Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25915 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25915 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 22/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6030 – 2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME dai quali è rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, in proprio e quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dal quale è
rappresentata e difesa, giusta procura allegata al controricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7075/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, pubblicata il 7/11/2018, notificata il 12/12/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
19/9/2024 dal consigliere NOME COGNOME
lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione del 25/10/06, RAGIONE_SOCIALE propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 12724/06 pronunciato dal Tribunale di Roma nei suoi confronti, ad istanza di RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME (di seguito RAGIONE_SOCIALE per la somma di euro 6.941,70 oltre interessi legali, a titolo di compenso per prestazioni e consulenza asseritamente effettuate in suo favore nel periodo giugno/ottobre 2004, come da fattura n. 35 del 31.10.2004.
La società opponente sostenne di aver avuto un rapporto professionale non con la società RAGIONE_SOCIALE, ma soltanto, in proprio, con NOME COGNOME che aveva curato la sua contabilità e i suoi bilanci, con regolare compenso, fino all’ottobre 2004 , quando ogni collaborazione era stata interrotta: era accaduto, infatti, che quest’ultima e la stessa società avessero indebitamente incassato cinque assegni recanti firma di traenza apocrifa della propria legale rappresentante, NOME COGNOME. Pertanto, chiese la revoca del decreto opposto per difetto di prova dell ‘avvenuta stipulazione di un contratto di prestazione d’opera con la società oppo sta e, in riconvenzionale, la condanna di quest’ultima al pagamento in suo favore della somma di euro 22.690,76, pari all’importo dei cinque assegni, a titolo di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ. o, in
subordine, a titolo risarcitorio ex art. 2043 cod. civ. o, in ulteriore subordine, a titolo di indebito arricchimento ex art. 2041 cod. civ.
Per quel che qui ancora rileva, alla prima udienza intervenne NOME COGNOME in proprio, ugualmente chiedendo la revoca del decreto opposto e la condanna della società opposta al pagamento in suo favore della somma di euro 22.690,76 pari all’importo dei cinque assegni, a titolo di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ. o, in subordine, a titolo risarcitorio ex art. 2043 cod. civ. o, in ulteriore subordine, a titolo di indebito arricchimento ex art. 2041 cod. civ.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2206/2011, in accoglimento dell’opposizione di RAGIONE_SOCIALE, revocò il decreto opposto per difetto di prova della sussistenza del preteso contratto d’opera; rigettò la domanda riconvenzionale della società perché gli assegni non risultavano tratti sul suo conto corrente, ma sul conto della legale rappresentante COGNOME dichiarò inammissibile per tardività la domanda proposta da quest’ultima in proprio, in quanto non proposta venti giorni prima della prima udienza.
Con sentenza n. 7075/2018, la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello principale di RAGIONE_SOCIALE e dichiarò inammissibile l’appello incidentale di RAGIONE_SOCIALE in accoglimento dell’appello incidentale di NOME COGNOME in proprio, ne dichiarò ammissibile la domanda perché proposta in intervento adesivo autonomo e condannò la società RAGIONE_SOCIALE a corrisponderle l’importo portato dai quattro assegni , ritenendone accertata la falsità della firma.
Per quel che qui rileva, NOME COGNOME si era costituita, con unico atto e medesimo difensore, in proprio e quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE
Avverso questa sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi; NOME COGNOME in
proprio e quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., RAGIONE_SOCIALE ha sostenuto l’inammissibilità dell’appello incidentale per violazione del principio del contraddittorio ex art. 111 della Costituzione e del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione: la costituzione della società RAGIONE_SOCIALE e della sua legale rappresentante NOME COGNOME in proprio, con unico atto e a mezzo dello stesso difensore sarebbe nulla e, perciò, l’appello incidentale sarebbe inammissibile, per il conflitto di interessi sussistente tra l’ente e la sua rappresentante persona fisica, in quanto portatori dell’interesse contrapposto alla restituzione delle somme asseritamente incassate indebitamente e illegittimamente.
1.1. Il motivo è infondato. Come risulta dagli atti, le due domande sono state proposte in via alternativa e non concorrente, dando per presupposto il rapporto di rappresentanza tra la società e NOME COGNOME
Questa Corte, sul punto, ha già stabilito che, se è vero che la costituzione in giudizio di più parti, per mezzo di uno stesso procuratore, cui sia stato conferito mandato con unico atto dalle medesime parti sottoscritto, è valida soltanto quando fra le stesse non vi sia conflitto di interessi (che può essere non soltanto attuale ma anche virtuale), è altrettanto vero che la potenzialità del conflitto medesimo va ricostruita non come mera eventualità, bensì in correlazione stretta con il concreto rapporto esistente fra le parti, i cui interessi risultino suscettibili di contrapposizione (Cass. Sez. 2, n. 12741 del 14/06/2005).
Con il secondo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma primo dell’art. 360 cod. proc. civ., la ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ.: in particolare, ha rimarcato che la motivazione della sentenza impugnata non si fonda su elementi di fatto già acquisiti e inequivocabili risultanti con evidenza dalla richiamata sentenza penale n.306/2015 della Corte d’appello di Roma, sol che si consideri l’esplicita affermazione, contenuta in quel provvedimento, che non era stata «raggiunta una prova certa della esistenza delle asserite falsificazioni», sicché la domanda di restituzione era stata rigettata.
Nella sentenza impugnata, pertanto, la Corte d’appello avrebbe utilizzato la precedente decisione quale elemento di prova in violazione dei limiti segnati dagli art. 115 e 116 cod. proc. civ.
Con il terzo motivo, pure articolato in riferimento al n. 3 del comma primo dell’art. 360 cod. proc. civ., la società RAGIONE_SOCIALE ha infine denunciato la violazione e falsa applicazione degli art. 268 e 105 cod. proc. civ. per avere la Corte d’appello ritenuto ammissibile l’intervento di NOME COGNOME e la sua domanda, seppure non proposti venti giorni prima dell’udienza, nei termin i degli art. 166 e 167 cod. proc. civ..
3.1. Il terzo motivo, che deve essere necessariamente esaminato prima per priorità logica, è infondato.
Questa Corte ha più volte chiarito, interpretando l’art. 268 cod. proc. civ. nella formulazione introdotta dall’art. 28 l. 26 novembre 1990, n. 353, antecedente la modifica operata dall’art. 3, comma 17, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, applicabile ratione temporis per essere il processo pendente alla data del 28 febbraio 2023, che l’interventore adesivo autonomo (o litisconsortile), al pari dell’interventore principale, fa valere nel processo tra altre persone un
autonomo diritto soggettivo, sia pure inerente all’oggetto o dipendente dal titolo già dedotto dalle parti originarie; pertanto, con tale forma di intervento volontario viene proposta una autonoma domanda, quantunque oggettivamente connessa (per l’oggetto o per il titolo) con la domanda originaria; la formulazione della domanda, in altre parole, costituisce l’essenza stessa tanto dell’intervento principale quanto dell’intervento litisconsortile, sebbene nel primo caso essa riguardi un diritto incompatibile con quello già azionato nel processo, essendo l’intervento rivolto in confronto di tutte le parti originarie (intervento ad excludendum o ad infringendum iura utriusque competitoris ), mentre, nel secondo caso, la domanda concerna un diritto sovrapponibile a quello già vantato da una o da taluna delle parti originarie in confronto delle altre, che sono le uniche legittimate passive rispetto alla domanda formulata dall’interveniente. Da tali rilievi, che attengono ai presupposti sostanziali dell’intervento volontario, è stato ritenuto che discenda necessariamente, sul piano processuale, che il sistema delle preclusioni non si estende all’attività assertiva dell’interveniente volontario, nei cui confronti non opera il divieto di proporre domande nuove ed autonome in seno al procedimento fino all’udienza di precisazione delle conclusioni (ora « sino al momento in cui il giudice fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione»), configurandosi soltanto l’obbligo, per l’interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie (in ultimo, Cass. Sez. 3, n. 3238 del 2024 con indicazione dei precedenti).
3.2. Fondato è il secondo motivo.
La Corte d’appello ha motivato la condanna della società, attuale ricorrente, alla restituzione degli importi portati dagli assegni, in
riferimento alla sentenza numero 306/15 resa dalla Corte d’Appello penale di Roma e acquisita agli atti e alle prove raccolte nel giudizio penale avente ad oggetto la falsificazione delle firme di traenza: in particolare, ha riportato che questa sentenza «ha confermato la decisione di primo grado che aveva mandato assolta NOME COGNOME perché il fatto non sussiste», ma avrebbe «accertato» che la perizia tecnica d’ufficio aveva concluso per la falsificazione della firma di traenza di NOME COGNOME in calce ai cinque assegni»; ha, quindi, affermato che «il Giudice civile può utilizzare come fonte di convincimento le prove raccolte nel giudizio penale, ponendo a base della decisione gli elementi di fatto acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, potendo ritenere sufficienti le risultanze della sola sentenza, come nel caso di specie, tenuto conto che non vi è stata nel presente giudizio alcuna contestazione della falsità delle firme in questione.».
Per principio consolidato (v. Cass. Sez. 2, n. 22200 del 29/10/2010, richiamata nella motivazione della sentenza impugnata), il Giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, ma deve sottoporli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza.
Nella specie, invero, il ricorrente ha riportato in ricorso che a pagina 6, rigo 6 e seguenti, della sentenza della Corte di Appello di
Roma, Sezione seconda penale, n. 306/2015, posta a fondamento della decisione (e da lui depositata all’udienza e acquisita al fascicolo), in realtà è affermato che «la questione fondamentale – rimasta irrisolta è la sussistenza della asserita falsificazione, prima ancora che la riconducibilità della stessa alla persona della COGNOME: questioni sulle quali comunque – all’esito del giudizio – non è stata raggiunta a prova certa. La conclusione raggiunta impedisce di adottare ogni provvedimento in tema di restituzione e/o risarcimento, non essendo stata raggiunta prova certa delle asserite falsificazioni».
Emerge allora che, nella sentenza qui impugnata, la Corte d’appello di Roma non ha correttamente applicato i principi in materia di utilizzabilità degli elementi di fatto raccolti in sede penale e delle risultanze della relativa sentenza che l’ha definito, difettando una lettura compiuta di quel provvedimento e il vaglio critico di ogni elemento raccolto, anche in riferimento alle istanze istruttorie proposte nel giudizio civile.
Il ricorso è, perciò, accolto limitatamente al secondo motivo e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto , con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà al riesame della domanda di restituzione delle somme portate dagli assegni in applicazione dei principi suesposti.
Decidendo in rinvio, la Corte d’appello statuirà anche sulle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettati i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte suprema di Cassazione del 19 settembre 2024.
La Presidente NOME COGNOME