Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 15340 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 15340 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11207/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocata COGNOME NOME
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOMECOGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOMECOGNOME che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME COGNOME
-controricorrenti- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 309/2019 depositata il 28/01/2019.
Udita la relazione svolta nella udienza pubblica del 06/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha concluso per l’accoglimento del nono motivo di ricorso.
Uditi gli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1.La RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso articolato in nove motivi avverso la sentenza n. 309/2019 della Corte d’appello di Bologna, depositata il 28 gennaio 2019.
Resistono con controricorso NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (erede di NOME COGNOME), NOME COGNOME e NOME COGNOME (le ultime due eredi di NOME COGNOME).
2. – La causa ebbe inizio con la citazione notificata il 29 luglio 2004 da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME COGNOME e NOME COGNOME alla ADRAGIONE_SOCIALE Gli attori dedussero di essere proprietari di un immobile sito al piano terreno dell’edificio di INDIRIZZO di Bologna (INDIRIZZO, civico INDIRIZZO, costituito da locale unico destinato ad autorimessa, e lamentarono che la società convenuta, proprietaria dell’unità immobiliare adiacente, avesse eseguito nella notte tra il 17 e il 18 dicembre 2003, opere illegittime sul muro di confine, aprendo due vedute e una porta che erano state chiuse sin dal 1951. Tale intervento eseguito dalla convenuta aveva reso inutilizzabile l’autorimessa sino al ripristino, ciò cagionando un danno pari al valore dei posti auto disponibili. La domanda degli attori era perciò volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità delle opere eseguite dalla AD. Real, oltre che il risarcimento dei danni.
La RAGIONE_SOCIALE replicò di essere proprietaria dell’immobile uso ufficio sito in INDIRIZZO e che il titolo di acquisto con il quale l’originario proprietario aveva alienato tale immobile al dante causa della medesima convenuta, atto Notaio COGNOME del 27 novembre 1953, prevedeva espressamente la facoltà per il proprietario di aprire finestre e porte sui muri condominiali. La convenuta espose che la sua unità immobiliare era da sempre stata munita di tre aperture prospicienti il porticato e il chiostro interno dell’edificio, fin quando di recente ignoti avevano chiuso dall’esterno le stesse. La RAGIONE_SOCIALE allegò il proprio diritto a mantenere le aperture oggetto di contestazione, in considerazione della natura comune del chiostro e del porticato su cui esse si affacciavano, e perciò domandò in riconvenzionale di accertare la condominialità del chiostro e del porticato su cui si aprivano le finestre e la porta controverse, ovvero il diritto reale di uso o di servitù di passo sulla medesima area o su parte di essa. L’adito Tribunale di Bologna, con sentenza del 12 dicembre 2014, dichiarò la illegittimità delle opere eseguite dalla RAGIONE_SOCIALE, condannando la convenuta al ripristino e a risarcire il danno. In particolare, il giudice di primo grado affermò che la documentazione prodotta comprovasse la circostanza che il portico e il cortile, costituenti l’attuale autorimessa, non avevano natura condominiale, essendo stati espressamente esclusi nell’atto costituivo del condominio individuato nel rogito Notaio COGNOME del 10 agosto 1951 a favore del signor NOME COGNOME e successivamente trasferiti ai danti causa degli attori (rogito del 26 settembre 1951). Il Tribunale negò altresì rilevanza alla clausola contrattuale secondo cui il dante causa della RAGIONE_SOCIALE avrebbe avuto la facoltà di aprire porte e finestre sui muri condominiali, posto che tale pattuizione era prevista solo a favore di quello e, in ogni caso, il muro che divide le proprietà delle parti non ha natura condominiale, in quanto divide due proprietà
esclusive. La sentenza di primo grado invocò a sostegno della decisione altresì il contenuto della clausola contrattuale contenuta nel rogito 26 settembre 1951, con la quale il venditore si obbligava a chiudere le aperture oggetto di contesa, considerato che fino a quel momento egli era unico proprietario di entrambe le unità immobiliari. Il Tribunale reputò meritevole di accoglimento pure la domanda risarcitoria, non avendo gli attori potuto destinare l’immobile di loro proprietà ad autorimessa dal momento di esecuzione delle opere da parte di RAGIONE_SOCIALE, risalente al 18 dicembre 2003, fino al ripristino, eseguito a metà dicembre 2004.
3. La Corte d’appello di Bologna ha respinto l’appello della società RAGIONE_SOCIALE I giudici di secondo grado hanno sostenuto che la porzione immobiliare destinata ad autorimessa, di cui i signori COGNOME, COGNOME e COGNOME si dichiarano titolari, non può essere qualificata come cortile/porticato ai sensi dell’art. 1117 c.c., giacché l’area in contesa fu completamente chiusa mediante edificazione di una copertura permanente (tettoia) sin dal 1927, su iniziativa dell’allora proprietario dell’intero stabile, con pacifica e incontestata destinazione ad autorimessa a decorrere, quanto meno, dal 1946. Il ‘portico’ faceva parte integrante di tale immobile, anche sotto il profilo catastale (mappale 385 del foglio 93), senza alcuna specifica distinzione. Tale destinazione ad autorimessa del ‘portico’ e del ‘cortile/chiostro’ (e non quindi al passaggio, all’areazione e all’illuminazione del fabbricato) era confermata dalla concessione in godimento a terzi, in forza di contratti regolarmente stipulati nel 1946 e puntualmente richiamati nel rogito di compravendita del 26 settembre 1951.
La Corte d’appello ha peraltro spiegato che l’originaria proprietaria indivisa del complesso (RAGIONE_SOCIALE aveva operato il 12 -26 giugno 1951 un primo frazionamento, in cui ‘cortile’ e ‘portico’ erano ricompresi nel mappale 385/a sub. 1,
alienando il 10 agosto 1951 due diverse porzioni, ubicate al piano secondo e nel seminterrato, al signor NOME COGNOME e costituendo, così, il condominio. In questo titolo il venditore aveva riservato per sé la proprietà di tutto quanto non fosse oggetto della compravendita e, in particolare, come emerge dal frazionamento del 12 -26 giugno 1951, l’intero mapp. 385/a sub 1 che ‘ resta come attualmente intestato ‘, vale a dire di proprietà della RAGIONE_SOCIALE In tale atto le parti comuni dell’edificio erano poi specificamente descritte ed individuate sia graficamente, sia catastalmente (mapp. 385/a sub. 4), e, tra esse, non erano ricomprese le porzioni oggetto di lite, coerentemente con la consolidata e pacifica destinazione artigianale/commerciale attribuita loro almeno dal 1946. Previo ulteriore frazionamento del 19 luglio 1951, seguito dal rogito del 26 settembre 1951, l’immobile in questione (mapp. 385/a sub. 7, ricomprendente graficamente e catastalmente anche ‘cortile’ e ‘portico’) era stato venduto al signor NOME COGNOME dante causa dei signori COGNOME, COGNOME e COGNOME e titolare dell’omonima attività commerciale di autorimessa esercitata in quei locali sino ad allora condotti in locazione. Nel prosieguo, la sentenza impugnata ha ritenuto inammissibile la doglianza dell’appellante riguardante la presunta difformità tra lo stato dei luoghi accertato dalla Soprintendenza il 25 novembre 2005 e le risultanze della CTU, non essendo comprensibile la censura. La Corte d’appello ha quindi evidenziato che la clausola n. 10 dell’atto di acquisto di cortile/chiostro e portico in favore di NOME COGNOME, in cui la venditrice RAGIONE_SOCIALE si impegnava a chiudere le aperture oggetto di causa, indipendentemente dalla sua natura reale o personale, si giustificava proprio per la prosecuzione dell’attività di autorimessa a fronte dell’intervenuta cessione dell’immobile. I giudici di secondo grado hanno poi, tra l’altro,
considerato che, laddove il rogito del 27 novembre 1953 riconosceva agli aventi causa della Società RAGIONE_SOCIALE il diritto di aprire finestre sui muri comuni, tale pattuizione non avrebbe potuto incidere sulla proprietà esclusiva dei terzi. Né era stata impugnata dall’appellante la motivazione della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva affermato sia che per il muro frapposto tra le proprietà di cui si controverte non potrebbe trovare applicazione il principio dettato da tale clausola, trattandosi di divisorio tra proprietà esclusive; sia che, in ogni caso, il tenore del titolo avrebbe consentito di comprendere quale fosse l’intenzione delle parti, vale a dire quella ‘ di escludere dalle parti comuni l’area invocata da parte convenuta ‘.
Ancora, la Corte di Bologna ha confermato il risarcimento del danno subito dagli attori per il mancato utilizzo dell’autorimessa a seguito dell’apertura di due finestre e di una porta di collegamento tra le due unità immobiliari, una delle quali costituita da area di cantiere non custodita e, potenzialmente, tale da consentire l’accesso anche a estranei. La sentenza d’appello ha evidenziato che l’appellante non avesse criticato né il parametro quantitativo utilizzato, né il fatto che il collegamento tra i due immobili fosse rimasto aperto per un anno, sostenendo, piuttosto, che il danno liquidato sarebbe stato meramente figurativo.
Infine, la sentenza impugnata ha rigettato il sesto motivo di appello, perché concernente profili riguardanti la mera esecuzione/attuazione degli ordini emanati nel corso del processo e per la novità delle conclusioni in esso esposte.
4. Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME ha depositato memoria nella quale ha concluso per l’accoglimento del nono motivo di ricorso.
Anche ricorrente e controricorrenti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso della RAGIONE_SOCIALE si sviluppa in nove motivi. L’ampiezza dell’atto induce a fare sintetica esposizione delle singole censure con rinvio per relazione.
1.-Il primo motivo del ricorso della RAGIONE_SOCIALE denuncia la violazione degli artt. 1117, 1326 e 1362 c.c., sostenendo che per stabilire la condominialità e comunione dei beni facenti parte di un edificio condominiale occorre considerare il momento costitutivo del condominio, che coincide con il primo atto di trasferimento delle singole porzioni. Di conseguenza, la Corte d’appello di Bologna avrebbe dovuto dare prevalenza all’atto di acquisto di primo frazionamento, datato 10 agosto 1951, che, contrariamente a quanto asserito in sentenza, non contemplava affatto i suddetti beni (cortile e portico) nella espressa ed univoca riserva di proprietà esclusiva, né li richiamava in maniera espressa ed univoca nella planimetria elaborata dall’originario proprietario dell’edificio, allegato B senza firma, nella quale i locali controversi non risultano neppure graficamente disegnati, con la conseguenza che, nel silenzio dei titoli e nella incertezza degli allegati planimetrici, detti locali erano comuni a tutti i condomini e che di essi il venditore non poteva disporne a favore dei successivi acquirenti delle porzioni esclusive.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 1117 c.c., per avere la sentenza impugnata invertito l’ordine logico delle questioni, dapprima ammettendo la sussistenza di un titolo contrario alla presunzione ex art. 1117 c.c. e successivamente escludendo che i beni controversi (cortile e portico) fossero in relazione di strumentalità con l’edificio, valorizzando erroneamente la situazione anteriore alla prima vendita di frazionamento del 10 agosto 1951 secondo cui il cortile sarebbe stato coperto (da vetrate), nonché il contenuto del successivo ‘atto di acquisto dei garagisti’ del 10
dicembre 1980 e di quello di loro provenienza del 26 settembre 1951, senza invece ritenere decisivo per l’inclusione di detti beni nel novero di quelli comuni la relazione di strumentalità ed accessorietà dei beni controversi rispetto alle porzioni esclusive, dato che i locali di RAGIONE_SOCIALE si trovano strutturalmente e funzionalmente collegati al portico ed al cortile interni al Palazzo mediante le tre aperture presenti nell’immobile ma ex adverso tamponate.
Il terzo motivo del ricorso della RAGIONE_SOCIALE censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 1102 c.c. relazione all’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3, per avere la Corte di Bologna escluso la natura condominiale del cortile e del portico, ritenendo che non fosse stata provata dalla parte la specifica destinazione funzionale all’uso comune, ciò in violazione della presunzione di condominialità sancita dall’art. 1117 c.c. ed in violazione del diritto al miglior uso della cosa comune ex art. 1102 c.c., anche contrattualmente previsto all’art. 9 del primo rogito di frazionamento del 10 agosto 1951 di aprire porte e finestre nei muri comuni ed all’art. 8-9 dei successivi rogiti.
Il quarto motivo di ricorso deduce un ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., per avere la Corte d’appello attribuito valore (in senso contrario alla natura condominiale del cortile e del portico) all’elenco dei beni comuni contenuto nel primo rogito di frazionamento del 10 agosto 1951, che non indicava espressamente il cortile ed il portico fra i beni ricompresi nella proprietà comune tra i due corpi di fabbrica di condominio (ala COGNOME ed ala COGNOME), traendone l’errata convinzione che dalla mancata inclusione di tali porzioni nell’elenco dei beni comuni si sarebbe dovuta ricavare la loro esclusione, cosi violando i principi di cui agli artt. 1321 c.c., 1324 c.c., nonché quelli di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c., 1366 c.c. e segg. e 1369 c.c.
Con riguardo al primo rogito di frazionamento del 10 agosto 1951, osserva la ricorrente, il cortile ed il portico oggetto di lite avrebbero dovuto intendersi ricompresi tra i beni comuni, stante la dizione contenuta nel medesimo titolo a pag. 5, secondo cui erano comprese nella vendita “tutte le relative aderenze e pertinenze dei beni in oggetto …oneri e diritti inerenti, infissi e seminfissi, impianti tutti di ragione padronale, servitù attive e passive …e di accettare tutte le clausole di consuetudine relative al condominio” .
Il quinto motivo di ricorso allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1351, 1321 c.c., nonché degli artt. 1362 e segg. c.c., avendo la sentenza impugnata valorizzato il contratto 26 settembre 1951 e quello successivamente stipulato in data 10 dicembre 1980, entrambi relativi all’acquisto del garage a piano terra di parte resistente, e così ritenuto compreso nell’acquisto anche il cortile ed il portico, rispetto al primo rogito di frazionamento e di costituzione del condominio del 10 agosto 1951, nel quale mancava il riferimento espresso ed univoco alla riserva di proprietà esclusiva al venditore del cortile e del portico, sicché di tali beni, divenuti automaticamente comuni, non si poteva più disporre nei successivi atti.
Con il sesto motivo la ricorrente RAGIONE_SOCIALE censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, 1102, 901, 903, 905, 906 c.c., in relazione agli artt. 1324, 1362, 1363, 1369 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto rilevante, ai fini dell’esclusione dall’appartenenza comune del cortile e del portico, la clausola contenuta a postilla nel rogito in data 26 settembre 1951 del contratto di compravendita del garage a piano terra che consentiva di chiudere le due finestre e la porta presenti nel cortile, in violazione del principio che richiede, invece, il necessario riferimento al primo atto di trasferimento dell’unità immobiliare del fabbricato dall’originario unico proprietario del 10 agosto 1951 per poterne escludere l’utilizzo comune, nonché in
violazione dell’ utilitas , con conseguente non trasmissibilità a terzi dell’obbligo di chiusura, per avere natura meramente obbligatoria. Espone la ricorrente che il cortile condominiale o comunque comune, assolvendo alla finalità di dare luce e aria agli immobili circostanti, è un bene fruibile a tale scopo, dai proprietari del bene comune o dai condomini, tenuti solo al rispetto dell’art. 1102 c.c., senza incontrare le limitazioni prescritte dagli artt. 901-907 c.c.
Il settimo motivo del ricorso della RAGIONE_SOCIALE censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, 1102, 1122 e 903 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla errata ritenuta insussistenza della destinazione del cortile all’uso comune, per essere stato coperto e per aver perso la relativa funzione, ed all’omesso esame sia delle fotografie prodotte, le quali dimostrerebbero l’esistenza di un ampio spazio ed una altezza tali da consentire il passaggio di luce ed aria, sia degli atti della Soprintendenza ai Beni Storici con conseguente denuncia inoltrata alla Procura della Repubblica per l’illegittimo tamponamento delle finestre, il che dimostrerebbe l’esistenza da tempo immemorabile delle aperture e quindi il diritto a mantenerle.
1.2. -I primi sette motivi vanno esaminati congiuntamente, sia per l’evidente ripetitività delle censure in essi veicolate, sia perché la trattazione unitaria ne semplifica palesemente la decisione rispetto al copioso contenuto di argomentazioni che connota tanto il ricorso, quanto la stessa sentenza impugnata. Tali motivi si rivelano infondati. 1.3. -La causa involge in realtà un’unica questione: se le aperture realizzate nel dicembre del 2003 dalla RAGIONE_SOCIALE da una parete di sua proprietà fossero rivolte verso un bene rientrante fra le parti comuni del complesso immobiliare di INDIRIZZO agli effetti dell’art. 1117 c.c. (bene, nella specie, descritto come portico e cortile), oppure verso un immobile di proprietà esclusiva dei signori
COGNOME, COGNOME e COGNOME (nella specie, descritto come autorimessa). Ove, infatti, lo spazio verso il quale sono state realizzate le aperture nel 2003 fosse un bene condominiale, la causa andrebbe risolta in base al principio di cui all’art. 1102 c.c.; viceversa, si tratterebbe di vedute da una proprietà individuale verso il fondo di proprietà individuale, soggette alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c., finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico del vicino.
È, dunque, giuridicamente e logicamente preliminare, giacché potenzialmente risolutivo, stabilire quali fossero la destinazione funzionale e la consistenza strutturale dei beni ricompresi nel mappale 385/a sub. 1, allorché, con le vendite effettuate il 10 agosto 1951 dalla unica originaria proprietaria RAGIONE_SOCIALE al signor NOME COGNOME per quanto appare incontroverso fra le parti, venne a costituirsi il condominio.
1.4. – Per stabilire la condominialità di detti beni, occorre, pertanto, accertare che la relazione di accessorietà ed il collegamento funzionale fra i beni del mappale 385/a sub. 1 e le unità in proprietà esclusiva sussistessero al momento della nascita del condominio, non rilevando un collegamento eventualmente creato solo successivamente alla formazione dello stesso, dal quale potrebbe piuttosto discendere la costituzione di una servitù a carico di porzione di proprietà esclusiva.
La cosiddetta ‘presunzione di comproprietà’ prevista dall’art 1117 (in particolare, n. 1) c.c. abbraccia, invero, i ‘portici’ e ‘i cortili’ necessari all’uso comune, in quanto elementi che per ubicazione e struttura costituiscono l’edificio quale complesso unitario. Se tale fatto (che si tratti di portici e cortili necessari all’uso comune) è provato come esistente a quel dato momento, si desume ex lege il diritto di condominio riguardo a tali beni, con ‘presunzione’ che è,
peraltro, sovvertibile non in base a qualsiasi prova contraria, ma soltanto se il medesimo titolo costitutivo (qui, dunque, occorrerebbe indagare unicamente il contratto del 10 agosto 1951) dica il contrario, e cioè dimostri una chiara ed univoca volontà, espressa nella forma scritta occorrente ad substantiam , di riservare al venditore o esclusivamente ad altro dei condomini la proprietà di dette parti.
1.5. – Il problema da affrontare si risolve, quindi, in due distinte operazioni di ordine logico: la prima consistente nella identificazione delle caratteristiche strutturali e funzionali dei beni in contesa (se, appunto, necessari all’uso comune o destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una unità immobiliare), la seconda concretantesi nell’attribuzione della qualificazione giuridica della relazione dominicale. Di tali operazioni, la prima è sottratta al sindacato di legittimità della Corte di cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, giacché il giudice del merito al riguardo non può che incorrere o in un omesso esame circa un fatto decisivo, censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., o nella falsa supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto non controverso, e va denunciato con la revocazione ex art. 395, n. 4), c.p.c. La seconda operazione, invece, è soggetta al controllo della Suprema Corte, giacché, consistendo nella sussunzione del fatto accertato nello schema di legge che gli è proprio, rende ipotizzabile un errore di diritto derivante dalla discordanza tra gli elementi accertati e gli estremi richiesti dalle norme di diritto in relazione al bene considerato.
1.6. -La Corte d’appello di Bologna ha svolto la prima operazione, ‘valutando le prove secondo il suo prudente apprezzamento’ (art. 116, comma 1, c.p.c.) e pervenendo alla conclusione che la porzione immobiliare oggetto di lite (in origine catastalmente compresa nel mappale 385 del foglio 93) non può essere qualificata come
cortile/porticato ai sensi dell’art. 1117 c.c., giacché essa fu completamente chiusa mediante edificazione di una tettoia sin dall’anno 1927, su iniziativa dell’allora proprietario dell’intero stabile, con conseguente destinazione ad autorimessa a decorrere, quanto meno, dall’anno 1946. Tale destinazione ad autorimessa era confermata dalla concessione in godimento a terzi, in forza di contratti regolarmente stipulati nel 1946. Alla chiusura dell’operazione fattuale finalizzata alla individuazione delle caratteristiche strutturali e funzionali del bene ha fatto seguito il corretto compimento della seconda operazione, la quale ha negato in diritto che lo stesso bene rientrasse nell’ambito operativo della regola presuntiva di attribuzione della condominialità ex art. 1117 c.c.
I beni destinati ad autorimesse e i locali commerciali, anche se situati nel perimetro dell’edificio condominiale, non sono inclusi fra le parti comuni elencate nell’art. 1117 c.c. (Cass. n. 23001 del 2019; n. 10371 del 1997). La destinazione di un’area compresa tra i corpi di fabbrica per il ricovero e la custodia di autoveicoli e degli impianti accessori, per di più, come accertato nella specie, chiusa mediante edificazione di una tettoia, priva tale area della diversa destinazione principale e prevalente, tipica del cortile, di dare aria e luce ai vari appartamenti dell’edificio, rendendola, al più, meramente secondaria, accessoria e sussidiaria.
A questo punto, l’atto costitutivo del condominio non ha più alcuna rilevanza come eventuale titolo contrario ai sensi dell’art. 1117 c.c., in quanto manca il presupposto di fatto per l’applicazione di tale norma di diritto.
1.7. Il vincolo di comunione, derogabile dall’autonomia privata mediante titolo contrario in fase di costituzione, ed altrimenti, una volta sorto, garantito dalla tendenziale indivisibilità ex art. 1119 c.c., riguarda beni, quali quelli esemplificativamente elencati nell’art. 1117
c.c., costruiti prima della nascita del condominio e formanti oggetto di un originario unico diritto dominicale.
Finché perdura la condizione della proprietà indivisa dell’edificio, il suo assetto può essere liberamente precostituito o modificato dal titolare anche in vista delle future vendite delle singole unità immobiliari.
In questa fase di dominio individuale, fino, quindi, al momento del primo frazionamento dell’unico fabbricato, le facoltà dominicali di godimento e disposizione non conoscono limitazioni particolari, se non quelle generalmente imposte dalla relazione di prossimità con i fondi finitimi o contigui di proprietà altrui.
Il proprietario originario può così porre le diverse porzioni dell’edificio in situazioni oggettive di subordinazione o di servizio, che integrerebbero il contenuto proprio di altrettante servitù, la cui configurabilità giuridica resta però preclusa per effetto del principio nemini res sua servit.
Pertanto, all’acquisto del diritto singolo di proprietà, cui si riconosce di solito in giurisprudenza l’effetto costitutivo del condominio, preesiste la destinazione delle cose impressa a sua volontà dall’unico iniziale titolare.
1.8. -La ricorrente nei suoi motivi intende inficiare l’accertamento compiuto dalla Corte d’appello di Bologna quanto alla destinazione del cortile all’uso comune ed alle risultanze dei titoli, addebitando ai giudici del merito una erronea ricognizione della fattispecie concreta. Le censure sono mediate dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. Tali censure sono inammissibili ove riconducibili al vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operando la previsione di cui all’art. 348ter , comma 5, c.p.c. (applicabile ratione temporis ), che esclude che possa essere impugnata la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado” e che risulti fondata sulle stesse ragioni,
inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado (cd. doppia conforme).
1.9. Si è già detto che, ripristinato l’ordine logico e giuridico delle questioni, non ha alcuna rilevanza dirimente il contenuto del rogito 10 agosto 1951, quello con cui ebbe origine il condominio, giacché esso non aveva da contrastare alcuna presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c.
Non essendo la porzione di cui al mappale 385/a sub. 1 inclusa tra quelle elencate nell’art. 1117 c.c., la proprietà della stessa, senza bisogno alcuno di espressa riserva, era rimasta di proprietà della RAGIONE_SOCIALE Non è provato, e tanto meno dedotto, che i beni in contesa fossero stati altrimenti attribuiti a tutti i condomini quale effetto dell’acquisto individuale operato con i rispettivi atti di una quota di tali beni, ovvero in forza di un contratto costitutivo di comunione, ai sensi degli artt. 1350, n. 3, e 2643, n. 3, c.c., recante l’inequivoca manifestazione del consenso unanime dei condomini stessi, espressa nella forma scritta essenziale, alla nuova situazione di contitolarità degli immobili individuati nella loro consistenza e localizzazione (Cass. n. 10370 del 2021).
1.10 – È palesemente superfluo verificare o contrastare che nella vendita del 10 agosto 1951 la RAGIONE_SOCIALE si fosse riservata la proprietà di quanto non alienato, ed in particolare dell’intero mappale 385/a sub 1, risultante dal frazionamento del 12 26 giugno 1951, che non era così compreso tra le parti comuni viceversa specificamente descritte ed individuate. Ciò per la duplice considerazione che se i beni del mappale 385/a sub 1 fossero stati coinvolti tra le parti accessorie dell ‘edificio, considerate dall’art. 1117 c.c. oggetto di proprietà condominiale, il silenzio del titolo sarebbe stato privo di significato, giacché la regola attributiva dell’art 1117 c.c. proprio in tale silenzio trova il suo fondamento e la sua ragione
d’essere; se invece, come dimostrato, non si trattava di cose riconducibili all’art. 1117 c.c., opera il normale criterio secondo cui oggetto della vendita immobiliare è soltanto il bene identificato dalle parti in base ai confini indicati nello stesso atto di trasferimento ed eventualmente in base ai dati catastali.
Ancor meno rilievo, sempre al limitato fine di questa causa (accertare se le aperture realizzate dalla RAGIONE_SOCIALE fossero rivolte verso una parte comune del complesso di INDIRIZZO o verso un fondo di proprietà esclusiva COGNOME, COGNOME e COGNOME), è l’indagine sulla portata della clausola n. 10 dell’atto 26 settembre 1951 con cui la RAGIONE_SOCIALE vendette ad NOME COGNOME l’immobile ulteriormente frazionato individuato come mappale 385/a sub. 7, clausola recante l’obbligo assunto dalla venditrice di chiudere le aperture. Si trattava infatti di clausola espressiva della manifestazione di volontà della società venditrice di impedire, a norma del secondo comma dell’art. 1062 c.c., la costituzione di una servitù prediale per destinazione del padre di famiglia, dalle quale non può discendere certo il diritto della limitrofa proprietaria RAGIONE_SOCIALE di riattivare tali aperture.
Infine, le clausole dei titoli che riconoscevano ai compratori la facoltà di aprire finestre nei muri condominiali si dimostrano inutili, perché meramente ricognitive delle facoltà comprese nell’art. 1102 c.c., e certo non legittimanti, al contrario, il diritto di aprire vedute su aree di proprietà esclusiva e in muri divisori, operando al riguardo il disposto dell’art. 903 c.c.
2. -L’ottavo motivo del ricorso della ADRAGIONE_SOCIALE denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 1226 c.c. in ordine alle modalità di quantificazione della responsabilità risarcitoria della ricorrente rapportata al cd. danno figurativo da mancato godimento dell’immobile liquidato a favore dei ‘garagisti’, unitamente
alla nullità della sentenza per insufficienza di motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c. La ricorrente lamenta che la Corte di Bologna ha erroneamente ritenuto congruo parametro per la liquidazione del danno l’importo di un ipotetico canone locativo per il periodo di circa un anno di asserito mancato utilizzo della autorimessa, in mancanza di prova alcuna, da parte degli attori, di aver subito pregiudizio per non aver potuto locare o altrimenti utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente.
2.1. -L’ottavo motivo di ricorso è infondato.
Gli attori hanno allegato di non aver potuto utilizzare l’immobile di loro proprietà destinato ad autorimessa dal momento di esecuzione delle opere da parte di AD. Real, risalente al 18 dicembre 2003, fino al ripristino, eseguito a metà dicembre 2004. Il fatto costitutivo della domanda risarcitoria era, dunque, il danno emergente per la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento del bene. Tale danno consente per la sua prova il ricorso a presunzioni o il richiamo a nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, in forza del criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento. Se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato (Cass. Sez. Unite, n. 33645 del 2022).
Nel confermare la statuizione resa in tal senso dal Tribunale, la sentenza d’appello ha evidenziato che l’appellante non avesse criticato né il parametro quantitativo utilizzato, né il fatto che il collegamento tra i due immobili fosse rimasto aperto per un anno.
L’ottavo motivo di ricorso non assolve all’onere di criticare specificamente questa affermazione della Corte di Bologna, indicando
chiaramente quali questioni e quali punti della sentenza di primo grado avesse contestato, riaprendo nel giudizio di legittimità il tema della quantificazione del danno che invece i giudici di appello hanno inteso loro non devoluto.
Per il resto, l’ottavo motivo poggia sulla inammissibile confutazione in fatto che i lavori di rimozione delle finestre e dalla porta non avessero comportato la allegata perdita di possibilità di godimento del bene, cessata soltanto una volta ripristinato lo stato dei luoghi nelle condizioni antecedenti alle acclarate violazioni.
È altresì inammissibile la denuncia di nullità della sentenza per insufficienza di motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c. (Cass. Sez. Un. n. 8053 del 2014).
3. -Il nono motivo del ricorso della RAGIONE_SOCIALE infine, censura l’omessa pronuncia sulla domanda da essa stessa avanzata con la memoria ex art. 183 c.p.c., di rimozione delle opere di muratura dalle finestre e dalla porta-finestra, come attuata dalle controparti in corso di causa, con mattoni e vetrocemento, ravvisando la violazione degli artt. 112, 116, 166, 167 e 183 c.p.c. La Corte d’appello avrebbe ritenuto la domanda di ripristino inammissibile in quanto costituente una mutatio libelli, senza considerare che il ripristino delle finestre e della porta era stato chiesto già nella domanda principale, quale logica conseguenza della richiesta ‘di inibire l’esecuzione di opere e/o disporre la riduzione in pristino per la parte di opere eventualmente realizzata’, oltre che specificata nella prima memoria ex art. 183 c.p.c. Inoltre, si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c. per omessa motivazione, per avere la Corte di Bologna confermato la legittimità della muratura come ex adverso attuata, invece di dichiarare la nullità della sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale ha disposto al di là della domanda avversaria e in assenza di un concreto e legittimo interesse.
3.1. -Anche il nono motivo di ricorso deve essere respinto.
Non sono riscontrabili le omissioni di pronuncia o di motivazione lamentate dalla ricorrente.
Il punto attiene al sesto motivo di appello, sul quale la Corte di Bologna ha pronunciato ed ha motivato così: ‘ sso concerne profili riguardanti la mera esecuzione/attuazione degli ordini emanati nel corso del processo e non attiene al merito della controversia. Peraltro, le conclusioni rassegnate in ordine a tale motivo sono del tutto nuove, avendo parte appellante precisato le proprie, nel giudizio di primo grado, in conformità a quelle dedotte in sede di memoria ex art. 183, quinto comma, c.p.c., del 10.12.2005: ivi non si prende posizione alcuna sulle concrete modalità di attuazione del provvedimento cautelare di rimessione in pristino del 30.06.2004, ritenute, peraltro, corrette dallo stesso Tribunale con ordinanza del 19.03.2005, con la quale si dichiarava di non doversi provvedere sul ricorso, presentato dalla stessa RAGIONE_SOCIALE al fine dirimere ogni questione riguardante la fase esecutiva, proprio in ragione dello stato dei luoghi ritenuto dal Tribunale conforme alle prescrizioni contenute nell’ordinanza collegiale che aveva concluso il procedimento d’urgenza. Di tali profili, inammissibili per novità, si duole ora, tardivamente, parte appellante’.
Non sono pertanto configurabili difetti di attività del giudice di secondo grado, tant’è che la stessa ricorrente deduce contemporaneamente al riguardo la violazione di norme di diritto, il che presuppone che la Corte d’appello abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta, semmai, in modo giuridicamente non corretto.
Si tratta, peraltro, per quanto lascia intendere l’esposizione del nono motivo, di questioni attinenti all’attuazione dell’ordine cautelare ex art. 700 c.p.c. di rimessione in pristino, le quali vanno ‘proposte nel
giudizio di merito’ (art. 669 -duodecies c.p.c.) e ivi risolte con i ‘provvedimenti opportuni’, impugnabili mediante reclamo al collegio e non invece sindacabili con ricorso per cassazione, giacché privi del carattere della decisorietà e della idoneità al giudicato.
Il ricorso va perciò rigettato, con condanna della ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 5.400,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione civile