Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1837 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 1837 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17107-2020 proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DEGLI RAGIONE_SOCIALE E RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4254/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/11/2019 R.G.N. 4328/2017;
R.G.N. 17107/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 20/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Roma ha accolto solo parzialmente l’appello di NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale che aveva integralmente rigettato il ricorso, proposto nei confronti del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e ha ridotto a 4 ore di multa la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per giorni 15, comminata con d.m. n. 5011/1882 del 23 agosto 2016;
la Corte territoriale, per quel che qui rileva, ha ritenuto infondata l’eccezione di decadenza dall’esercizio del potere disciplinare ed ha rilevato che il procedimento era stato concluso nel rispetto del termine di 120 giorni, da calcolare a far tempo dal l’ 11 maggio 2016;
ha disatteso la tesi dell’appellante secondo cui doveva essere valorizzata, non la data di formazione del decreto ministeriale, ossia il 23 agosto 2016, bensì quella del perfezionamento formale del provvedimento, che era intervenuto solo in un momento successivo con l’apposizione , il 21 settembre 2016, del visto da parte dell’Ufficio Centrale del Bilancio presso il Ministero;
ha evidenziato che il termine perentorio è riferito all’attività dell’ufficio che procede e non a quella di uffici diversi, che intervengono successivamente e del cui ritardo non può rispondere l’UPD;
il giudice d’appello ha parimenti escluso che determinasse decadenza dal potere disciplinare e illegittimità della sanzione il mancato rispetto delle forme di comunicazione previste dall’art. 55, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 e ha rilevato che la disposizione, seppure imperativa, è posta a tutela del diritto di difesa dell’incolpato , che nella specie non era stato in alcun modo leso perché la COGNOME aveva avuto tempestiva conoscenza dell’atto;
ha aggiunto che non era emersa alcuna violazione della privacy e che eventuali modalità di consegna comportanti lesione del diritto alla riservatezza sarebbero state imputabili non al Ministero bensì ai soggetti che avevano eseguito la notifica;
4. nel merito la Corte ha evidenziato che alla COGNOME all’epoca dei fatti in servizio presso il Consolato d’Italia a Mendoza, era stato contestato di avere emesso, in assenza della necessaria delega, otto assegni bancari su conti correnti accesi dal Consolato presso il Banco di Patagonia, e di avere poi chiesto alla collega COGNOME dapprima di formare una richiesta retrodatata di autorizzazione all’emissione, in modo da far apparire che al momento della formazione dei titoli sussisteva in capo alla Vitale il relativo potere, e, successivamente, di autorizzare l’istituto di credito al pagamento degli assegni , sebbene in quel momento la COGNOME non rivestisse più la qualità di reggente;
il giudice d’appello ha ritenuto i fatti contestati solo parzialmente provati e in particolare ha:
escluso che la NOME fosse a conoscenza di non avere alcuna delega alla firma, perché non era stato provato che la revoca del potere, inizialmente concesso, le fosse stata comunicata;
evidenziato che nessun falso era stato compiuto direttamente o indirettamente dalla incolpata perché la COGNOME
pur avendo formato gli atti, apponendovi la sua firma, non li aveva protocollati ed utilizzati;
ritenuto non provato che la COGNOME avesse esercitato pressioni sulla COGNOME ricorrendo a minacce o ad altre forme di violenza morale per indurre quest’ultima a firmare gli atti e per far ricadere sulla stessa la responsabilità di quanto accaduto;
escluso, conseguentemente, che l’illecito potesse essere sussunto nelle fattispecie disciplinari tipizzate dall’art. 13, comma 6, lett. e) e comma 5, lett. f) del C.C.N.L. per il personale del comparto ministeri;
la Corte distrettuale, peraltro, ha ritenuto che la condotta tenuta dalla COGNOME, seppure ridimensionata rispetto a quella contestata, non fosse priva di rilievo disciplinare, perché era comunque contraria ai doveri d’ufficio la richiesta fatta ad altra dipendente di tenere un comportamento illecito e di formare atti non rispondenti al vero, e ciò a prescindere dalle ragioni che l’avevano determinata (risolvere il problema e sbloccare assegni che altrimenti non sarebbero stati pagati -come sostenuto dalla NOME – o, al contrario, fare ricadere sulla COGNOME la responsabilità di un suo comportamento colposo -come supposto dal Ministero -);
ha evidenziato che risultavano integrati gli estremi delle infrazioni disciplinari previste dal comma 4 dell’art. 13 del CCNL citato, ossia l’inosservanza delle disposizioni di servizio e la condotta non conforme ai principi di correttezza verso gli altri dipendenti, per le quali il codice disciplinare prevede la sanzione massima di 4 ore di multa;
il giudice d’appello, conclusivamente, ha esercitato il potere attribuito dall’art. 63, comma 2 bis, d.lgs. n. 165/2001 e, ritenuta non proporzionata alla gravità dei fatti la sanzione della sospensione, ha applicato quella della multa nella misura
massima, compensando integralmente fra le parti le spese di lite e rigettando la domanda risarcitoria, in ragione dell’assenza di intento persecutorio;
9. per la cassazione della sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese con controricorso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo, formulato ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ., la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ., con conseguente nullità della sentenza impugnata, nonché «omesso esame o, comunque, non adeguata, illogica e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti ed in particolare in merito sia al valore da attribuirsi alla posizione del visto da parte dell’Ufficio Centrale del Bilancio presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale al Decreto Ministeriale n. 5011/1882 del 23.8.16 nel computo del termine per la conclusione del procedimento disciplinare sia alle modalità di inoltro alla Vitale delle comunicazioni successive alla contestazione dell’addebito»;
il motivo, in sintesi, ripropone la tesi, non condivisa dalla Corte territoriale, secondo cui la sola formazione del d.m. citato in rubrica con il quale la sanzione disciplinare era stata inflitta non era sufficiente a far ritenere rispettato il termine di decadenza di 120 giorni, da computare a far tempo dalla data di prima acquisizione della notizia, perché entro quel termine doveva
intervenire anche il visto da parte dell’Ufficio Centrale di Bilancio necessario ai fini del perfezionamento e della efficacia dell’atto; sottolinea al riguardo la ricorrente che di ciò era consapevole anche la stessa amministrazione che aveva anticipato alla Vitale l’avvenuta irrogazione della sanzione , precisando che il relativo decreto era ancora in fase di perfezionamento e le sarebbe stato comunicato solo una volta concluso l’intero iter ;
addebita alla Corte territoriale di avere superato l’eccezione di tardività con motivazione illogica e contraddittoria e di non avere adeguatamente esaminato e valutato gli atti di causa; asserisce, inoltre, che altrettanto contraddittoriamente il giudice del merito ha escluso che la decadenza fosse maturata a seguito del mancato rispetto da parte dell’amministrazione delle modalità di comunicazione degli atti inerenti al procedimento disciplinare, pur avendo riconosciuto la natura imperativa della disposizione di legge che detta modalità impone;
il motivo, poi, argomenta sulla violazione della privacy che nella specie si sarebbe verificata e analizza i fatti dei quali la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto, decisivi ai fini della dimostrazione dell’illegittimità dell’iniziativa disciplinare, per contrasto con la normativa dettata dall’art. 55 b is, commi 4 e 5 d.lgs. n. 165/2001;
1.2. la seconda critica, egualmente formulata ai sensi dei nn. 3, 4, e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia «omesso esame e non adeguata, illogica e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in merito alla limitazione della delega alla firma della Vitale riguardo ai conti correnti del Consolato di Prima Classe d’Italia a Mendoza Argentina – presso il Banco di Patagonia ed in riferimento agli accadimenti del 11.3.16; violazione o falsa
applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro con riferimento all’art. 13, co.2, lett. a) e lett. b) C.C.N.L. Comparto Ministeri 2002/2005 del 12/6/2003 come modificato dall’art. 27, co. 1 e 2, C.C.N.L. Comparto Ministeri 2006/2009 del 14/9/200 7 nonché all’art. 23 C.C.N.L. Comparto Ministeri del 16/5/1995 come modificato dall’art. 11 C.C.N.L. Comparto Ministeri del 12/6/2003 e di norme di diritto con riferimento agli artt. 142 d.P.R. 18/67,115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c.; nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co.2, n. 4 c.p.c.»; la ricorrente addebita alla Corte territoriale di avere errato nella valutazione delle risultanze processuale dalle quali, a suo dire, sarebbe emersa la totale infondatezza degli addebiti contestati sia con riferimento al potere di delega, sia in relazione agli accadimenti successivi all’emissione degli assegni; sostiene che il giudice d’appello non avrebbe in alcun modo considerato le plurime argomentazioni sviluppate dalla appellante a sostegno della propria tesi e richiama il contenuto delle deposizioni testimoniali e della documentazione in atti che smentirebbe la ricostruzione fattuale operata e dimostrerebbe l’inattendibilità della COGNOME , con conseguente inapplicabilità delle disposizioni contrattuali richiamate nella sentenza impugnata;
l’eccezione di tardività del ricorso, formulata dal Ministero controricorrente, è infondata;
la sentenza impugnata, non notificata, è stata pubblicata il 26 novembre 2019, sicché il termine semestrale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ. scadeva il 30 luglio 2020, tenuto conto della sospensione disposta dall’art. 83 del d.l. n. 18/2020, poi prorogata sino a tutto l’11 maggio 2020 dall’art. 36, comma 1, del d.l. n. 23/2020;
il ricorso risulta avviato alla notifica il 20 giugno 2020 ed è, pertanto, tempestivo;
entrambe le censure, peraltro, presentano plurimi profili di inammissibilità;
in premessa va evidenziato che l’orientamento di questa Corte secondo cui un singolo motivo può essere articolato in più profili di doglianza, senza che per ciò solo se ne debba affermare l’inammissibilità (Cass. S.U. n.9100/2015), trova applicazione solo qualora la formulazione permetta di cogliere con immediatezza e con chiarezza quali critiche siano riconducibili alla violazione di legge e quali, invece, all’accertamento dei fatti;
nel caso di specie, al contrario, le doglianze, formulate contestualmente ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., realizzano una commistione fra profili di merito e questioni giuridiche, esaminati in un unico contesto, sicché finiscono per assegnare inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse ( Cass. n. 26790/2018);
3.1. peraltro, anche a voler superare detta ragione di inammissibilità, va detto che entrambi i motivi di ricorso, nella parte in cui denunciano l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ed il vizio motivazionale, sono inammissibili ex art. 360 bis, n. 2, cod. proc. civ. perché da tempo si è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui, a seguito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83/2012, applicabile alla fattispecie ratione temporis , è denunciabile nel giudizio di legittimità solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attiene all’esistenza
della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali;
tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, sicché resta ormai esclusa qualunque rilevanza della mera insufficienza della motivazione;
il giudice del merito, infatti, non è tenuto ad esaminare espressamente e singolarmente ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, atteso che ai sensi dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ. è necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, con la conseguenza che si devono ritenere disattesi per implicito tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’ iter argomentativo seguito (cfr. fra le tante Cass. n. 12652/2020 e Cass. n. 2151/2021);
nella specie la Corte territoriale, con motivazione sintetica ma non mancante né contraddittoria, ha indicato le ragioni per le quali andavano escluse la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare e l’asserita nullità della sanzione, quale effetto della comunicazione della stessa con formalità diverse da quelle prescritte dal legislatore, e nel far ciò ha esaminato i fatti che la ricorrente assume essere decisivi, sicché le doglianze non possono sfuggire alla sanzione di inammissibilità;
3.2. occorre rammentare al riguardo che in relazione all’apprezzamento delle risultanze processuali rileva solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo;
l ‘omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante nel giudizio di legittimità (si rimanda alla motivazione di Cass. S.U. n. 34476/2019 che richiama Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018 e Cass. S.U. n. 33679/2018);
nella fattispecie, pertanto, sono inammissibili tutte le censure attraverso le quali la ricorrente sollecita una ricostruzione dei fatti diversa da quella che si legge nella sentenza impugnata, addebitando al giudice d’appello più che un omesso esame di fatti decisivi (come si è detto valutati dalla Corte territoriale) l’omessa valorizzazione di risultanze istruttorie nei termini sollecitati dall’appellante;
3.3. quanto, poi, alla asserita tardività della sanzione, la censura, con la quale la ricorrente torna ad insistere sulla necessità di tener conto del momento in cui era stato apposto il visto di esecutività, si pone in contrasto con la giurisprudenza, egualmente consolidata, di questa Corte secondo cui ai fini del rispetto del termine di decadenza imposto dall’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001, rileva solo la data di adozione del provvedimento, non quella successiva di perfezionamento dell’efficacia nei confronti del destinatario, perché il citato comma 4 richiama il procedimento disciplinato dal comma 2
ed in tal modo riferisce con chiarezza la conclusione all’attività del responsabile della struttura o dell’UPD;
in altri termini, come affermato già da Cass. n. 5637/2009, « il procedimento disciplinare si conclude o con una declaratoria di chiusura del procedimento per non luogo a procedere disciplinarmente o, come nel caso che qui ne occupa, con l’adozione di una sanzione disciplinare » e, pertanto, « il momento conclusivo del procedimento deve essere individuato nel momento in cui la parte datoriale esprime la propria valutazione ed esaurisce il proprio potere disciplinare mediante l’adozione della sanzione disciplinare »;
dal richiamato principio, ribadito costantemente da questa Corte (cfr. fra le tante Cass. n. 4280/2024 e la giurisprudenza ivi citata), non si è discostata la Corte territoriale sicché la censura, che non prospetta argomenti idonei a sollecitare una rimedi tazione dell’orientamento espresso, non sfugge alla sanzione di inammissibilità ex art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.; 3.4. alle medesime conclusioni si giunge quanto all’asserita violazione del comma 5 dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 perché manifestamente infondata è la tesi, reiterata anche in questa sede dalla ricorrente, secondo cui la comunicazione al dipendente degli atti del procedimento disciplinare con modalità diverse da quelle indicate dal legislatore si riverbera sulla validità della sanzione, determinandone la nullità;
in tema di procedimento disciplinare, ove la decadenza o l’invalidità non sia no espressamente previste dal legislatore, non è sufficiente una qualsivoglia difformità rispetto alla tipizzazione normativa per inferirne l’illegittimità della sanzione, ma è necessario che da quella violazione sia derivata una irrimediabile compromissione del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 9313/2021 e Cass. n. 6555/2019 con riferimento all’ audizione
dell’incolpato; Cass. n. 32491/2018 sul mancato rispetto del termine per la trasmissione della notizia all’UPD), che nella specie la Corte territoriale ha correttamente escluso, rilevando che l’atto aveva comunque raggiunto lo scopo perseguito dalle disposizioni dettate in tema di comunicazione, che è quello di garantire che l’incolpato sia portato a conoscenza degli atti del procedimento disciplinare;
quanto, poi, alla violazione della privacy, il primo motivo, oltre a sollecitare una rivisitazione delle risultanze processuali per contestare l’affermazione, in fatto, che si legge nella sentenza impugnata circa la non imputabilità al Ministero di quanto accaduto al momento della consegna dell’atto, infondatament e desume da quella asserita violazione un’incidenza sulla validità della sanzione, atteso che l’illegittimità della stessa può derivare unicamente da vizi sostanziali (insussistenza degli addebiti o difetto di proporzionalità) o procedimentali, quando questi ultimi determinino la decadenza dal potere disciplinare o incidano, compromettendolo, sul diritto di difesa;
3.5. quanto al secondo motivo vanno richiamate le argomentazioni già espresse nei punti che precedono in ordine al vizio motivazionale ed all’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, insussistenti perché la Corte territoriale ha valutato le risultanze di causa, pervenendo alla ricostruzione dei fatti nei termini riportati nello storico di lite;
inoltre il motivo, attraverso la deduzione solo apparente del vizio di violazione delle norme di legge e delle disposizioni contrattuali, in realtà sollecita una rivisitazione del merito, che esula dai limiti del giudizio di legittimità;
è consolidato, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017); nella specie la ricorrente, pur denunciando formalmente un vizio di sussunzione, non addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente interpretato le disposizioni della contrattazione collettiva bensì di avere ricostruito in termini difformi dal reale la condotta tenuta dalla COGNOME, sicché la censura attiene, all’evidenza, a profili di fatto , che in quanto tali esulano dai limiti del giudizio di legittimità;
in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 4000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio della Sezione