Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 15528 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 15528 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11087/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME DI NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME
Condominio
COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME TAHA TAWFIK AHA, NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME BRESCIANI COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME
NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliati in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (TRMLLC75P64M052Z), NOME COGNOME (TARGA_VEICOLO), NOME COGNOME (TARGA_VEICOLO).
COMUNE DI MILANO, domiciliato ex lege in Roma, INDIRIZZO presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d ‘ appello di Milano n. 4645/2018 depositata il 25/10/2018.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella pubblica udienza del 6 febbraio 2025.
Udito il Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha chiesto che la Corte rigetti il ricorso.
Udito l’avvocato NOME COGNOME per parte ricorrente.
Udito l’avvocato NOME COGNOME quale delegata, per parte controricorrente.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 9383/2016, rigettò la domanda proposta contro il Comune di Milano dai proprietari delle unità immobiliari ricomprese nei condomìni di INDIRIZZO e INDIRIZZO e di INDIRIZZO e INDIRIZZO, nel quartiere INDIRIZZO INDIRIZZO, a Milano, finalizzata alla dichiarazione e all’accertamento della proprietà comune ex art. 1117 c.c. di tutti i locali di portineria e degli alloggi dei portieri esistenti nel complesso di edilizia residenziale pubblica (ERP), realizzato negli anni ’60 .
Respinse anche la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno del Comune di Milano e condannò gli attori alle spese per la loro prevalente soccombenza.
L a Corte d’appello di Milano, nella resistenza dell’ente territoriale, ha respinto il gravame dei condòmini e ha regolato di conseguenza le spese del grado.
Questi i punti chiave della decisione: (i) gli attori non hanno provato l’utilizzazione comune dei locali in questione. Infatti, i quattro condomìni del complesso immobiliare del quartiere INDIRIZZO ( realizzato negli anni ’60 e destinato all’ edilizia residenziale pubblica), vennero costituiti nel 2002, a seguito dell’alienazione , da parte del Comune di Miliano, del proprio patrimonio abitativo di ERP. È pacifico
che, prima della costituzione dei condomìni, cessò la funzione di abitazione dei custodi dei ventisei locali posti ai piani rialzati di ciascun civico e che, sin dal 2001, il Comune aveva soppresso il servizio di portineria in tutti gli immobili da alienare, in tal modo sottraendo gli ex alloggi dei portieri alla loro destinazione al servizio della cosa comune; (ii) negli atti di compravendita, così come nel regolamento condominiale ad essi allegato, il locale ex portineria non è elencato tra le proprietà comuni, né l’attuale presenza di q uadri elettrici negli stessi locali o la possibilità per gli amministratori di accedervi sono circostanze dalle quali possa desumersi la loro funzionalità al servizio e al godimento collettivo; (iii) in mancanza di specifica reiterazione in sede di appello delle istanze istruttorie degli attori, già respinte dal primo giudice, le stesse istanze devono intendersi rinunciate; (iv) il Tribunale ha correttamente condannato gli attori alle spese in ragione della loro prevalente soccombenza.
I condòmini hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
Il Comune di Milano ha resistito con controricorso.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte e ha chiesto che il ricorso venga respinto.
In prossimità dell’udienza le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia , ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1110 e 1117 c.c., nonché degli artt. 36 e seguenti del d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U. enti locali) relativamente all’approvazione del procedimento di dismissione del patrimonio comunale e alle conseguenze in materia di comunione.
Si lamenta che la sentenza qui impugnata, nella parte in cui afferma che allorché, nel 2002, vennero costituiti i condomìni a
seguito del primo atto di alienazione da parte del Comune di Milano del proprio patrimonio immobiliare, il servizio di portierato dei ventisei locali adibiti a portinerie risultava già cessato, sarebbe viziata perché non considera che, nella specie , l’istituto condominiale doveva essere riferito all’epoca della delibera del consiglio comunale n. 4/1995 che approvava il piano di dismissione degli immobili dell’ente territoriale (compresi gli stabili di INDIRIZZO e INDIRIZZO) e che, alla data di tale delibera, il servizio di portierato era funzionante e risultava dai rendiconti delle spese dell’Aler (ente che gestiva gli alloggi comunali) sotto la voce ‘salario custode’.
Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 comma 1 n. 2) c.c.
La sentenza non è conforme a diritto nella parte in cui, fondandosi sulla circostanza che il servizio di portierato sarebbe cessato nel 2001, ritiene che ciò fosse sufficiente a sottrarre i locali di portineria alla loro destinazione al servizio della cosa comune, omettendo ogni valutazione delle loro caratteristiche strutturali, profili, questi, che ne evidenziano l ‘obiettiva destinazione condominiale, essendo essi materialmente e funzionalmente collegati con altre superfici condominiali, ed essendo adibiti al ricovero dei quadri elettrici degli edifici.
Si censura altresì l’erroneo (vedi pag. 17 del ricorso per cassazione ) ‘richiamo ancorché implicito’ operato dalla Corte d’appello all’interpreta zione estensiva data dal giudice di primo grado in relazione all’omissione, nell’elenco delle proprietà comuni riportate nel regolamento di condominio, dei locali di portineria.
Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.
Si censura la sentenza nella parte in cui qualifica come genericamente formulate e, di conseguenza, come rinunciate, le istanze istruttorie degli appellanti, istanze che, spiegano i ricorrenti, se, al contrario, fossero state ammesse dal giudice di merito, avrebbero consentito di accertare che i locali di portineria erano funzionali al servizio e al godimento collettivo, nonché posseduti e destinati dai condòmini all’uso comune.
Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.
Alla Corte d’appello di Milano si rimprovera che là dove ha ritenuto corretta la condanna dei condòmini alle spese, per la loro prevalente soccombenza, disposta dal Tribunale di Milano, non ha dato conto delle ragioni di tale statuizione e ha trascurato la soccombenza reciproca delle parti, con la precisazione che il Comune di Milano era totalmente soccombente sia rispetto al giudizio possessorio promosso dai condòmini per ottenere la reintegra nel possesso dei locali di portineria, sia in relazione alla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno (per un importo di euro 1,5 milioni) proposta dall’Ente in questo giudizio.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
In disparte la prospettabile novità della questione – secondo cui, ai locali di portineria, la natura condominiale sarebbe stata impressa non dagli atti di compravendita con i quali il Comune di Milano ha dismesso gli alloggi ERP del quartiere di Sant’INDIRIZZO, ma , in epoca ancora precedente, con la delibera del consiglio comunale n. 4/1995 -rileva il Collegio che la Corte d’appello, alla stregua di un giudizio di fatto, insindacabile in questa sede, ha accertato che il Comune, sin dal 2001, aveva soppresso il servizio di portineria in tutti gli immobili da alienare, in tal modo sottraendo gli ex alloggi dei portieri alla loro destinazione al servizio della cosa comune.
Il motivo deve essere disatteso perché si sostanzia in una rappresentazione dei fatti diversa da quella prescelta dal giudice di merito.
Il secondo motivo, nella sua articolata formulazione, è complessivamente infondato.
Secondo l ‘ interpretazione consolidata di questa Corte, per stabilire se un ‘ unità immobiliare è comune, ai sensi dell ‘ art. 1117 n. 2 c.c., perché destinata ad alloggio del portiere, il giudice del merito deve accertare se, all ‘ atto della costituzione del condominio, come conseguenza dell ‘ alienazione dei singoli appartamenti da parte dell ‘ originario proprietario dell ‘ intero fabbricato, vi è stata tale destinazione, espressamente o di fatto, dovendosi altrimenti escludere la proprietà comune dei condòmini su di essa (Cass. Sez. 2, 20145/ 2022, che richiama ‘ Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14796; del Cass. Sez. 2, 07/05/2010, n. 11195; Cass. Sez. 2, 25/03/2005, n. 6474; Cass. Sez. 2, 26/11/1998, n. 11996; Cass. Sez. 2, 23/08/1986, n. 5154 ‘. In termini, Cass. nn. 20584/2024, 27407/2022). Invero, a differenza delle cose necessarie all ‘ uso comune, contemplate nel numero 1) dell ‘ art. 1117 c.c., i locali dell ‘ edificio contemplati dall ‘ art. 1117 numero 2) c.c. raffigurano beni ontologicamente suscettibili di utilizzazioni diverse, anche autonome: per diventare beni comuni, essi abbisognano di una specifica destinazione al servizio in comune. Ciò significa che, in difetto di espressa disciplina negoziale, affinché un locale sito nell ‘ edificio – che, per la sua collocazione, può essere adibito ad alloggio del portiere, oppure utilizzato come qualsiasi unità abitativa – diventi una parte comune ai sensi dell’art. 1117 n. 2 cit., occorre che, all ‘ atto della costituzione del condominio, al detto locale sia di fatto assegnata la specifica destinazione al servizio comune. Mancando un ‘ apposita convenzione, espressione di autonomia privata, accertare se, al
momento della costituzione del condominio, il locale sia o no destinato al servizio comune (come nel caso di destinazione ad alloggio del portiere), è un giudizio di fatto, riguardante le concrete vicende dell ‘ utilizzo dell ‘ unità immobiliare.
Passando dalla premessa concettuale all’esame del motivo , la Corte d’appello, attenendosi al principio di diritto sopra enunciato, in adesione alla ricostruzione operata dal Tribunale, ha debitamente rilevato, per un verso, che negli atti di compravendita delle singole unità immobiliari (che hanno determinato la costituzione dei condomìni) e nel regolamento condominiale ad essi allegato, gli ex locali di portineria non figuravano nell’elenco delle proprietà comuni, per altro verso, e alla stregua di un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, che non è provato che, all’atto della costituzione dei condomìni, quei locali avessero di fatto una specifica destinazione al servizio e all’uso comune .
7. Il terzo motivo è infondato.
Dalla sentenza, che riporta le conclusioni delle parti, risulta che i condòmini hanno chiesto (vedi pag. 21 della decisione): ‘In via istruttoria: si insiste nell’ammissione delle prove già dedotte in memoria istruttoria’.
La stessa pronuncia, facendo esplicitamente riferimento ad un precedente di questa Corte (Cass. n. 19352/2017) e senza discostarsi da esso, ritiene che debbano intendersi rinunciate le istanze istruttorie in mancanza di una specifica riproposizione delle stesse nel giudizio di appello.
Per la giurisprudenza di legittimità, le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto, ritenere abbandonate e non riproponibili con l ‘ impugnazione; tale presunzione
può, tuttavia, ritenersi superata qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione (tra le altre, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10767 del 04/04/2022, Rv. 664646 -01; Sez. 2, Sentenza n. 33103 del 10/11/2021, (Rv. 662750 – 01).
Nella specie, a fronte della puntuale illustrazione, in sentenza, della ragione per la quale è stata respinta la richiesta di ammissione delle prove, parte ricorrente non ha indicato alcuno specifico elemento (si pensi, ad esempio, in connessione con Cass. n. 10767/2022, al caso in cui l ‘ istanza di ammissione delle prove orali venga riproposta dalla parte con la richiesta, successiva al rinvio della causa all’udienza di precisazione delle conclusioni, di revoca o di modifica dei provvedimenti istruttori del giudice di primo grado), da cui potesse trarsi la sua univoca volontà di insistere, in maniera mirata e ben ponderata, nelle istanze istruttorie, già respinte in primo grado e reiterate in appello con richiesta così ampia e generica da potere e dovere essere considerata come una mera ed inutile clausola di stile.
8. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
La premessa è che la statuizione della Corte d’appello in punto di spese è coerente con il principio per il quale, in presenza di soccombenza reciproca, spetta al giudice di merito decidere quale delle parti debba essere condannata alle spese e se, e in che misura, debba farsi luogo a compensazione.
D’altra parte, il sindacato di legittimità in tema di spese ha spazi ben definiti e piuttosto angusti. È stato infatti chiarito che, in tema di
spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell ‘ art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio (al quale, beninteso, si è attenuto il giudice di merito) secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell ‘ opportunità di compensarle, in tutto o in parte, sia nell ‘ ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Sez. 5, Sentenza n. 15317 del 19/06/2013, Rv. 627183 -01; Sez. 5, Ordinanza n. 8421 del 31/03/2017, Rv. 643477 -02; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 24502 del 17/10/2017, Rv. 646335 – 01).
Il ricorso è rigettato e ciò determina la condanna dei ricorrenti al rimborso delle spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell ‘ art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 12.000,00, a titolo di compenso, euro 200,00, per esborsi, oltre al 15% sul compenso, per spese generali, e oltre agli accessori di legge.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile,