Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21205 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 21205 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE con sede in Casamicciola Terme (NA), in persona della legale rappresentante sig.ra NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avvocat o NOME COGNOME
Ricorrente
contro
COGNOME NOME , rappresentato e difeso da ll’Avvocato NOME COGNOME.
Controricorrente
avverso la sentenza n. 1620/2020 della Corte di appello di Napoli, depositata il 6.5.2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3.7.2025 dal consigliere NOME COGNOME.
udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Fatti di causa
Con sentenza n. 1620 del 6.5.2020 la Corte di appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, accolse in parte la domanda proposta, nel 2000, da COGNOME NOME, titolare di impresa edile, che aveva chiesto la condanna della s.n.c. Fratelli COGNOME al pagamento del saldo dei lavori eseguiti sui suoi immobili siti in località Castanito, quantificato nell’importo di lire 319.011.230. La Corte motivò la decisione ritenendo, diversamente da quanto sostenuto dal tribunale, che sulla base degli elementi di prova acquisiti risultasse dimostrato che la società convenuta aveva incaricato l’attore di eseguire determinate opere edili, tenuto conto che il contratto di appalto, non essendo sottoposto al requisito della forma scritta, può essere stipulato anche oralmente e la sua conclusione può essere provata con ogni mezzo di prova; che, in particolare, l’esistenza del contratto risultava provata dalle dichiarazioni testimoniali rese da COGNOME e COGNOME e dalla testimonianza resa dall’avv. COGNOME, che aveva assistito COGNOME in un tentativo di transazione della lite a cui aveva partecipato, per la società convenuta, il socio di maggioranza COGNOME COGNOME nel corso del quale era stata formulata una proposta ed una controproposta da parte dell’avv. COGNOME per la società , prodotta in giudizio, ove si dava atto della avvenuta corresponsione di acconti per lire 137.500.000 e si invitava a chiudere la vertenza con il pagamento rateale di ulteriori lire 130.000,00; tale documento era infatti utilizzabile come prova, non ostando a ciò il divieto posto dall’art. 28 del Codice Deontologico Forense, operando esso solo sul piano della responsabilità disciplinare degli avvocati; che ulteriore conferma della esistenza del rapporto era data dalla reiterata mancata comparizione del legale rappresentante della società convenuta alle udienze fissate per il suo interrogatorio formale e dalla mancanza di prove contrarie offerte dalla società, ch e si era limitata a negare, genericamente, l’esecuz ione dei lavori da parte dello COGNOME; che era ammissibile la produzione effettuata dalla parte attrice con la memoria di replica depositata in data 5.1.2001, trattandosi di prova contraria alle circostanze dedotte nella precedente memoria dalla parte convenuta, che aveva dedotto che i lavori erano stati eseguiti da altre ditte; che sulla base degli accertamenti svolti dal consulente tecnico di ufficio, che
aveva tenuto correttamente conto dei preventivi, delle fatture, delle bolle di accompagnamento dei materiali e di altra documentazione, risultava provata l’esecuzione da parte dell’appellante delle opere descritte nella relazione, con quantificazione del relativo corrispettivo in lire 212.282.027. Condannò pertanto la società appellata al pagamento, detratti gli acconti versati, della somma di euro 74.282,02, oltre gli interessi legali.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso la s.n.c. Fratelli COGNOME affidato a otto motivi.
COGNOME NOME ha notificato controricorso.
Il P.M. ed il controricorrente hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione degli artt. 159, 163, 183 e 184 c.p.c., censura la sentenza impugnata per avere ammesso i documenti prodotti dall’attore con la memoria istruttoria di replica depositata , in primo grado, il 5.1.2001, sulla base dell’erroneo presupposto che essi fossero a prova contraria delle deduzioni e richieste di prova articolate dalla convenuta con la precedente memoria depositata in data 18.12.2000. In realtà, si sostiene, i predetti documenti erano stati prodotti tardivamente e non avrebbero potuto essere esaminati, considerato che la società convenuta, fin dalla comparsa di costituzione e risposta, aveva negato l’esistenza tra le parti di un contratto di appalto e la produzione mirava appunto a rispondere a tale contestazione.
Il motivo è infondato.
Dopo avere precisato che nel caso di specie trovava applicazione, ratione temporis , essendo stato il giudizio iniziato nel 2000, l’art. 184 c.p.c. introdotto dall’art. 18 della legge 26 novembre 1990, n. 353, anteriore alle modifiche apportate dall’art. 39-quater del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273, la Corte di appello ha ritenuto ammissibile la produzione documentale di cui trattasi quale prova contraria alla richiesta avanzata dalla controparte nella precedente memoria, diretta a dimostrare, attrav erso l’assunzione di testi, che le opere di cui le veniva chiesto il pagamento erano state eseguite da altre ditte. Come precisato in sentenza, i documenti prodotti con la memoria di replica
erano i seguenti: 1) copie fatture e bolle di consegna; 2) copia comunicazione inizio lavori; 3) copia distinte versamento effetti cambiari.
Ora, l’interpretazione seguita dalla Corte di appello dell’art. 184 c.p.c., nella versione applicabile, è senz’altro corretta, avendo questa Corte stabilito che il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie è quello dell’adozione dell’ordinanza di ammissione delle prove, ovvero – nel caso in cui il giudice, su istanza di parte, abbia rinviato tale adempimento ad altra udienza – dello spirare di un duplice termine, il primo concesso per la produzione dei nuovi mezzi di prova e l’indicazione dei documenti idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda attorea e delle eccezioni sollevate dal convenuto, il secondo previsto, invece, per l’indicazione della eventuale prova contraria (Cass. n. 26574 del 2017; Cass. n. 12119 del 2013). Tanto precisato, la Corte territoriale, previa disamina delle posizioni assunte dalle parti negli atti introduttivi e successivamente, ha motivato l’ammissione dei documenti affermando che essi erano diretti a provare non tanto e non solo il fatto costitutivo del rapporto in essere tra le parti, vale a dire l’esistenza , contestata dalla società convenuta, del rapporto contrattuale in essere tra le parti, bensì la ‘paternità’ dei lavori asseritamente espletati e la diversità ed ultroneità delle opere eseguite dalla ditta COGNOME rispetto a quelle svolte da altre ditte: per tali ragioni ha riconosciuto a tale documentazione natura di prova contraria rispetto alle prove orali chieste dalla controparte. La motivazione sul punto integra un apprezzamento di fatto, rientrante nella esclusiva competenza de giudice di merito, dotato di evidente coerenza e logicità, che, come tale, si sottrae al controllo di legittimità affidato a questa Corte. Va infatti tenuto conto che, come risulta dagli atti, la deduzione della società convenuta che le opere fossero state eseguite da altre ditte costituiva circostanza nuova, allegata solo in sede di memoria istruttoria, e che per prova contraria, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., deve intendersi la sempl ice controprova rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine (Cass. n. 26574 del 2017; Cass. n. 12119 del 2013).
Il motivo va pertanto respinto.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 159, 163, 183, 184, 194 e 195 c.p.c., lamentando che la Corte di appello abbia fondato la sua decisione su lla relazione del consulente tecnico d’ufficio, che aveva basato le sue conclusioni sui documenti che, in ragione della censura precedente, avrebbero dovuto dichiararsi inammissibili.
Il motivo risulta assorbito dal rigetto del motivo precedente.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 1988, 2702, 2703, 2704, 2727, 2729 e 2697 c.c. e degli artt. 112, 115, 116, 214, 215 e 216 c.p.c., censurando la sentenza per avere utilizzato, come fonte di prova, la notula denominata ‘ proposta transattiva ‘ dell’avv. COGNOME difensore della odierna ricorrente, sulla base del rilievo che la sua acquisizione agli atti non fosse stata contestata, nonostante essa fosse priva di sottoscrizione e fosse priva di riferimenti alle parti in causa.
Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 15, 24 e 111 Cost., dell’art. 28 Codice Deontologico Forense del 17.4.1997 e dell’art. 48 stesso Codice approvato il 31.1.2014, che vietano all’avvocato di ‘ produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte ‘. La sentenza è quindi censurata per avere ritenuto utilizzabile e valutato il documento di cui al precedente motivo, che invece si assume era affetto da inutilizzabilità assoluta, integrando un mezzo di prova illecito, ai sensi delle disposizioni deontologiche citate, trattandosi di atto di corrispondenza intervenuto tra i difensori, e delle norme, anche di rango costituzionale, che tutelano l’inviolabilità della corrispondenza in generale.
Il quarto motivo, che per il suo valore assorbente, va esaminato per primo, è infondato.
In disparte la questione della contestazione della produzione, se e quando formulata dalla parte convenuta, la censura sulla inutilizzabilità del documento non merita di essere accolta.
Si discute se il giudice possa valutare a fini probatori la comunicazione intervenuta tra i difensori delle parti contenente una proposta transattiva.
La tesi della ricorrente è negativa, in quanto la prova sarebbe illecita, essendo la relativa produzione in giudizio vietata al difensore dal Codice Deontologico Forense e perché lesiva del principio di inviolabilità della corrispondenza.
Gli argomenti non colgono nel segno.
In primo luogo perché il documento di cui si tratta, per ovvie ragioni, non è affatto illecito, essendo stato formato nell’esercizio legittimo della attività difensionale, né di provenienza illecita, risultando nella legittima disponibilità del professionista a cui la comunicazione era diretta. La prospettata violazione del principio di inviolabilità della corrispondenza non ha quindi ragione di essere; essa comunque non concernerebbe il documento in sé, ma la sua ostensibilità e la sua conseguente utilizzabilità nel processo. Va poi sottolineato che il documento di cui trattasi è stato valorizzato dalla Corte di appello non sotto il profilo di un volontario parziale riconoscimento di debito, in relazione alla concreta proposta transattiva, ma come fatto storico da cui desumere l’ esistenza del rapporto contrattuale intercorso tra le parti in causa.
La censura in definitiva rimanda per intero alla dedotta violazione del Codice Deontologico Forense, che fa divieto agli avvocati di produrre, riportare o riferire nel giudizio la corrispondenza riservata intrattenuta con i colleghi e, in particolare, le proposte transattive e le relative risposte. Secondo il ricorrente, da tale divieto discenderebbe che la corrispondenza riservata tra avvocati, se prodotta in giudizio, non sarebbe utilizzabile dal giudice come fonte di prova.
La tesi non è condivisibile. Come già chiarito dalla Corte di appello e come sostenuto dal Procuratore Generale nella memoria depositata, la disposizione invocata, per la sua stessa fonte, ha esclusiva rilevanza sul piano deontologico e disciplinare e non è certo diretta a regolamentare se un determinato documento possa o meno essere prodotto in giudizio. La stessa formulazione del divieto, anzi, sembra presupporre, sul piano logico, che la produzione sia possibile. E’ vero d’altra parte, come sostiene i l ricorrente, che le disposizioni dettate dal Codice Deontologico Forense hanno natura di norme giuridiche, ma ciò esclusivamente sotto il profilo della loro vincolatività e della conseguente responsabilità disciplinare del professionista in caso di violazione. La ammissibilità della produzione in giudizio del documento e la sua conseguente
utilizzabilità come mezzo di prova da parte del giudice vanno invece valutate esclusivamente sulla base delle norme di legge di carattere processuale che regolano i tempi e le modalità di tale adempimento, norme che nella specie nemmeno si deduce siano state disattese.
La difesa della ricorrente propone sul punto una sottile distinzione, sul piano processuale, tra ammissibilità della produzione del documento e sua utilizzabilità come prova. La considerazione non è priva di interesse, non mancando i casi in cui la legge processuale sembra preferire porsi più sul versante della utilizzabilità del documento, che su quello, più consueto, della ammissibilità della sua produzione. Può citarsi al riguardo la disposizione di cui all’art. 2 22 c.p.c., nel caso in cui la parte dichiari di non avvalersi del documento nei cui confronti è proposta querela di falso, o l’art. 10 del d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui non sono utilizzabili nel giudizio le dichiarazioni e le informazioni rese nel procedimento di mediazione. L’osservazione svolta dalla ricorrente, tuttavia, non inficia il principio che, salva l’esistenza di una disposizione ad hoc , la produzione del documento in giudizio, se ammissibile sul piano processuale, comporta sempre la possibilità che esso sia valutato come prova dei fatti rilevanti ai fini della decisione. La condizione si ferma al giudizio sulla ammissibilità della produzione; una volta verificata positivamente, il documento è suscettibile di essere utilizzato come fonte di prova. In questo senso va pure richiamata la giurisprudenza di questa Corte, che non ha mancato di chiarire che l’utilizzabilità è categoria che appartiene al solo rito penale, ignota al processo civile, e che le prove precostituite, come appunto i documenti, entrano nel processo attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di pura logica giuridica, attività, queste, contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio che vi presiedono (Cass. n. 33809 del 2021; Cass. n. 7466 del 2013; nello steso senso: Cass. n. 31779 del 2019, secondo cui, in tema di accertamento tributario, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale dall’Ufficio , ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge).
In questa prospettiva va risolto in senso negativo anche il quesito se possa attribuirsi valore di regola generale alla disposizione dettata dall’art. 191 c.p.p., secondo cui: ‘ 1. Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. 2. L’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento ‘. La separazione ed autonomia dei rispettivi ordinamenti sostanziali e processuali e la particolare pregnanza dei beni coinvolti nel processo penale impediscono qualsiasi esportazione di tale regola nel giudizio civile, che trova nella legge un proprio e compiuto sistema di regole processuali. Per di più va osservato che la giurisprudenza penale, seguendo un’autorevole dottrina, è da tempo orientata nel ritenere che l’illegittimità della prova che la rende inutilizzabile è quella che si verifica nella fase della sua ‘acquisizione’, dando così rilevanza alla violazione delle regole processuali attraverso cui la prova viene introdotta in giudizio e non alla inosservanza dei divieti posti dalle norme di diritto sostanziale o extraprocessuali a tutela di altri diritti (Cass. pen., sez.I, n. 27850 del 2020; Cass. pen., sez.V, n. 33560 del 2015).
Il terzo motivo, laddove censura la ritenuta tardività della contestazione del documento, si dichiara assorbito. Le ulteriori critiche, che investono il contenuto del documento e la sua stessa riferibilità al rapporto dedotto in giudizio, appaiono invece inammissibili, investendo uno specifico accertamento di fatto della Corte di appello, che, sulla base della identità del numero di fax da cui esso era stato inviato e di quello del difensore della società convenuta indicato in atti, nonché della testimonian za resa dall’avv. COGNOME ha ricondotto la suddetta proposta transattiva alla lite in corso.
3. Il quinto motivo di ricorso, che denuncia violazione degli artt. 1655, 2697, 2214, 2215, 2216, 2219, 2220, 2702, 2703, 2704, 2709, 2710, 2727 e 2729 e degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., lamenta che la Corte di appello abbia fondato il proprio convincimento sulle fatture e gli altri documenti prodotti da controparte, riconoscendogli natura contabile ed attribuendogli valore indiziario nonostante essi fossero privi di firme riconducibili alla odierna ricorrente, fossero stati emessi da terzi nei riguard i esclusivamente dell’attore e menzionassero, altresì, il cantiere di Casamicciola Terme, e non il cantiere di
INDIRIZZO presso cui la controparte aveva dichiarato di avere eseguito i lavori.
Il motivo è in parte infondato e per il resto inammissibile.
La Corte di appello ha accolto le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio sulla premessa che i documenti contabili prodotti da parte attrice ed esaminati dal consulente (fatture e bolle di accompagnamento relative a materiali, noli, trasporti e forniture), pur non avendo piena efficacia probatoria, avevano tuttavia valore indiziario ed erano pertanto suscettibili di essere valutati unitamente agli altri elementi di prova. La decisione sul punto è corretta, essendo conforme al principio che le fatture provenienti da un terzo estraneo al giudizio, relative a rapporti tra questo ed una delle parti in causa, sono idonee ad offrire elementi probatori, liberamente utilizzabili dal giudice per la formazione del suo convincimento (Cass. n.15037 del 2015). La rilevanza in causa della relativa documentazione conseguiva inoltre dalla circostanza, di cui la sentenza dà atto, che i materiali per l’esecuzione dei lavori dovevano essere forniti dall’appaltatore.
Per il resto il motivo è inammissibile. In primo luogo perché la ricorrente trascura il dato fondamentale che la Corte di appello ha motivato il suo convincimento sulla base di una pluralità di prove, richiamando le dichiarazioni testimoniali e numerosi do cumenti e valorizzando, per l’accertamento dei fatti, la mancata comparizione del legale rappresentante della società convenuta alle udienze fissate per il suo interrogatorio formale, sicché il ricorso avrebbe dovuto dimostrare la decisività, ai fini della decisione adottata, delle prove contestate. In secondo luogo in quanto le censure investono l’apprezzamento delle prove e gli accertamenti di fatto compiti dal giudice di merito, che integrano operazioni i cui risultati non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità.
4. Il sesto motivo di ricorso, che denuncia violazione degli artt. 1655, 1988, 2697, 2702, 2703, 2704, 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 112, 115, 116, 163, 164, 183, 184, 214, 215, 216, 342 e 345 c.p.c., lamenta che la Corte di appello abbia accolto la domanda della controparte sulla base di una sostanziale alterazione e modificazione dei suoi fatti costitutivi, conferendo al contratto di appalto, con riguardo alla natura e durata dei lavori, alla ubicazione del cantiere
ed al prezzo, caratteri diversi da quelli enunciati dall ‘attore a fondamento della sua domanda di pagamento del corrispettivo.
Il mezzo è inammissibile per la genericità delle censure, che non evidenziano né dimostrano elementi idonei ad integrare la dedotta alterazione dei fatti costitutivi della domanda; deve per contro darsi atto che dalla lettura della sentenza impugnata emerge che la statuizione di condanna adottata nei confronti della odierna ricorrente riguarda il saldo dei lavori che sono stati oggetto della domanda formulata in atto di citazione e su cui è sorta controversia tra le parti. Si rileva, inoltre, che le censure proposte sono inammissibili anche perché investono sostanzialmente il potere del giudice di merito, insindacabile da parte di questa Corte, di ricostruire, sulla base degli elementi istruttori, i fatti di causa e di attribuire ad essi il significato ritenuto più congruo ai fini della decisione della controversa.
5. Il settimo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 61, 112, 115, 116, 159, 191, 342 e 345 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., lamentando che la Corte di appello, al fine di accertare l’esistenza tra le parti del contratto di appalto, abbia disposto consulenza tecnica d’ufficio, che aveva finalità solo esplorative, demandando al consulente anche il compito di stabilire ‘ la qualità e la natura del rapporto in essere tra le parti ‘, che è accertamento squisitamente giuridico, estraneo al compito che può essere affida to all’ausiliario.
Il mezzo è inammissibile.
Al di là della criticità rilevata del quesito formulato dalla Corte al consulente tecnico d’ufficio, riportat o in sentenza (pag. 3), risulta chiaramente dalla lettura della decisione che la Corte di appello ha accertato l’esistenza del rapporto contrattuale in essere tra le parti e la sua qualificazione giuridica esclusivamente sulla base degli elementi di prova emersi in istruttoria e quindi indipendentemente dalle risultanze della consulenza tecnica di ufficio. La relazione del consulente è stata invece utilizzata al fine della esatta individuazione delle opere riconducibili, sulla base dei preventivi e degli altri documenti acquisiti, alla attività esecutiva svolta dalla parte attrice ed alla quantificazione del corrispettivo. La censura pecca pertanto di decisività,
rappresentando un elemento rimasto ininfluente sulla decisione della controversia.
6. L’ottavo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 112, 115, 116 e 232 c.p.c. e degli artt. 2727 e 2729 c.c., per avere la Corte di appello ritenuto provati i fatti dedotti con la richiesta di interrogatorio formale del legale rappresentante della società convenuta, per la sua mancata comparizione all’udienza, in assenza delle condizioni richieste dalla legge, non considerando il grave impedimento per motivi di salute addotto dalla difesa e che tale conclusione non era sorretta da ulteriori riscontri probatori.
Il motivo è infondato.
La Corte di appello ha applicato la fattispecie della c.d. ficta confessio , di cui all’art. 232 , comma 1, c.p.c., rilevando che la mancata comparizione del legale rappresentante della società convenuta si era protratta, a causa dei rinvii concessi, per numerose udienze, per un arco complessivo di circa otto anni, senza che tale assenza fosse giustificata da impedimento per una serie di udienze di cui ha analiticamente indicato le date. La decisione sul punto, di ritenere provati i fatti dedotti dall’attore nella richiesta di interrogatorio formale, appare pertanto legittima, per la presenza del presupposto formale richiesto dalla norma in esame e degli altri convergenti elementi di prova di cui la stessa sentenza dà ampiamente atto, mentre la valutazione che ne è scaturita, costituendo esercizio di un potere discrezionale affidato alla legge al giudice di merito, rimane sottratta al sindacato affidato a questa Corte (Cass. n. 32846 del 2024; Cass. n. 4837 del 2018; Cass. n. 19833 del 2014).
7. Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Deve darsi atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in euro 7.500, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
R.G. N. 17573/2020.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 3 luglio 2025.