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Prova incarico professionale: come dimostrarlo in giudizio

Un’architetta ha citato in giudizio una cliente per ottenere il pagamento di compensi professionali per varie attività di consulenza. La cliente si è difesa sostenendo che la collaborazione era a titolo amichevole. La Corte d’Appello ha respinto la richiesta dell’architetta, non perché mancasse la prova dell’incarico professionale, ma perché ha ritenuto che le parti avessero raggiunto un accordo transattivo che saldava ogni pretesa. La sentenza sottolinea che la prova dell’esistenza di un rapporto professionale e di un successivo accordo che lo estingue può essere desunta anche da comunicazioni informali, come le email.

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Pubblicato il 8 aprile 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Prova Incarico Professionale: Quando l’Amicizia Non Basta per Essere Pagati

Fornire la prova di un incarico professionale è il primo e fondamentale passo per ogni professionista che intenda agire in giudizio per recuperare i propri compensi. Tuttavia, cosa accade quando il rapporto con il cliente nasce in un contesto amichevole e gli accordi sono informali? Una recente sentenza della Corte d’Appello di Firenze offre spunti cruciali, evidenziando come anche una semplice email possa trasformarsi in un accordo tombale che estingue ogni ulteriore pretesa economica.

I Fatti di Causa

La vicenda vede contrapposte un’architetta, specializzata in consulenza stilistica e artistica, e una sua cliente. L’architetta sosteneva di aver svolto per anni diverse prestazioni professionali (consulenza per borse, accessori, gioielli, trattative commerciali) per le quali non era stata interamente pagata, chiedendo un saldo di circa 14.500 euro.

Di contro, la cliente si difendeva su due fronti: in primo luogo, affermava che la collaborazione era nata su base amichevole per aiutare la professionista in un momento di difficoltà economica; in secondo luogo, sosteneva che le uniche attività di natura commerciale e contabile erano già state interamente pagate, come concordato.

Il Tribunale di primo grado aveva respinto la domanda dell’architetta, ritenendo non sufficientemente provato il conferimento di incarichi a titolo oneroso. La professionista ha quindi proposto appello.

La Prova dell’Incarico Professionale in Appello

A differenza del primo giudice, la Corte d’Appello ha ritenuto che la prova dell’incarico professionale fosse in realtà emersa dall’istruttoria. La stessa cliente aveva ammesso di aver proposto una collaborazione alla professionista e che quest’ultima aveva svolto attività di natura contabile e commerciale. Inoltre, la corrispondenza via email dimostrava chiaramente che l’architetta aveva condotto trattative, sollecitato pagamenti ed emesso fatture per conto della cliente.

La Corte ha quindi riconosciuto l’esistenza di un rapporto contrattuale tra le parti per il periodo 2012-2013, finalizzato a una collaborazione in materia contabile e commerciale con la prospettiva di un compenso.

L’Accordo Transattivo: L’Elemento Decisivo

Nonostante il riconoscimento del rapporto professionale, la Corte ha comunque respinto l’appello. L’elemento chiave della decisione è stato un’email del giugno 2013. In questa comunicazione, l’architetta, lamentando scarsa riconoscenza economica, dichiarava di voler chiudere la collaborazione e di “autoliquidarsi” trattenendo alcuni importi ricevuti da terzi per conto della cliente.

La cliente aveva accettato questa “soluzione”, ringraziando la professionista per il bonifico e “per tutto quello che hai fatto per me”. Secondo la Corte, questa sequenza di comunicazioni non era una semplice chiusura del rapporto, ma un vero e proprio accordo transattivo. Le parti, pur in disaccordo sull’andamento della collaborazione, avevano trovato un punto d’incontro per chiudere ogni pendenza, con reciproche rinunce.

Le Motivazioni della Corte

Le motivazioni della Corte d’Appello si fondano su un’attenta analisi della volontà delle parti come emersa dalla documentazione. I giudici hanno stabilito che, sebbene esistesse un rapporto professionale oneroso, l’accordo raggiunto via email nel giugno 2013 aveva avuto un effetto estintivo su qualsiasi pretesa pregressa. Con quell’accordo, l’appellante aveva di fatto rinunciato a emolumenti maggiori accontentandosi degli importi già percepiti e trattenuti, e l’appellata aveva accettato tale chiusura.

Per quanto riguarda le altre attività lamentate (consulenza stilistica, partecipazione a fiere), la Corte ha ritenuto che non vi fosse prova sufficiente del loro conferimento o, in ogni caso, che il loro valore fosse ricompreso nell’accordo transattivo finale. Mancando elementi probatori indispensabili per quantificare un eventuale compenso ulteriore (quantum debeatur), la domanda è stata integralmente respinta.

Conclusioni

Questa sentenza offre due insegnamenti pratici di fondamentale importanza per tutti i professionisti:

1. La necessità di formalizzare gli accordi: basarsi su rapporti amichevoli e accordi verbali è estremamente rischioso. Un contratto scritto che definisca oggetto, durata e compenso dell’incarico è la migliore tutela contro futuri contenziosi.
2. L’efficacia degli accordi transattivi: anche una comunicazione informale, come uno scambio di email, può essere interpretata come un accordo tombale che preclude ogni successiva richiesta economica. È quindi essenziale ponderare attentamente i termini di qualsiasi accordo di chiusura, poiché potrebbe essere considerato definitivo e vincolante.

Chi deve dimostrare l’esistenza di un incarico professionale retribuito?
Secondo la sentenza, l’onere della prova spetta sempre al professionista che chiede il pagamento del compenso. Deve dimostrare, con qualsiasi mezzo idoneo, che il cliente gli ha conferito un incarico in modo chiaro e inequivocabile, con la previsione di un corrispettivo.

Un accordo informale via email può chiudere definitivamente una collaborazione e le relative pretese economiche?
Sì. La Corte d’Appello ha stabilito che lo scambio di email tra le parti costituiva un accordo transattivo a tutti gli effetti. Questo accordo, pur essendo informale, ha avuto l’effetto di estinguere il rapporto e tutte le pretese economiche pregresse, impedendo all’architetta di richiedere ulteriori somme.

Cosa succede se un professionista prova l’esistenza di un rapporto di lavoro ma non riesce a quantificare il compenso dovuto?
Se mancano elementi probatori indispensabili per procedere alla quantificazione del compenso (il cosiddetto quantum debeatur), la domanda di pagamento viene respinta. Nel caso specifico, anche se è stata provata una collaborazione, l’accordo transattivo e la mancanza di prove su ulteriori attività hanno reso impossibile determinare un importo maggiore di quello già percepito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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