Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 31990 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 1 Num. 31990 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 4632/2021 R.G. proposto da:
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 2221 del 11 -19/12/2012 il Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, pronunciando sulle domande proposte da COGNOME NOME, COGNOME NOMECOGNOME
COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME NOME, di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME NOME, e di COGNOME NOME nei confronti del Comune di Avellino, con la chiamata in causa di RAGIONE_SOCIALE, dichiarava l’incompetenza del Tribunale Ordinario di Avellino e la competenza della Corte d’Appello di Napoli con riferimento alle domande attoree volte alla determinazione ed al pagamento dell’indennità di occupazione legittima, fissando il termine di mesi tre per la riassunzione innanzi al giudice competente, e rigettava le altre domande attoree, dirette ad ottenere l’accertamento del mancato tempestivo perfezionamento della procedura espropriativa in contestazione da parte del Comune, per essersi verificata, a decorrere dal 27/02/94, la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere per la intervenuta scadenza di entrambi i termini quinquennali per l’ultimazione dei lavori e del procedimento espropriativo e quindi la sopravvenuta illegittimità dell’occupazione, con ogni conseguenza di legge. Il Tribunale dichiarava, altresì, assorbite le domande proposte in via subordinata dal Comune di Avellino nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, compensava per intero tra tutte le parti le spese occorse per la rappresentanza e difesa tecnica e poneva le spese occorse per la consulenza tecnica di ufficio, liquidate come da provvedimento emesso nella medesima data della sentenza, definitivamente a carico degli attori.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 4140/2020 del 17/11 -1/12/2020, notificata il 2/12/2020, rigettava l’appello dagli originari attori proposto avverso la citata sentenza nella parte in cui si chiedeva la riforma della statuizione di rigetto delle domande dirette ad ottenere l’accertamento del mancato tempestivo perfezionamento della procedura espropriativa, mentre accoglieva la domanda di determinazione delle indennità di occupazione legittima maturate nel periodo dal 8/2/1990 al 16/2/1996,
proposta in via di cognizione in unico grado con l’atto di appello, e ordinava al Comune di Avellino di depositare presso la Ragioneria Territoriale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze la somma di € 124.462,68, a tale titolo determinata all’esito di C.T.U., oltre interessi legali con decorrenza dalle scadenze di ogni annualità, compensando le spese del grado tra tutte le parti e ponendo l’onere di C .T.U. a carico solidale degli appellanti e del Comune di Avellino. La Corte di merito riteneva infondata la censura relativa alla violazione dell’art. 1, comma 3, l.n.1 del 1978 sul rilievo che il termine triennale di inizio delle opere ai sensi del citato articolo aveva iniziato a decorrere dalla data di approvazione del CO.RE.C.O delle delibere del 1988, i lavori erano iniziati nel luglio 1991 e il suddetto termine era stato rispettato. La Corte territoriale riteneva altresì infondata la censura sulla violazione dei termini di cui all’art.13 l.n.2359/1865, poiché la delibera di G.M. 1167/1991 aveva disposto una rinnovazione e reiterazione della dichiarazione di pubblica utilità, intervenuta nella piena efficacia della prima dichiarazione (decorrente dal 27 -2 -1989 al 27 -2 -1994), sul rilievo che detta nuova dichiarazione con fissazione di nuovi termini, pur non necessitando di un’intera nuova istruttoria a verifica dell’attualità dell’interesse pubblico, non era stata surrettizia, ossia emessa al solo fine di prorogare i termini, perché necessitata da una variante consistente in un ampliamento. Nello specifico la Corte d’appello rilevava che la nuova dichiarazione di pubblica utilità era da intendersi riferita all’opera nel suo complesso, anche se i lavori di ampliamento non interessavano direttamente il fondo dei Caccese; pertanto era stato rispettato il termine di cinque anni, decorrente dalla citata delibera, poiché i lavori erano stati completati entro il 16 -7 -1996, il decreto di esproprio era stato emesso il 16 -2 -1996 e l’occupazione d’urgenza, disposta con decreto del 5 -1 -1990 n.816, non aveva affatto perso efficacia per il venir meno della dichiarazione di pubblica utilità. La
Corte di merito osservava che era irrilevante la censura relativa all’inapplicabilità dell’art.4 l.n.166/2002, come interpretato dal Tribunale facendo riferimento alla proroga automatica prevista dall’art.22 l.n.158/1991, anche per la denunciata illegittimità costituzionale di detta interpretazione, sul rilievo che il suddetto tema, prospettato dagli appellanti sotto il profilo dell’estensione della proroga di legge anche al termine per l’emissione del decreto di esproprio, concerneva una ratio decidendi ulteriore e/o alternativa del percorso decisionale seguito dal Tribunale, non la principale ratio decidendi , tanto che la scadenza considerata nella sentenza impugnata era fissata al 16 -7 -1996, ovvero a cinque anni dalla delibera del 16 -7 -1991, e non nell’originario termine allungato del biennio. In ogni caso la Corte d’appello confermava come operante la suddetta proroga del periodo di occupazione legittima ex art. 22 l.n.158/1991. Infine la Corte di merito riteneva che la quantificazione dell’importo dovuto a titolo di indennità di occupazione legittima fosse stata correttamente calcolata dal C.T.U. con il criterio sintetico -comparativo.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME quali eredi dell’avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME quale erede di NOME COGNOME e di NOME COGNOME ved. COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME ved. COGNOME, NOME COGNOME quali eredi del sig. NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME quali eredi di NOME COGNOME ved. COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME quali eredi di NOME COGNOME, hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e resistito con separati controricorsi dal Comune di Avellino e da RAGIONE_SOCIALE
Con ordinanza interlocutoria del 29 febbraio 2024 la causa è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione del ricorso in pubblica udienza. La Procura Generale ha depositato conclusioni
scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la «Violazione dell’art. 97 del R.D. n. 383/1934, dell’art. 59 della L. n. 62/1953 e dell’art. 13 della L. n. 2359/1865, nonché dei principi generali sulla dichiarazione di p.u. e sulla sua efficacia, nullità, decadenza, reiterazione. Violazione dell’art. 1, comma III, della L. n. 1/1978 e dell’art. 2909 c.c. Giudicato interno. Violazione dell’art. 1362, I e II comma, e ss. c.c. e dei criteri ermeneutici applicabili ai fini dell’esegesi del provvedimento amministrativo. Violazione del principio esegetico principale della letteralità. Violazione del criterio ermeneutico dell’atto amministrativo costituito dalla successiva azione amministrativa e, quindi, dal contenuto dei successivi atti del procedimento in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omesso esame del fatto decisivo che la dichiarazione di p.u. va individuata nella delibera G.M. n. 366/1988, invece che nella delibera c.c. n. 1296/1988 in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.». Deducono che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello, la dichiarazione di pubblica utilità (di seguito per brevità p.u.) dell’opera pubblica de qua va individuata nella delibera G.M. n. 366 del 27/1/1988, che è stata resa immediatamente esecutiva ai sensi dell’art. 97 del R.D. 383/1934, e non nella successiva delibera consiliare n. 1296/1988. Con la prima delibera erano stati, di riflesso, anche fissati, con decorrenza ed efficacia immediata, i termini previsti dall’art. 13 della L. n. 2359/1865 e, ad avviso dei ricorrenti, detto dato è incontrovertibile, anche perché oggetto di
specifica statuizione, non contestata, né impugnata, della sentenza di primo grado. Rilevano che con la successiva delibera C.C. n. 1296 del 21/7/1988, infatti, il Comune si era limitato a prendere atto della comunicazione dell’intervenuto finanziamento dell’opera da parte dell’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno ed a riapprovare il progetto, senza una nuova adozione della dichiarazione di p.u. e di una nuova fissazione dei termini ex art. 13 della L. n. 2359/1865. Assumono che non sia in alcun modo configurabile nella suddetta delibera una dichiarazione di p. u., anche per la carenza dell’elemento essenziale rappresentato dall’indicazione dei termini ex art. 13 della L. n. 2359/1865, come da giurisprudenza di questa Corte che richiamano (Cass. S.U. 12/6/2015 n. 12182; Cass. S.U. 14/2/2011 n. 3569; Cass. S.U. 26/11/2008 n. 28214). Di conseguenza, ad avviso dei ricorrenti, non ha ragion d’essere la decorrenza ed efficacia, indicata dalla Corte d’appello, dal 27 -2 -1989, data di apposizione del visto dell’organo tutorio in ordine alla citata seconda delibera n.1269/1988. Adducono, pertanto, che il primo grave vizio della sentenza impugnata è quello di aver erroneamente individuato l’atto amministrativo contenente la dichiarazione di p.u. (delibera C.C. n. 1296/1988 invece che delibera G.M. n. 366/1988) e di averle attribuito la decorrenza errata del 27/2/1989, invece che quella corretta del 27/1/1988, ciò desumendosi anche in applicazione del principio esegetico preminente della letteralità, di cui all’art. 1362 c.c., applicabile anche ai fini dell’interpretazione dell’atto amministrativo. Aggiungono che sull’immediata decorrenza, con effetto dal 27/1/1988, dei termini di efficacia della dichiarazione di p.u. da individuarsi nella prima delibera G.M. n. 366/1988, non ha inciso nemmeno il successivo intervento del Co.re.co., perché la delibera in esame era stata dichiarata immediatamente esecutiva e l’intervento dell’organo tutorio non aveva inciso sulla sua efficacia. Deducono, pertanto, che, con
decorrenza dal 27/1/1991, a causa e quale effetto del mancato inizio dei lavori di esecuzione dell’opera pubblica nel triennio all’uopo previsto e dell’applicazione dell’art. 1, comma 3, della L. n. 1/1978: A) si è verificata la decadenza della dichiarazione di p.u., di cui alla delibera G.M. n. 366/1988 dichiarata immediatamente esecutiva; B) si è verificata l’illegittimità sopravvenuta dell’occupazione in via d’urgenza; C) si è costituito il diritto delle ricorrenti di ottenere il ristoro dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dell’area di loro proprietà. Precisano, alla stregua delle argomentazioni suesposte, che i vizi denunciati e sussistenti sono la violazione del giudicato interno ex art. 2909 c.c., per avere il Tribunale espressamente individuato nella delibera n. 366/1988 la dichiarazione di p. u. e la fissazione dei termini, di cui all’art. 13 della L. n. 4359/1865, l’omesso esame di fatti decisivi (dichiarazione di p. u., immediatamente esecutiva, della citata delibera e contenuto della delibera consiliare n.1296/1988, non contenente dichiarazione di p.u., né i termini di cui all’art. 13 della L. n. 2359/1865, e relativa decorrenza dei termini dal 27 -1 -1988), la violazione dell’art. 97 del R.D. n. 383/1934 e dell’art. 59 della L.n. 62/1953 (in ordine alla dichiarazione di immediata esecutività della delibera G.M. n. 366/1988) e infine la violazione dell’art. 1, comma III, della L. n. 1/1978, (per mancato inizio dei lavori nel termine triennale decorrente dal 27/1/1988, ovvero entro il 27/1/1991, e conseguente inefficacia della dichiarazione di p. u. e inefficacia sopravvenuta dell’occupazione temporanea in via d’urgenza).
Premesso, i n via pregiudiziale, che va disattesa l’istanza dei ricorrenti di rimessione della causa alle Sezioni Unite di questa Corte, stante l’insussistenza dei presupposti di cui all’art.374 c.p.c. in relazione a tutte le questioni poste dai ricorrenti, il primo motivo è infondato.
Occorre, per chiarezza espositiva, riepilogare la sequenza temporale, come ricostruita nella sentenza impugnata, del procedimento ablatorio in questione, che si era così articolato: a) con atto G.M. n. 366 del 27.01.1988 e con successivo atto consiliare n. 1296 del 21.07.1988, vistato dal CO.RE.CO. con atto 27/02/1989 prot. n. 8877 verb. n. 39, il Comune di Avellino aveva approvato il progetto per la realizzazione dell’asse di collegamento INDIRIZZO –INDIRIZZO -Area ASI, con contestuale approvazione del piano parcellare grafico e descrittivo annesso al progetto, costituente dichiarazione di p.u. dell’opera e fissazione in anni uno e in anni cinque dei termini, rispettivamente, per l’inizio e l’ultimazione dei lavori e per l’inizio e la definizione del procedimento espropriativo, decorrenti, in mancanza di diversa indicazione, dalla data di esecutività della medesima (27/02/1989); b) con decreto n. 816 del 05.01.1990, il Comune di Avellino aveva disposto l’occupazione temporanea per 5 anni dell’area estesa mq. 2.570 facente parte di un fondo di proprietà dei ricorrenti; c) in data 28.02.1990 il Comune si era immesso nel possesso dell’area; d) con le delibere G.M. n. 1167 del 16.07.1991 e C.C. n. 66 del 10.06.1992 l’Ente aveva riapprovato il progetto e una perizia di variante suppletiva dei lavori, reiterato la dichiarazione di p.u. dell’opera e fissato nuovamente i termini ex art. 13 L. 2359/1865 (in anni uno e in anni cinque, rispettivamente, per l’inizio e il compimento della procedura ablatoria e dei lavori); e) i lavori, iniziati il 16/07/1991, furono ultimati il 29.04.1995; f) il decreto sindacale n. 7521/1995, in attuazione della delibera GM n. 798/1995, aveva prorogato di un anno la durata dell’occupazione di urgenza ai sensi della L. n. 158/1991; g) con decreto n. 8849 del 16/02/1996 il Comune aveva disposto l’espropriazione dell’area occupata. Sulla scorta di tali premesse, le attrici sostennero che il decreto di esproprio dovesse considerarsi inutiliter datum , poiché era stato tardivamente emesso
quando l’occupazione era divenuta illegittima ed era decaduta la dichiarazione di p.u. per la scadenza dei termini fissati ex art. 13 L. 2359/1865, del termine triennale per l’inizio dei lavori fissato dall’art. 1 L. 1/1978 e del termine di occupazione legittima. Le attrici chiesero, pertanto, la condanna del Comune al risarcimento del danno per la perdita dell’area illegittimamente occupata e al pagamento dell’indennità di occupazione legittima.
Ciò posto, le diffuse e articolate, invero non del tutto lineari, argomentazioni dei ricorrenti svolte con il primo mezzo si basano essenzialmente sulle seguenti ragioni: α) la dichiarazione di p. u. è da individuarsi solo nella prima delibera della G.M. n.366 del 27 -1 -1988 ed è dalla data di detta delibera di approvazione del progetto, e non dalla data della successiva delibera del C.C. n.1296/1988 e neppure dalla data di approvazione del CO.RE.CO. del 27 -2 -1989, che decorrono i termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori (nella specie iniziati il 16 -7 -1991 e ultimati il 29 -4 -1995), termini, ad avviso delle ricorrenti, non rispettati con la conseguente cessazione di efficacia della dichiarazione di p. u.; β) il Tribunale aveva preso in considerazione solo la prima delibera citata e in ordine a tale statuizione vi sarebbe giudicato; γ) non erano stati esaminati i fatti decisivi, che si assumono non contestati, costituiti dalla dichiarazione di p. u., immediatamente esecutiva, della prima delibera n.366/1988, dal contenuto della delibera consiliare n.1296/1988, priva della dichiarazione di p. u. e dei termini di cui all’art. 13 della L. n. 2359/1865.
Rispetto alla questione sub α), è dirimente il principio secondo cui « in tema di espropriazione per pubblica utilità, il termine triennale entro il quale, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge n. 1 del 1978, vanno iniziate le opere -termine previsto a pena di inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e di quella di indifferibilità ed urgenza -non decorre dalla data di adozione di queste ultime, ma da quella in cui il relativo provvedimento abbia
ottenuto il visto o la registrazione da parte dell’organo di controllo, giacché solo da questo momento la dichiarazione di pubblica utilità (ovvero gli atti ad essa equipollenti) acquista efficacia, e in assenza del quale le opere sono ineseguibili» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11841 del 22/05/2007). Questa Corte ha, infatti, chiarito, con orientamento che il Collegio condivide ed intende qui ribadire, che, ai sensi della L. 3 gennaio 1978, n. 1, art. 1, comma 1, (recante “accelerazione delle procedure per la esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali”), l’approvazione dei progetti di opere pubbliche da parte degli organi competenti (statali, regionali e degli altri enti territoriali) “equivale a dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità delle opere stesse”. Il comma 3 stabilisce poi che “gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza e indifferibilità cessano se le opere non hanno avuto inizio nel triennio successivo all’approvazione del progetto”. Mentre il successivo art. 6 aggiunge che “gli atti deliberativi degli enti locali territoriali, dei loro consorzi e delle comunità montane, concernenti l’esecuzione delle opere di cui all’articolo 1, possono essere delegati, per periodi di tempo prestabiliti e per importi determinati, alle giunte o comitati direttivi degli enti predetti. Tali atti deliberativi sono immediatamente esecutivi”. Tanto questa Corte, quanto i giudici amministrativi hanno interpretato detta normativa nel senso che l’immediata esecutività delle deliberazioni degli enti locali territoriali, prevista dal menzionato art. 6, si riferisce ai soli atti concernenti l’esecuzione delle opere, e quindi ai provvedimenti attuativi delle opere progettate, a cominciare dalla scelta del contraente: senza perciò estendersi agli atti di approvazione dei progetti, cui è correlata la dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità delle opere stesse, giacché per questi ultimi l’esecutività presuppone il superamento del prescritto controllo destinato a verificarne la legittimità. Poiché il termine di natura
acceleratoria introdotto dal comma 3 è legato alla sussistenza della dichiarazione di p. u. ed alla sua inosservanza, è necessariamente dal momento in cui quest’ultima diviene efficace per l’esito favorevole dei controlli previsti dalla legge che può iniziare a decorrere il termine concesso dalla norma per l’esecuzione dei lavori onde impedirne la decadenza. Ciò in conformità alla regola generale che in pendenza del visto e/o della registrazione dell’organo di controllo, l’efficacia del provvedimento ad esso sottoposto resta sospesa e che dunque nell’ipotesi prevista dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, la delibera di approvazione del progetto non può essere eseguita, né dare inizio ad alcuna procedura ablativa. Diversamente opinando, si verificherebbe la situazione, assolutamente abnorme, di decorrenza, ancor prima del momento di cui si è detto, del termine perentorio al cui spirare lo stesso legislatore ha collegato quale grave conseguenza la inefficacia della dichiarazione di p. u., senza peraltro che l’espropriante possa compiere alcun atto onde impedirla se non iniziando l’opera abusivamente su fondo altrui, ed in mancanza di qualsiasi titolo autorizzativo allo svolgimento del procedimento prescritto dal legislatore per realizzarla (così Cass. 11841/2007 citata). E’ stato altresì precisato da questa Corte che la suddetta interpretazione consente di coordinare la norma in esame anche con il successivo art. 6, ove il richiamo al momento dell’esecuzione delle opere ha lo scopo di circoscrivere il tipo di atti in relazione ai quali è prevista l’esecutività immediata. Si tratta, cioè, dei provvedimenti attuativi delle opere progettate, distinti da quelli di approvazione dei progetti cui è correlata la dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità delle opere stesse; sicché l’immediata esecutività ben si giustifica (in una prospettiva di accelerazione delle procedure) per gli atti concernenti l’esecuzione delle opere, a cominciare dalla scelta del contraente cui affidarle, dopo, però, che l’atto iniziale, in cui si esprime la determinazione dell’ente
territoriale di approvare il progetto, così dichiarandolo di pubblica utilità, abbia superato il prescritto controllo destinato a verificarne la legittimità (cfr. in senso conforme Cass. 40878/2021, in fattispecie sovrapponibile alla presente; Cass. 7504/2003; Cass. 1475/1998). Nel caso di specie, pertanto, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, correttamente la Corte di merito ha fatto decorrere il termine di inizio lavori dal 27 -2 -1989, data di esecutività del provvedimento a seguito dell’avvenuto visto dell’organo di controllo, e ciò a prescindere dalla dedotta erroneità dell’individuazione della delibera del Comune contenente la dichiarazione di p. u., che diventa, in forza degli assorbenti rilievi che precedono, irrilevante sotto il profilo invocato in ricorso (la prima delibera, richiamata dalla seconda, è divenuta anch’essa esecutiva solo dal 27 -2 -1989, né i ricorrenti indicano diversa data di visto dell’organo tutorio). Di conseguenza, il termine triennale di inizio lavori previsto dall’art. 1, comma 3, della l. n. 1 del 1978, per l’inizio dei lavori è stato rispettato, poiché i lavori erano iniziati il 16 -7 -1991, dato fattuale affermato dalla Corte territoriale e non censurato (cfr. Cass. n.26763/2016).
Quanto alla questione sub β), ossia a quella relativa al dedotto passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale in punto individuazione della dichiarazione di pubblica utilità, che, come si è detto, si assume avvenuta, ad avviso dei ricorrenti, con la prima delibera della G.M. n.366 del 27 -1 -1988, le censure espresse al riguardo, da un lato, sono prive di rilevanza per quanto si è appena detto e, dall’altro lato e in ogni caso, sono prive di fondamento circa la lamentata violazione del giudicato interno. La giurisprudenza più recente di Corte ha, infatti, chiarito, esprimendo un orientamento a cui il Collegio intende dare continuità, che, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di
acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi, come si è verificato nel caso di specie, riapre la cognizione sull’intera statuizione (Cass.n.2217/2016 e Cass. n.24783/2018).
Quanto alla questione sub γ), le censure come formulate, ossia sub specie del vizio di omesso esame di fatto decisivo, sono inammissibili sia perché non concernono un fatto storico -naturalistico, ma l’interpretazione dei provvedimenti (delibere del 1988 citate) sia perché, e in ogni caso, il tema in discussione (inizio dei lavori nel termine triennale ex art.1, comma 3, l.n.1/1978 ed efficacia esecutiva delle delibere del 1988) è stato indubbiamente, e approfonditamente, scrutinato dalla Corte d’appello.
8. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano «Gradatamente, Estraneità delle delibere G.M. n. 1167 del 16/7/1991 e C.C. n. 66 del 10/6/1992 al procedimento espropriativo. Violazione degli artt. 1362, I e II comma, e ss. c.c. e dei principi generali in tema di interpretazione degli atti amministrativi. Giuridica inesistenza, inefficacia e nullità delle predette delibere. Oggettiva inconfigurabilità di una valida ed efficace reiterazione della dichiarazione di p.u. Mancata adozione di una proroga della dichiarazione di p.u. Violazione dell’art. 13 della L.n. 2359/1865 e dei principi generali in tema di dichiarazione di p.u. e sua nullità, efficacia, decadenza, reiterazione e proroga. Carenza assoluta di potere. Violazione dell’art. 2909 c.c. e del giudicato interno sulla giurisdizione del G.O. Violazione dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Violazione dell’art. 1362, I e II comma, e ss. c.c. e dei criteri ermeneutici applicabili ai fini dell’esegesi del
provvedimento amministrativo. Violazione del principio esegetico principale della letteralità. Violazione del criterio ermeneutico dell’atto amministrativo integrato dalla successiva azione amministrativa e, quindi, dal contenuto dei successivi atti del procedimento. Violazione dell’art. 1367 c.c. e del principio di conservazione dell’atto amministrativo in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.». Deducono che le delibere G.M. n. 1167 del 16/4/1991 e C.C. 30/6/1992 n. 66 sono giuridicamente inesistenti ed inefficaci, e, comunque, sono nulle per violazione dell’art. 13 della L. n. 2359/1865 ed, in ogni caso, sono state adottate in evidente ed assoluta carenza di potere. Ad avviso dei ricorrenti entrambe le suddette delibere non hanno avuto alcuna effettiva e reale attinenza al procedimento ablativo inerente la loro proprietà, poiché contengono, solo, la adozione della dichiarazione di p. u. con riferimento alle distinte e diverse superfici, oggetto della perizia di variante approntata per porre rimedio al marginale e contenuto sconfinamento rispetto al progetto approvato con la dichiarazione di p. u., di cui alla delibera G.M. n. 366 del 27/1/1988 -conseguente all’ampliamento della galleria artificiale “Archi” verso est, che erano state oggetto di un successivo distinto procedimento di occupazione, da cui assumono essersi originato un diverso e successivo procedimento espropriativo. Inoltre rilevano i ricorrenti che, anche qualora detta attinenza fosse configurabile, le suddette delibere non hanno, comunque, prodotto o sortito alcun effetto di proroga della dichiarazione di p.u. afferente l’area per cui è causa, e ciò per l’assenza dell’elemento essenziale costituito dalla pre -fissazione di un termine finale certo e definito, richiesto a pena di nullità, e la successiva mancata adozione di un provvedimento di proroga dell’efficacia dell’originaria dichiarazione di p.u.. Ad avviso dei ricorrenti, il Comune ha adottato, in assenza di potere, il decreto sindacale 2/2/1995 inefficacemente e tardivamente, ovvero in palese carenza di potere, solo dopo l’indebita decadenza
dell’originaria, e non prorogata, dichiarazione di p.u., di cui alla delibera G.M. n. 366 del 27/1/1988. In ogni caso, rilevano che alla data di adozione delle suddette delibere la dichiarazione di p.u. non era decaduta, in quanto, secondo lo stesso postulato della Corte d’Appello, era, invece, efficace fino al 27/2/1994, ragion per cui si deve escludere che le due delibere possano aver effettivamente dato luogo alla rinnovazione o reiterazione della dichiarazione di pubblica utilità, perché “i termini non erano scaduti” e, dunque, non era affatto integrata e, nemmeno, configurabile l’ipotesi di cui all’art. 13, III comma, della L. n. 2359/1865, sicché se ne deve desumere la palese nullità, anche per la carenza di “causa”, di oggetto e di collegamento funzionale con la vicenda espropriativa de qua, che integrerebbe gli estremi della carenza assoluta di potere. Sotto ulteriore profilo i ricorrenti aggiungono che sia la delibera G.M. n. 798 del 2/2/1995, sia il successivo decreto sindacale 7/2/1995 ed, a fortiori, anche il successivo decreto di espropriazione del 16/2/1996, sono nulli, sono stati adottati in evidente ed assoluta carenza di potere e sono, dunque, privi di efficacia giuridica, ovvero tamquam non esset, in quanto l’occupazione dell’area per cui è causa era divenuta illegittima già in precedenza (ossia, secondo i ricorrenti -pag.55 ricorso -, in via principale, con decorrenza dal 27/1/1991, per le ragioni esposte nel primo motivo di ricorso; gradatamente con effetto dal 27 -1 -1993 ex art.13 della l.n.2359/1985 alla scadenza del quinquennio decorrente dalla delibera G.M. n.366/1988 immediatamente esecutiva; in via ancora più gradata, con decorrenza dal 27/2/1994, nella diversa ipotesi in cui, invece, si ritenga, come affermato dalla Corte d’appello, che la decorrenza del termine di cui all’art. 13 della L. n. 2359/1865 avesse avuto inizio dal 27/2/1989, data di apposizione del visto dell’organo tutorio alla delibera C.C. n. 1296 del 21/7/1988). In conclusione, assumono i ricorrenti che le due delibere di cui trattasi non siano
configurabili né come proroga, né come reiterazione della dichiarazione di pubblica utilità, ma solo, in applicazione del principio di conservazione dell’atto amministrativo, come atti di approvazione della variante tecnica suppletiva relativa alle aree marginali e di ristretta dimensione, interessate dall’estensione della galleria artificiale Archi verso est, che erano nettamente distinte e diverse da quella per cui è causa, e di conseguente adozione, limitatamente a tali aree diverse e distinte da quelle per cui è causa, di una nuova dichiarazione di pubblica utilità.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la «Violazione dell’art. 12, I comma, disp. prel. al c.c., dell’art. 13 della L. n. 2359/1865, dell’art. 4 della L. n. 166/2002, dell’art. 22 della L. n. 158/1991, degli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 della Cost. e, ancora, dell’art. 1 del Primo Protocollo della CEDU e, infine, dell’art. 7 del T.U. e dell’art. 47 della Carta di Nizza in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’illegittimità costituzionale e istanza di remissione al Giudice delle leggi della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della L. n. 166/2002 e, ancora, violazione dell’art. 23 della L.n. 87/1953 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.) ». I ricorrenti affermano che l’interpretazione dell’art.4 della l.n.166/2002 fornita dai giudici di merito è errata e contraria alla ratio legis, a principi di rango costituzionale nonché ai principi di cui all’art.1 del primo protocollo della Cedu, considerato che la dichiarazione di pubblica utilità è il presupposto per l’espropriazione e ad essa sono subordinati sia la durata dell’occupazione legittima, sia l’efficacia del relativo decreto. Rilevano, peraltro, che l’art.4 della l. n.166/2002 non è applicabile ratione temporis e chiedono che, ove si ritenga detta norma come di interpretazione autentica, la questione sia rimessa alla Corte costituzionale in relazione al contrasto con gli articoli indicati nella rubrica del motivo.
I motivi secondo e terzo, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
Il secondo motivo concerne, in sintesi e principalmente, la questione della violazione dei termini previsti dall’art.13 l.n.2359/1865, in relazione alla reiterazione o proroga della dichiarazione di P.U., avvenuta con la delibera del 1991 secondo la Corte territoriale, mentre il terzo motivo concerne la questione della proroga ex lege sia del termine dell’occupazione legittima, sia del termine di efficacia della dichiarazione di p.u. ex art. 22 l. n. 158/1991.
Occorre rilevare che sono due le rationes decidendi , autonome ed entrambe idonee da sole a sostenere il decisum , su cui è fondata la statuizione del Tribunale di rigetto delle domande, come evidenziato anche dalla Corte d’appello (pag. 15 della sentenza) che, nel condividere anche la seconda ratio, ha confermato come operante la proroga del periodo di occupazione legittima ex art. 22 l.n.158/1991 (pag. 16) . Nello specifico l’infondatezza delle pretese volte a sostenere la scadenza dei termini del procedimento espropriativo è motivata dai giudici di merito anche sull’assunto della piena applicabilità automatica della proroga prevista dall’art.22 della l.n.158/1991 per le occupazioni in corso all’1 -1 -1991 (cfr. pag.6 e pag.16 della sentenza impugnata).
Ora, rispetto a quest’ultima ratio , che conduce all’infondatezza delle pretese azionate anche qualora si ritenga individuata la scadenza iniziale della dichiarazione di p. u. alla data del 27 -2 -1994 (cfr. le considerazioni svolte nel paragrafo sul primo motivo), e non solo alla data di scadenza dei 5 anni dalla delibera del 1991, le doglianze svolte in ricorso non colgono nel segno, come evidenziato anche dalla Procura Generale, per le plurime ragioni che si vanno ad illustrare.
L’art. 22 l.n.158/1991 (che, si ribadisce, la Corte d’appello ha confermato come operante – pag.16 -) si applica ratione temporis poiché la norma è intervenuta quando non era ancora decorso il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (con
scadenza il 27 -2 -1994 perché iniziava a decorrere dal 27 -2 -1989, come si è detto nella disamina del primo motivo). Neppure era scaduto il termine dell’occupazione d’urgenza disposta con decreto del 5 -1 -1990 n.816, con immissione in possesso in data 28 -2 -1990 (pag.14 sentenza – gli stessi ricorrenti espongono che con decreto n. 816 del 05.01.1990, il Comune di Avellino aveva disposto l’occupazione temporanea per 5 anni dell’area estesa mq. 2.570 facente parte di un fondo di loro proprietà).
Ciò posto, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di chiarire ripetutamente che « la legislazione particolare intervenuta nel settore proprio nel decennio in questione ha comportato: una prima proroga automatica di un anno per le occupazioni d’urgenza in corso per effetto della L. n. 42 del 1985, una seconda, questa volta di due anni per effetto della successiva L. n. 47 del 1988, una terza ancora di due anni in conseguenza della L. n. 158 del 1991;un’ultima disposizione di collegamento contenuta nella L. n. 166 del 2002, art. 4 in base al cui art. 4 tutte le proroghe disposte dalla normativa emergenziale e, quindi, anche quelle introdotte dalle menzionate disposizioni legislative del 1985, del 1988 e 1991, specificamente ricordate, devono intendersi con effetto retroattivo, riferite ai procedimenti espropriativi comunque “in corso alle scadenze previste dalle singole leggi e si intendono efficaci anche in assenza di atti dichiarativi delle amministrazioni procedenti”; e l’effetto di proroga deve infine essere esteso anche ai connessi procedimenti espropriativi, compreso il termine per l’emissione del decreto di esproprio, essendo illogica la previsione del perdurare di un regime occupatorio temporaneo senza il corrispondente slittamento dei termini utili per il completamento del procedimento ablativo » ( così Cass. 10394/2012; Cass. sez. un. 2630/2006; nonché 10216/2010). Le Sezioni Unite di questa Corte, nonché la giurisprudenza amministrativa hanno concluso che, per effetto delle menzionate disposizioni legislative, non soltanto le occupazioni
temporanee e d’urgenza, ma anche le dichiarazioni di p. u. che ne costituiscono un presupposto indefettibile sono state prorogate di un corrispondente periodo, onde evitarne la scadenza diacronica: in conformità del resto alla finalità di detta legislazione di predisporre un apposito apparato normativo onde protrarre automaticamente la validità dei procedimenti di espropriazione in corso in attesa che il Parlamento procedesse all’approvazione della nuova disciplina delle indennità di esproprio resa necessaria secondo la Corte Costituzionale dalle note declaratorie di incostituzionalità di cui alle proprie decisioni 5/1980 e 223/1983 (Cass. 8734/1997; Corte Cost. 163/1994 e 244/1993).
E’ stato ulteriormente ribadito da questa Corte con pronunce più recenti (Cass. 11481/2016; Cass.9574/2018) che le proroghe dei termini di scadenza delle occupazioni di urgenza stabilite da varie disposizioni di legge (nella specie, l’art. 22 della l. n. 158 del 1991) e di cui all’art. 4 della l. n. 166 del 2002 si applicano, con effetto retroattivo, anche ai procedimenti espropriativi in corso alle scadenze previste dalle singole leggi e si intendono efficaci anche in assenza di atti dichiarativi delle Amministrazioni precedenti, deponendo in tal senso sia la lettera della norma – che, con l’avverbio “anche” («…riferite anche…»), manifesta l’intento del legislatore di estendere gli effetti delle proroghe precedentemente disposte oltre i confini segnati ai termini di scadenza delle sole occupazioni d’urgenza – sia la ratio legis , essendo diversamente inconcepibile il legittimo perdurare di un regime occupatorio temporaneo senza il corrispondente slittamento dei termini utili per l’emissione del decreto definitivo di esproprio (così Cass. 11481/2016 citata).
La questione di legittimità costituzionale della disciplina in questione è stata già scrutinata dal Giudice delle leggi, come ribadito dalle pronunce anche delle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 2630/2006 citata) . La Corte Costituzionale con
sentenza n. 163/1994 (e con la precedente 244/93) ha già dichiarato manifestamente inammissibile la questione di incostituzionalità delle norme di cui trattasi, affermando: ‘ La Corte è chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale degli artt. 5 della legge 29 luglio 1980, n. 385; 5-bis (rectius: 1, comma 5- bis) del decreto-legge 22 dicembre 1984, n. 901, convertito nella legge 1 marzo 1985, n. 42; 14, secondo comma, del decreto legge 29 dicembre 1987, n. 534, convertito nella legge 28 febbraio 1988, n. 47; 22 della legge 20 maggio 1991, n. 158; i quali hanno prorogato i termini di scadenza delle occupazioni d’urgenza autorizzate ai sensi dell’art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865. La questione è da reputare non fondata, per le stesse ragioni che la Corte ha posto a base della precedente sentenza n. 244 del 1993, con la quale ha già ritenuto di non accogliere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, secondo comma, del decreto-legge 29 dicembre 1987, n. 534, e dell’art. 22 della legge 20 maggio 1991, n. 158, in relazione agli artt. 24 e 42 della Costituzione. Come già rilevato nella predetta sentenza n. 244 del 1993, le norme impugnate sono state emanate (secondo quanto si evince anche dai lavori parlamentari) al fine di protrarre la validità delle occupazioni dei suoli connesse ai procedimenti espropriativi, in attesa che il Parlamento procedesse all’approvazione della nuova disciplina delle indennità di esproprio, dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale – da parte della sentenza n. 5 del 1980 dei criteri di determinazione delle stesse. La nuova normativa in materia, nonostante la sua urgenza, ha avuto, però, una elaborazione particolarmente faticosa e complessa, anche perché la prima disciplina dettata dalla legge n. 385 del 1980, dopo la declaratoria di incostituzionalità di cui alla menzionata sentenza n. 5 del 1980, fu, a sua volta, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 223 del 1983, per violazione degli artt. 42 e 136 della Costituzione. Il lungo e laborioso iter si è finalmente concluso con
la legge 8 agosto 1992, n. 359 (art. 5- bis aggiunto, in sede di conversione, al decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333) ‘.
Dunque, come ben rimarcato anche dalla Procura Generale, la Corte Costituzionale, pur dando atto che le leggi di proroga hanno investito un periodo di tempo sicuramente lungo, ha valorizzato la situazione di fatto sussistente al momento dell’approvazione della proroga emanata con legge n.158/1991, caratterizzata da una serie di interventi normativi complessi concernenti ablazioni parzialmente incise da pronunce di illegittimità costituzionale, ed ha ritenuto che detta situazione giustificasse l’ulteriore compromissione dei diritti del proprietario garantiti dall’art. 42, secondo comma, Cost. anche alla luce del noto principio della funzione sociale della proprietà privata e della possibile limitazione del godimento della stessa per fini di utilità sociale.
Le censure dei ricorrenti, pertanto, non colgono nel segno neppure nella parte in cui prospettano l’illegittimità costituzionale della disciplina in questione (pag.71 e seguenti del ricorso), mentre risulta inconferente il richiamo a Cass. S.U.10024/2007, che non tratta dell’applicabilità della proroga ex l.n.158/1991, e per le stesse ragioni è inconferente anche il riferimento alla pronuncia n.64/2006 della Corte Costituzionale, che, peraltro, ha dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata con riferimento all’art.4 l.n.166/2002 ed è priva di vincolatività nel senso invocato in ricorso.
Dalle suesposte considerazioni consegue che nella fattispecie non soltanto l’occupazione d’urgenza temporanea (iniziata il 28 -2 -1990 e che sarebbe inizialmente scaduta il 28-2-1995), ma anche la dichiarazione di p. u., con iniziale scadenza alla data del 27 -2 -1994 , erano state prorogate ex lege di due anni ciascuna. Quindi il decreto di esproprio, emesso il 16-21996, e l’ultimazione dei lavori, avvenuta il 29-4-1995 (pag.6 sentenza impugnata), erano intervenuti tempestivamente, entro il termine prorogato ex lege .
11. Per completezza espositiva, benché le considerazioni che precedono siano già del tutto dirimenti ai fini del decidere, va aggiunto che sono infondati anche gli altri profili di censura inerenti alla reiterazione o proroga della dichiarazione di p. u. (secondo motivo). L’art. 13 legge 2359/1865 prevede: ‘Nell’atto che si dichiara un’opera di pubblica utilità saranno stabiliti i termini, entro i quali dovranno cominciarsi e compiersi le espropriazioni ed i lavori. L’Autorità che stabilì i suddetti termini li può prorogare per casi di forza maggiore o per altre cagioni indipendenti dalla volontà dei concessionari, ma sempre con determinata pre-fissione di tempo. Trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace e non potrà procedersi alle espropriazioni se non in forza di una nuova dichiarazione ottenuta nelle forme prescritte dalla presente legge. ‘
Nella specie, come in quella scrutinata da Cass. 19469/2019 e da Cass. 40878/2021, la Corte di merito ha rilevato che il progetto era stato riapprovato con delibere emesse prima della scadenza dei termini (pag.6 sentenza – 5 anni dal 27-2-1989 ossia prima del 27-2-1994) ed ha perciò affermato la validità del decreto di esproprio, dando corretta applicazione al principio secondo cui l’inutile decorso del termine previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità comporta la sopravvenuta inefficacia del relativo provvedimento qualora “non prorogato né modificato” (Cass. n. 20459 del 2005). Quando – come nella specie – il termine di efficacia sia stato modificato tempestivamente (prima della scadenza), la dichiarazione di pubblica utilità resta efficace e il decreto di esproprio è quindi valido se emesso medio tempore (nel periodo di efficacia della suddetta dichiarazione), e neppure può dirsi illecita l’attività materiale già compiuta (così Cass. del 2019 citata).
I ricorrenti, a confutazione di quanto sopra, nella memoria illustrativa deducono che le delibere del 1991 sarebbero atti
meramente interni e in esse difetterebbe l’elemento essenziale e strutturale della determinata pre -fissione del tempo della scadenza della dichiarazione di p. u., richiesta espressamente dal secondo comma dell’art.13 l.n.2359/1865. Al riguardo si osserva che la prima argomentazione è generica, in difetto della compiuta spiegazione delle ragioni fondanti la suddetta qualificazione di ‘atti interni’, a fronte degli specifici assunti in senso contrario della Corte d’appello, in disparte il rilievo della palese contraddittorietà della suddetta deduzione difensiva rispetto all’ulteriore argomento, pure svolto in ricorso, secondo cui con le suddette delibere del 1991 avrebbe preso avvio un altro distinto procedimento espropriativo, il che è incompatibile, all’evidenza, con la loro natura di ‘atti interni’.
Parimenti inammissibile è la seconda argomentazione propugnata dai ricorrenti circa l’interpretazione del contenuto delle delibere del 1991. Occorre ribadire che l’interpretazione degli atti amministrativi a contenuto non normativo soggiace alle regole dettate per i contratti, in quanto compatibili, risolvendosi in un accertamento della volontà negoziale della p.a. riservata al giudice di merito, per la cui censura in sede di legittimità non è sufficiente un astratto richiamo agli artt. 1362 e ss. c.c., ma è necessaria la specificazione dei canoni ermeneutici che in concreto si assumono violati e la precisa indicazione dei punti della motivazione che se ne discostano, nei limiti di quanto previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per il caso di violazione di legge, o per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. 20181/2019; Cass. 15367/2024). I n ricorso si prospetta un’opzione ermeneutica dei suddetti atti amministrativi diversa da quella motivatamente fornita dalla Corte di merito, senza compiutamente e specificamente indicare in che modo si sia realizzata la violazione dei criteri ermeneutici, genericamente dedotti, e quali siano gli elementi
indicativi di una difforme volontà ivi espressa dall’ente pubblico, e quindi senza un reale confronto con quanto affermato nella sentenza impugnata. La Corte d’appello, sul punto, ha precisato che la delibera G.M. n.1667/1991 riguardava la realizzazione della stessa opera di quella della delibera n.366/1988 (progetto asse di collegamento di PRG INDIRIZZO INDIRIZZO –INDIRIZZO) e introduceva una variante, conteneva la dichiarazione di p. u. e i termini; ha aggiunto che si trattava, quindi, del medesimo progetto di opera pubblica in cui rientravano anche i fondi dei Caccese e che, per effetto dell’introduzione della variante, il progetto dell’opera era stato modificato ed erano stati stabiliti nuovi termini (ossia, contrariamente a quanto pare sostenersi in ricorso, i nuovi termini erano stati fissati – pag. 13 sentenza). Orbene queste puntuali considerazioni, anche in fatto, non sono oggetto di una critica compiuta e pertinente.
12. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la «Violazione dell’art. 111 Cost., Violazione dell’art. 132 c.p.c. Motivazione inesistente, perplessa, contraddittoria, abnorme in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nonché violazione degli artt. 39 e 40 della L.n. 2359/1865 e dei principi generali sula determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione legittima, Violazione dell’art. 116 c.p.c. e dei principi generali sulla valutazione delle prove »; deducono che la Corte di merito ha erroneamente quantificato l’indennità di occupazione legittima in €124.462,78, pur dichiarando di condividere pienamente la stima del C.T.U., il quale, invece, nella relazione integrativa, aveva quantificato l’indennità suddetta, relativa al periodo dal 28 -2-1990 al 16-21996, nell’importo di €203.158,15 (pag.11 relazione integrativa del C.T.U.), stimando il valore unitario alla data di adozione del decreto di espropriazione (febbraio 1996).
13. Il motivo è fondato.
I ricorrenti deducono la discrasia sopra descritta con sufficiente specificità, trascrivendo nel ricorso stralci dell’integrazione peritale del 25-9-2019 (cfr. da pag.93 a pag. 96 del ricorso), sicché risulta effettivamente incomprensibile la quantificazione dell’indennità di occupazione legittima nella minor somma di €124.462,78 , pur avendo al contempo la Corte di merito affermato di condividere integralmente le conclusioni dell’ausiliario. Sul punto il Comune non ha preso specifica posizione, poiché ha solo richiamato, in modo inconferente, le conclusioni del proprio C.T.P., mentre RAGIONE_SOCIALE ha affermato che la questione era stata oggetto di istanza di correzione materiale presentata dagli odierni ricorrenti, allegata al controricorso, ma nessuna delle parti, nei successivi atti difensivi, ha dato conto dell’esito della suddetta istanza.