Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8102 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8102 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
incontestato, sicché non era legittimo, come già accertato dal Tribunale di Pordenone in altra causa, che il tempo venisse decurtato e non remunerato;
il secondo motivo assume che sia stato « violato il paradigma dell’art. 116 c.p.c.» , richiamando l’art. 360 n. 4 c.p.c. ed ancora l’art. 2709 c.c. ed argomentando sui rapporti tra prudente apprezzamento e prova legale;
con il terzo motivo i ricorrenti deducono « violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per applicazione della normativa sulla necessità di conseguire e provare l’autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario in una fattispecie in cui non doveva essere applicata e comunque per cattiva applicazione della norma in fattispecie non esattamente comprensibile nella norma »;
con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la « violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo e
contro
verso nella parte in cui la Corte ha rigettato la domanda di pagamento svolta dai ricorrenti a titolo sanzionatorio per non avere il CRO dato adempimento alla sentenza n. 57/2017 »;
2.
i motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la connessione, in ragione della loro consecuzione logica;
3.
in premessa può rilevarsi che nel ricorso, pur richiamandosi a varie riprese il contenuto della sentenza resa nella diversa causa riguardante la legittimità del Regolamento aziendale nella parte in cui esso sancisce che non si debba tenere conto dell’orario corrispondente alla ‘pausa’ ed ai primi dieci minuti eccedenti l’orario ‘normale’ , non si affronta più, in specifico, il tema del giudicato formatosi in quella sede;
4.
la Corte d’Appello, nel merito, ha ritenuto che le risultanze dei cartellini nulla provassero con riferimento al fatto che quegli spezzoni orari, di cui si asserisce l’eccedenza rispetto all’orario normale regolarmente osservato, fossero stati autorizzati, anche implicitamente, né che essi fossero stati lavorati e necessitassero quindi di remunerazione;
essa ha ritenuto infatti che gli appellati non avessero in alcun modo dimostrato di aver lavorato in pausa e di aver maturato 10 minuti di lavoro in più per esigenze di servizio, e ciò ha espresso con l’inciso per cui « i cartellini presenze dimessi nulla provano al riguardo »;
5.
non può intanto essere minimamente condiviso quanto si afferma nel primo e nel secondo motivo in ordine all’assimilabilità dei cartellini ai ‘libri ed alle scritture contabili’, di cui all’art. 2709 c.c.;
questi ultimi sono infatti documenti tipici dell’imprenditore soggetto a registrazione, individuati nell’art. 2214 c.c., che non concerne i sistemi documentativi del tempo di lavoro;
d’altra parte, i cartellini marcatempo, quale che sia la loro natura giuridica, comprovano il fatto in sé dell’utilizzazione di essi in entrata ed in uscita da parte del lavoratore, ma non di certo e con fede privilegiata che tra l’uno e l’altro momento vi sia stata effettiva attività di lavoro e ciò tanto meno in un caso, come quello di specie, ove è controverso proprio che alcuni degli spazi orari interni a quei due momenti vengano effettivamente lavorati;
è in questo senso per cui -lo si ripete -le risultanze dei cartellini nella situazione data non comprovavano l’effettiva lavorazione in quei periodi di cui si rivendica la remunerazione che va intesa la sentenza impugnata, alla quale non può dunque imputarsi la mancata spiegazione del rilievo non decisivo attribuito a quei documenti;
deve poi richiamarsi il principio di diritto enunciato da Cass., S.U., 5 marzo 2024 n.5792, secondo cui il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale;
avuto riguardo a tale condiviso principio di diritto, il preteso travisamento del contenuto dei cartellini presenza -di cui al primo motivo – non si risolve in una svista, in un errore materiale di
percezione, ma nella valutazione della concludenza degli elementi di prova desumibili dai cartellini presenza alla luce dell’oggetto della controversia, identificato dalla corte territoriale in una domanda di pagamento del lavoro prestato oltre l’orario normale, ritenuta non fondata;
si tratta dunque della valutazione delle prove, riservata al prudente apprezzamento da parte del giudice del merito, come previsto dall’art.116 c.p.c. e in questa sede non censurabile in quanto tale, sicché il primo ed il secondo motivo, che fanno leva anche sulla violazione di tale norma, sono parimenti inammissibili;
6.
venendo ai profili di diritto sostanziale, il terzo motivo, nell’affermare che sarebbe stata applicata la normativa sullo straordinario e relativa necessità di autorizzazione a fattispecie ad essa estranea, non indica con specificità quali sarebbero le disposizioni di diritto o della contrattazione collettiva che sarebbero state violate dalla Corte territoriale e che fonderebbero la pretesa del pagamento del ‘lavoro aggiuntivo’, quale istituto giuridico in ipotesi da distinguere rispetto al lavoro straordinario;
è in effetti consolidato nella giurisprudenza di questa S.C. l’orientamento secondo cui il vizio di violazione di legge deve essere dedotto non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni, intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo date affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., S.U., 30 giugno 2023, n. 18607, con plurimi richiami a precedenti conformi);
6.1
oltre a ciò, ed al di là del fatto che sono gli stessi ricorrenti, nell’illustrare il quarto motivo di ricorso, ad ammettere che « può essere vero che i tempi di lavoro aggiuntivi ‘necessariamente’ debbono essere classificati come ‘straordinari’ » (pag.15 del ricorso), in ogni caso le censure – evidentemente confidando in modo erroneo sull’ipotesi che le asserite illegittimità del Regolamento si dovrebbero tradurre nel diritto alla remunerazione dei periodi in cui esso stabiliva che non vi fosse computo di orario finiscono per non misurarsi con la già ricordata ratio decidendi secondo cui comunque non vi era stata dimostrazione che in quei periodi vi fosse stata attività di lavoro o da considerare come tale; ciò vale anche rispetto a quella parte del quarto motivo, rubricato ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in cui ancora si insiste sull’inosservanza in sé, da parte del CRO, delle statuizioni di illegittimità del Regolamento o sulle risultanze dei cartellini presenza;
il tutto senza considerare, ancora rispetto al quarto motivo, come si tratti di profili che nulla hanno a che vedere con un fatto materiale -di cui sia stata in ipotesi omessa la considerazione -riguardando essi la valutazione delle risultanze istruttorie già compiuta dalla Corte territoriale, ed in particolare degli elementi di prova desumibili dai cartellini presenze e dei conteggi elaborati sulla base dei cartellini medesimi, asseritamente non contestati dal CRO, ovverosia profili tutti la cui censura, come si è già detto in precedenza, è inammissibile in sede di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; ora anche Cass. 22 novembre 2023, n. 32505);
in altre parole, quegli aspetti non riguardano un fatto storicamente inteso che è quanto considerato dall’art. 360 n. 5 c.p.c. – ma la valutazione di prove soggette al prudente apprezzamento del giudice e tra l’altro nemmeno può ritenersi che la Corte territoriale
abbia omesso alcun esame sul punto, avendo ritenuto, come si è già visto, che « i cartellini presenze dimessi nulla provano »;
6.2
quanto detto è già sufficiente, potendosi solo aggiungere che il riferimento, nella rubrica del quarto motivo, ad una domanda svolta dai ricorrenti ‘a titolo sanzionatorio’, per non avere dato il CRO dato adempimento alla sentenza n. 57/2017, ovverosia all’originaria sentenza che dichiarò l’illegittimità del Regolamento, non trova alcuna migliore spiegazione -al di là di quanto sopra detto -nel corpo della censura;
essa resta una mera affermazione, tra l’altro priva di qualsiasi aggancio ad ipotesi sanzionatorie effettivamente regolate (ad es. art. 614 bis c.p.c.), rispetto ad un aspetto che non è dimostrato, in assenza di menzione nella sentenza impugnata, si sia mai discusso specificamente in causa, il che è ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675);
7.
per questi motivi il ricorso deve essere dichiarato complessivamente inammissibile con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione che liquida in euro 1.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 5.3.2025.