che l’attuale testo del comma 3 dell’art.345 cod.proc.civ. secondo cui « Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio » è stato introdotto dall’art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7.8.2012, n. 134, che ha soppresso, in sede di conversione, le parole « che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero », che seguivano le parole « Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo ». Il comma, precedentemente era stato modificato dall’art. 46, comma 18, della l. 18.6.2009, n. 69, con la decorrenza e la relativa disciplina transitoria indicate sub art. 132. Ai sensi dell’articolo 58, comma 2, della l. n. 69 del 2009, la disposizione, come modificata, si applica ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della medesima legge.
Al presente procedimento, iniziato nel 2003, si applica, come non è contestato e come ritenuto dalla Corte di appello, il testo dell’art.345, comma 3, anteriore alle modifiche del 2012 e quindi la clausola di salvaguardia della produzione.
20. Il Collegio condivide quindi, nel solco della giurisprudenza delle Sezioni Unite, il parere del Procuratore generale secondo cui il fatto stesso che nel vigore della disciplina previgente l’indispensabilità del documento costituisce requisito, necessario e sufficiente, per la producibilità in appello, indipendentemente dalla accertata impossibilità di produzione in primo grado, la quale integrava una diversa e alternativa ipotesi di nuova producibilità, dimostrava che -nella suddetta ipotesi di indispensabilità – a nulla rilevava che tale
impossibilità non sussistesse e che la parte, pertanto, tale documento avrebbe già potuto produrre in primo grado.
Altrettanto convincente appare l’argomentazione del Procuratore generale, secondo cui diversamente ragionando, si attribuirebbe alla riforma del 2012 un significato non innovativo, bensì meramente interpretativo del precedente testo dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ.
Il nuovo testo dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., ove letto diversamente da come sopra argomentato, sarebbe, infatti, sostanzialmente inutile.
E cioè, esigendosi sempre, anche nel testo previgente, l’impossibilità della precedente produzione in termini, non si comprende dove risiederebbe la diversità di disciplina fra tale testo e quello attuale. Anzi, paradossalmente, il nuovo testo dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., sarebbe più permissivo del testo previgente. Infatti, attualmente , valutata l’impossibilità di produzione in termini, un nuovo documento sarebbe sempre producibile in appello, anche se non indispensabile. Per contro, secondo il testo previgente, considerando che il documento, oltre ad essere nuovo e non precedentemente producibile, doveva essere anche indispensabile, le maglie dell’ammissione in appello sarebbero più strette di quelle ora vigenti.
21. Il dubbio alimentato dalla ordinanza interlocutoria non ha ragion d’essere con riferimento alla pronuncia della Sez. 2, n. 12574 del 10.5.2019 che ha riaffermato i principi enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui la produzione di nuovi documenti in appello è ammissibile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ. nella formulazione successiva alla novella attuata mediante la l. n. 69 del 2009, a condizione che la parte dimostri di non avere potuto produrli prima per causa a sé non imputabile ovvero che essi, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del
primo grado, siano indispensabili per la decisione, purché tali documenti siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio, salvo che la loro formazione sia successiva e la loro produzione si renda necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo; tale produzione è, però, comunque preclusa una volta che la causa sia stata rimessa in decisione e non può essere pertanto effettuata in comparsa conclusionale.
L’ordinanza n. 11804 del 5.5.2021 della Sez.3 afferma effettivamente che nel giudizio di appello il potere del giudice di ammettere una prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non può essere esercitato rispetto a prove già in prime cure dichiarate inammissibili, perché dedotte in modo difforme dalla legge, o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto o per la cui deduzione siano maturate preclusioni, le quali non possono essere qualificate prove «nuove»; questa pronuncia si raccorda a un passaggio della sentenza n.10790 del 2017 delle Sezioni Unite, non massimato, secondo cui « in nessun caso il potere del giudice d’appello di ammettere la prova indispensabile potrebbe essere esercitato riguardo a prove già in prime cure dichiarate inammissibili perché dedotte in modo difforme dalla legge o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto a seguito di particolari vicende occorse nel giudizio di primo grado, non essendo queste – a rigori – neppure prove nuove ».
La ricorrente, anche in discussione orale, si è rifatta a tale orientamento per sostenere la sussistenza della preclusione nel caso di specie, perché la produzione giudicata indispensabile in appello, era stata sanzionata come inammissibile in primo grado.
22. L’assunto di RAGIONE_SOCIALE non può essere recepito, a prescindere dal suo discusso fondamento giuridico, perché non aderente alla fattispecie.
In primo luogo, in questo caso sussiste solo una produzione effettuata in primo grado (quella della sentenza della Corte di appello n. 2615/1996) che non è stata valutata dal Tribunale, che non l’ha dichiarata inammissibile (essendosi invece riferito alla «argomentazione- eccezione» e non al documento).
In secondo luogo, non vi è specifica deduzione del ricorso della produzione di altri documenti relativi alla vicenda processuale, produzione che non risulta specificamente individuata neanche dalla sentenza impugnata che si limita a dar conto della vicenda processuale ricostruita (e peraltro conforme a quella descritta dalla stessa ricorrente in ricorso).
In terzo luogo, il riferimento della sentenza impugnata alla documentazione indispensabile ai fini della decisione è molto generico e la parte ricorrente non ha riferito se, come e quando tali produzioni fossero state eseguite.
In quarto luogo, e soprattutto, la decisione si fonda essenzialmente (cfr pag.4 e 5 della sentenza impugnata) non già sull’annullamento del lodo da parte della prima decisione della Corte romana n.2615 del 1996, ma sulla diversa circostanza della mancata riassunzione del giudizio di impugnazione del lodo dopo la sentenza della Corte di Cassazione, fatto peraltro pacifico in causa e che anzi risulta espressamente oggetto di discussione de jure tra le parti circa le conseguenze giuridiche che ne scaturivano (caducazione radicale del lodo ex art.310 cod.proc.civ., patrocinata dal MEF e accolta dalla Corte capitolina, ovvero reviviscenza degli effetti negoziali del lodo sostenuta dall’attuale ricorrente).
23. In sintesi, nella specie non risulta nessuna prova dedotta in modo difforme dalla legge e il MEF ha effettuato una produzione documentale a supporto di una eccezione di nullità
tempestivamente proposta in quanto eccezione in senso lato, prima in chiusura del giudizio di primo grado e poi in appello, indispensabile ai fini del decidere.
La tesi della ricorrente porterebbe, reintroducendo il doppio requisito cumulativo della incolpevolezza della mancata produzione in primo grado e della indispensabilità della prova, alla lettura sistematica rinnegata dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2017.
In ogni caso la ratio decidendi si fonda su di una circostanza (la mancata riassunzione del giudizio di impugnazione del lodo) che risulta acquisita e discussa in causa.
24. Questa Corte nell’ordinanza interlocutoria ha trattato anche il tema degli effetti della mancata riassunzione del giudizio d’impugnativa del lodo, a seguito della cassazione con rinvio, pronunciata con sentenza n.12622/98, della sentenza della Corte d’appello del 1996 che aveva dichiarato la nullità del lodo per difetto di giurisdizione degli arbitri risultava un unico specifico precedente di questa Corte.
Il punto peraltro non è oggetto di specifico motivo di impugnazione. Del resto la stessa ricorrente, come chiarisce in memoria, pag.19, mira a travolgere questa statuizione mediante l’effetto espansivo interno ex art.336 cod.proc.civ., e quindi solo in virtù dello sperato e qui denegato accoglimento dei due motivi di ricorso in rito.
Non vi sarebbe, quindi, necessità di una pronuncia sul punto alla luce del rigetto dei due motivi di ricorso.
In ogni caso, considerato che la questione è stata devoluta alla pubblica udienza e trattata dal Procuratore generale, la Corte osserva, in conformità alla sentenza della Sez. 2, n. 11842 del 6.8.2003, che il lodo arbitrale, dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 825, comma quinto (nel testo vigente prima dell’introduzione della legge 25/1994), perdendo la natura e l’efficacia di atto negoziale, assume il valore di sentenza, idonea a produrre gli effetti del
giudicato nel caso in cui non siano stati tempestivamente esperiti i mezzi di impugnazione o siano stati infruttuosamente consumati.
Ne consegue che, ove la Corte di Cassazione cassi con rinvio la pronuncia della Corte di appello dichiarativa della nullità del lodo, l’eventuale estinzione del procedimento, ex art. 393 cod. proc. civ., per mancata riassunzione, dinanzi al giudice di rinvio, comporta l’efficacia prevista dall’art. 310 cod. proc.civ. della sentenza di nullità del lodo dichiarata dalla Corte di appello e travolge la decisione degli arbitri, che – quale provvedimento ormai di natura esclusivamente giurisdizionale – non conserva alcuna validità.
Pronuncia questa del resto conforme al precedente di Sez. 1, n. 10456 del 26.11.1996, secondo la quale la tempestiva instaurazione di un giudizio d’impugnazione della sentenza arbitrale, ai sensi dell’art. 828 cod. proc. civ., dà luogo ad una vicenda processuale non riconducibile al parametro dell’impugnazione di un atto negoziale, bensì ad un vero e proprio giudizio di secondo grado, rispetto a quello già svoltosi dinanzi agli arbitri.
Ne consegue che la cassazione con rinvio della sentenza della Corte d’appello che ha dichiarato nulla la precedente decisione arbitrale comporta (nel regime anteriore alla legge n. 25 del 1994) che sia rimessa alla competenza esclusiva della stessa Corte, quale giudice di rinvio, la decisione sulla validità o invalidità del giudizio pronunciato dagli arbitri e che, se tale valutazione risulti negativa, sia sempre lo stesso giudice dell’impugnazione a dover decidere anche nel merito del giudizio rescissorio. Cosicché, nel caso in cui una siffatta pronuncia sia resa impossibile dalla mancata riassunzione del giudizio di rinvio, la decisione degli arbitri, al pari di una pronuncia di primo grado, non conserva validità, alla stregua della regola generale enunciata dall’art. 393 cod. proc. civ., che prevede l’estinzione dell’intero processo.
Pertanto il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, occorre infine dar atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di € 35.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione