Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15333 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15333 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21105-2021 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ RAGIONE_SOCIALE COGNOME COGNOME , in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA RAGIONE_SOCIALE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 121/2021 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 04/02/2021 R.G.N. 432/2020;
Oggetto
Subordinazione
R.G.N.21105/2021
COGNOME
Rep.
Ud.27/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2025 dal Consigliere Dott. NOMECOGNOME
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di L’Aquila, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE -Università telematica ‘Leonardo da Vinci’ volto secondo la stessa sentenza -‘all’accertamento dell’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato per il periodo dal 10/02/2018 al 16/01/2019 (in cui assume di aver lavorato, senza regolare assunzione, alle dipendenze dell’UNIDAV, con mansioni di ‘ ordinamento delle attività operative funzionali alla gestione amministrativa, di marketing e di comunicazione dell’Ateneo’ , osservando un orario di lavoro minimo di 40 ore settimanali), con domanda di condanna della società appellata alla corresponsione delle correlate differenze retributive, quantificate in €. 32.660,25, nonché con domanda di condanna dell’appellata alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate dalla data del licenziamento che assume essergli stato verbalmente comminato’;
la Corte, in sintesi, ha innanzitutto concordato col primo giudice che ‘tutte le rivendicazioni relative al periodo lavorativo dal 10.02.2018 al 10.10.2018 sono precluse dalla rinuncia validamente operata dall’appellante con l’atto transattivo dell’11.10.2018.’;
il Collegio ha quindi ritenuto che ‘la documentazione in atti e le richieste di prova testimoniale di parte appellante’ non fossero
idonee a dimostrare che l’istante fosse, nello svolgimento del suo lavoro, sottoposto all’eterodirezione datoriale;
ha condiviso ‘la decisione del primo giudice di non ammettere la prova testimoniale richiesta dalla parte appellante in prime cure, atteso che i capitoli di prova formulati vertono in gran parte su circostanze irrilevanti ai fini della prova della subordinazione (v. cap. nn.4, 12, 13, 16, 17, 18, 19, 20 e 21) ovvero su circostanze di natura documentale (v. cap. nn.1, 2, 11, 14 e 15) ovvero su quesiti comportanti valutazioni non demandabili a testi (v. cap. nn.3, 7, 8, 9 e 10) ovvero su circostanze descritte in modo eccessivamente generico (v. cap. nn. 5 e 6)’; per la Corte distrettuale le carenze del ricorso non risultavano sanabili neanche attraverso l’esercizio, da parte del giudice, dei poteri officiosi previs ti dall’art. 421 c.p.c.;
svolte poi talune considerazioni sulle dedotte modalità di espletamento delle prestazioni e di erogazione del compenso, sulla mancanza di obblighi di presenza, sull’orario di lavoro, la Corte ha concluso che ‘non è stato sufficientemente provato l’elemento della eterodirezione, cioè dell’assoggettamento del prestatore d’opera al potere direttivo e conformativo della prestazione esercitato dal soggetto datoriale’;
la Corte territoriale ha anche disatteso la richiesta del Di COGNOME di condanna dell’Università a corrispondere ‘le somme pretese a titolo di corrispettivo per la collaborazione autonoma svolta’, assumendo che in tal modo sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimata Università;
parte ricorrente ha anche comunicato articolata memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa difesa del ricorrente;
2.1. il primo motivo denuncia: ‘Violazione dell’art. 24 della Costituzione, dell’art. 115 c.p.c., dell’art. 6 della Cedu e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in relazione alla mancata ammissione della prova orale richiesta dalla parte ricorrente; violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c. per mancato esercizio ex officio dei poteri istruttori necessari ai fini del decidere: violazioni tutte in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.’;
2.2. il secondo motivo denuncia: ‘Violazione del principio della domanda (art. 99 c.p.c.) e di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.c.), nonché dei principi ermeneutici della domanda giudiziale, in relazione all’omessa pronuncia sulla domanda subordinata di pagamento di un compenso per le mensilità lavorate, indipendentemente dal riconoscimento della natura subordinata del rapporto, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c. per omesso esercizio del potere di riqualificare i fatti, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma n. 5’;
2.3. il terzo motivo denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art.2, primo comma, del d.lgs. n.81/2015, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma n. 5, in relazione al mancato approfondimento delle concrete modalità di attuazione della prestazione del Di COGNOME al fine di verificare l’applicabilità alla fattispecie della disposizione di legge richiamata per le collaborazioni eteroorganizzate’;
il Collegio reputa che il ricorso non possa trovare accoglimento;
2.1. avuto riguardo al primo motivo, per risalente e condiviso insegnamento di questa Corte (di recente ribadito, v. Cass. n. 27610 del 2024), la mancata ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011; Cass. n. 16214 del 2019; da ultimo: Cass. n. 18072 del 2024);
inoltre, spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare l’ammissibilità di mezzi di prova
concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) -con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); ancora di recente (Cass. n. 30810 del 2023) è stato ribadito che il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali oppure per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; circa il primo aspetto, in via di principio, non va posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, § 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabil e in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; tuttavia una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. n. 910 del 1977) ovvero affermi tout court l’inamm issibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite;
ove ci si muova in tale seconda prospettiva di merito, ancorché la decisione del giudice si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come è stato rilevato -‘il potere (del giudice) di
operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta’ (Cass. SS.UU. n. 8077 del 2012); in tal caso, ‘la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa e, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle’ (Cass. SS.UU. n. 8077/2012 cit.); la mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999);
con le censure in esame non si evidenzia che la mancata ammissione della prova ha riguardato un unico fatto storico che avesse la caratteristica di essere realmente decisivo, nel senso patrocinato da questa Corte, ossia che, se fosse stato valutato, avrebbe condotto ad un esito diverso della lite, con prognosi di certezza e non di mera possibilità (v., tra molte, Cass. SS.UU. n. 3670 del 2015 e n. 14477 del 2015);
piuttosto si lamenta la mancata ammissione di testimonianze concernenti una pluralità di fatti, ciascuno di essi privo di
valenza decisiva ai fini della decisione della causa, relativi all’insieme degli elementi ritenuti sintomatici di un rapporto di lavoro subordinato, diversamente apprezzati dalla Corte territoriale pure sotto il profilo allegatorio, anche alla luce della valutazione del compendio documentale;
inoltre, i giudici sia del primo che del secondo grado hanno motivatamente disatteso le richieste di testimonianza avuto riguardo a ciascuno dei singoli capitoli di prova, con apprezzamento intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciato con una valutazione complessiva dei dati acquisiti in causa e della sostanza della lite, la quale non consente l’esercizio di un sindacato sostitutivo di questa Corte di legittimità, non venendo in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come sottolineato dall’insuperato insegnamento delle Sezioni unite n. 8077/2012 cit. -il potere del giudice di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia allo stesso un ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta;
allo stesso modo non è censurabile la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, considerato che si tratta dell’esercizio di un’attività del giudice latamente discrezionale (cfr. Cass. n. 14923 del 2024; Cass. n. 23605 del 2020; Cass. n. 26117 del 2016) e che la Corte territoriale ha esplicitato le ragioni per le quali ha reputato di non farvi ricorso con una motivazione che, in mancanza di deduzione di un fatto decisivo che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della causa, appare idonea a valicare la soglia del cd. minimum costituzionale;
2.2. il secondo motivo di ricorso è infondato;
la Corte territoriale si è esplicitamente pronunciata in ordine alla censura del gravame concernente la pretesa del Di COGNOME per il pagamento del compenso anche a titolo di collaborazione autonoma, di talché di ‘omissione di pronuncia’ non è dato parlare e i giudici di appello, nell’ambito dei poteri di interpretazione della domanda spettanti al giudice del merito, hanno plausibilmente ritenuto che la domanda subordinata azionata fosse comunque strumentale all’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato, tanto da qualificare le spettanze richieste come ‘retributive’ e ‘TFR’;
2.3. neanche il terzo motivo – con cui si critica il passaggio motivazionale nel quale la Corte territoriale ha ritenuto ‘non pertinente all’oggetto della presente controversia il richiamo di parte appellante al concetto di eteroorganizzazione’ – può essere accolto;
fermo che la deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. è preclusa dalla ricorrenza di una cd. ‘doppia conforme’ (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022), la censura non specifica adeguatamente come la domanda ex art. 2 d. lgs. n. 81 del 2015 sia stata introdotta nel giudizio e, successivamente, come sia stata decisa in primo grado e, quindi, devoluta in appello mediante speci fica censura formulata con l’atto di gravame;
pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 27 febbraio