Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1821 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 1821 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 5922-2020 proposto da:
NOME COGNOME, domiciliato ope legis in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, con diritto di ricevere le comunicazioni all’indirizzo PEC dell’ avv. NOME COGNOME dalla quale è rappresentato e difeso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
R.G.N. 5922/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 20/11/2024
CC
avverso la sentenza n. 1237/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/08/2019 R.G.N. 75/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Milano ha rigettato l’appello di NOME COGNOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva respinto il ricorso, proposto nei confronti del Comune di Milano, volto ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per giorni dieci irrogata il 28 dicembre 2016 nonché l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento alla sede UCEI con mansioni di addetto alla sorveglianza, disposto a decorrere dal 18 gennaio 2017;
la Corte distrettuale, riassunti i fatti di causa ed i motivi di impugnazione, ha ritenuto che:
l’azione disciplinare era stata avviata e conclusa nel rispetto dei termini indicati dall’art. 55, comma 4, d.lgs. n. 165/2001 perché il procedimento era stato condotto dall’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD) e non poteva assumere rilievo, quanto alla individuazione della disciplina applicabile, la sanzione in concreto irrogata all’esito del procedimento medesimo;
inammissibilmente erano stati prospettati solo in grado di appello vizi non dedotti nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado (competenza del responsabile della struttura alla quale l’appellante era assegnato e abusi degli organi coinvolti nella vicenda disciplinare), sicché le relative deduzioni non potevano essere apprezzate;
la segnalazione disciplinare era pervenuta all’UPD il 2 settembre 2016 e, pertanto, il termine per la contestazione non poteva decorrere dalla pubblicazione, avvenuta sulla stampa il 31 marzo 2016, di un articolo dedicato all’associazione APDL ed al suo presidente, anch’egli appartenente al corpo della polizia municipale;
i termini del procedimento devono essere certi e, pertanto, non possono essere agganciati ad una qualsiasi notizia pervenuta a qualunque ufficio dell’amministrazione, occorrendo invece che la notizia abbia contenuto tale da consentire all’organo compete nte di dare avvio al procedimento disciplinare in modo corretto;
non è impedito, pertanto, all’amministrazione lo svolgimento di indagini preliminari che siano finalizzate a chiarire i termini della vicenda, a circostanziare i fatti ed a verificarne la fondatezza;
l’iniziativa disciplinare non era stata avviata, come sostenuto dall’appellante, per impedire la realizzazione degli scopi della onlus , che forniva assistenza ai cittadini qualora intendessero far valere i loro diritti ed impugnare sanzioni amministrative illegittime;
al COGNOME, infatti, era stato contestato di avere, nell’esercizio della sua attività lavorativa, attestato che un ricorso proposto avverso sanzione amministrativa, tra l’altro già pagata dall’interessato, era stato depositato da quest’ultimo quando, in realtà, la presentazione allo sportello era stata effettuata da altro appartenente alla Polizia Municipale, che rivestiva anche il ruolo di presidente della associazione RAGIONE_SOCIALE della quale faceva parte l’appellante, e in tal modo, in violazione dei do veri d’ufficio, era stato creato un canale privilegiato per facilitare il
disbrigo delle pratiche amministrative di coloro che si fossero rivolti all’associazione sopra indicata;
la sanzione inflitta era proporzionata alla gravità dei fatti contestati perché nell’esecuzione della prestazione lavorativa il dipendente aveva realizzato una indebita commistione fra interessi pubblici e privati ed aveva leso, inoltre, l’immagine del Corpo di polizia locale;
l’assegnazione ad un diverso ufficio del Comando della Polizia Municipale non integrava un trasferimento in senso proprio, in quanto lo spostamento era avvenuto all’interno del medesimo territorio comunale e non si era verificato alcun demansionamento, peraltro neppure allegato in modo specifico dall’appellante, perché a quest’ultim o erano state assegnate mansioni equivalenti secondo la classificazione professionale contenuta nel CCNL di comparto;
per la cassazione della sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi, ai quali ha opposto difese con controricorso il Comune di Milano.
CONSIDERATO CHE
con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 e, premesso che è stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per giorni dieci, reitera la tesi secondo cui i termini da rispettare erano quelli previsti dal comma 1, non dal comma 4, della disposizione citata;
rileva, inoltre, che il dies a quo andava individuato nella data di pubblicazione della notizia sulla stampa locale (31 marzo 2016) o, al più tardi, nel 1° giugno 2016, ultimo giorno in cui era stata
svolta l’attività di indagine avviata a seguito delle notizie giornalistiche e non poteva la direzione del personale ritardare senza ragione alcuna la trasmissione all’UPD;
aggiunge che il termine di 60 giorni per la conclusione del procedimento era spirato in ogni caso, sia computandolo a partire dal 31 marzo 2016, sia a voler considerare il 1° giugno 2016 e rileva, infine, che del tutto ingiustificata è stata la protrazione per ben 154 giorni delle indagini preliminari;
1.2. con la seconda critica è denunciato «omesso esame della concreta condotta addebitata al signor COGNOME» e si addebita alla Corte distrettuale di non avere correttamente valutato le risultanze di causa e di avere erroneamente ritenuto contrastante con i doveri d’ufficio l’attività resa in favore di un associato a tutela di diritti costituzionalmente garantiti;
1.3. il terzo motivo deduce testualmente «violazione e falsa applicazione dell’art. 54 d.lgs. 165/2001, artt. 3 e 4 d.P.R. n. 62/2013, dell’art. 23 CCNL del Comparto del Personale delle Regioni-Autonomie locali e Comparto Regioni- Enti Locali, degli artt. 2 e 12 del Codice di Comportamento del Comune di Milano e dell’art. 44 comma 2 del Regolamento del Corpo di Polizia Municipale e dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 25 C.C.N.L. del Comparto del Personale delle Regioni-Autonomie locali e Comparto Regioni- Enti Locali» e censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto la sanzione proporzionata alla gravità dell’addebito;
sostiene il ricorrente che la ricezione di un ricorso presentato da persona delegata dall’interessato era consentita dalle procedure di ufficio e non aveva comportato alcuna commistione con interessi privati, perché egli non aveva ricevuto per l’attività prestata compensi o corrispettivi, né aveva violato il codice disciplinare dettato dalle parti collettive;
aggiunge che non era stata fornita alcuna prova del pregiudizio arrecato al decoro del Corpo o agli interessi dell’amministrazione comunale ed infine conclude il motivo sostenendo che sarebbe evidente «la non proporzionalità della sanzione, tenuto conto del fatto che il ricorrente aveva tempestivamente comunicato la sua partecipazione all’attività dell’associazione» ;
1.4. la quarta censura addebita alla Corte territoriale la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ., dell’art. 5 d.lgs. n. 165/2001, degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.;
il ricorrente sostiene che nella specie l’atto datoriale impugnato avrebbe realizzato l’assegnazione ad una unità produttiva diversa da quella ove la prestazione lavorativa veniva originariamente svolta, sicché il provvedimento doveva essere sorretto da ragioni organizzative e produttive delle quali il Comune avrebbe dovuto fornire la prova;
aggiunge, inoltre, che il trasferimento era stato adottato con intenti discriminatori e ritorsivi ed era, pertanto, affetto da nullità ex art. 15 della legge n. 300/1970;
richiama gli obblighi di correttezza e buona fede nonché la necessità che le scelte organizzative delle pubbliche amministrazioni rispondano all’interesse pubblico e deduce, infine, che era mancata ogni indagine da parte del giudice del merito sul caratter e punitivo dell’atto nonché sul denunciato demansionamento;
1.5. infine con il quinto motivo è denunciato il vizio di «omessa pronuncia sulla sussistenza di un danno risarcibile e violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.»;
la censura ribadisce che si era in presenza di un trasferimento illegittimo, non giustificato da ragioni organizzative, e, pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare sulla domanda
risarcitoria, liquidando in via equitativa il danno non patrimoniale consistito nell’obiettivo peggioramento delle condizioni di vita del lavoratore che, a seguito del comportamento datoriale, aveva anche accusato disturbi psicofisici;
il primo motivo di ricorso presenta profili di inammissibilità, innanzitutto perché, quanto ai rilievi inerenti alla competenza ed agli abusi asseritamente commessi dagli organi coinvolti nel della sentenza impugnata, fondata sulla inammissibilità della deduzione tardiva
procedimento disciplinare, non coglie la ratio dei vizi, non prospettati con il ricorso di primo grado;
parimenti inammissibile è la censura quanto ai passaggi argomentativi che, realizzando una non consentita commistione fra questioni di fatto e profili di diritto, sollecitano questa Corte a ricostruire le diverse fasi del procedimento disciplinare ed a valutare documenti (peraltro indicati senza il rispetto degli oneri formali imposti dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.) dai quali, a detta del ricorrente, emergerebbe l’avvenuta violazione dei termini imposti dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis , antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75/2017;
2.1. per il resto il motivo è infondato, perché la Corte territoriale ha condotto l’accertamento di fatto, incensurabile in questa sede, attenendosi ai principi di diritto consolidati nella giurisprudenza della Corte, la quale, quanto all’applicabilità del comma 2 o del comma 4 dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, ha costantemente affermato che l’attribuzione della competenza al dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, si definisce esclusivamente tenendo conto delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti
contestati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare né tantomeno in relazione alla sanzione in concreto applicata all’esito del procedimento (cfr. fra le tante Cass. n. 19097/2024;Cass. 30226/2019;Cass. n. 20845/2019); il ricorso continua a fare leva unicamente sulla misura della sanzione inflitta (pag. 14 del ricorso) senza muovere specifiche censure al passaggio argomentativo della sentenza impugnata che fa riferimento, appunto, ai limiti edittali e non all’entità della sanzione irrogata;
2.2. parimenti conforme a diritto è il capo della pronuncia gravata che esclude la possibilità di far decorrere il termine per la contestazione, indicato dal comma 4 dell’art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001, da data antecedente a quella di trasmissione degli atti all’UPD ;
premesso che hanno natura perentoria solo i termini iniziale e finale, e non quello fissato dal comma 3 del citato art. 55 bis (cfr. Cass. n. 12213/2016 e successive conformi), questa Corte ha costantemente affermato (si rinvia alla motivazione ed ai richiami di Cass. n. 35061/2023) che detti termini rispondono ad esigenze di certezza poste a tutela di entrambe le parti del rapporto perché, se, da un lato, occorre evitare che il dipendente pubblico possa rimanere esposto senza limiti temporali all’iniziativa disciplinare, dall’altro occorre anche assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, che risulterebbe vulnerato da un’interpretazione che lasciasse nel vago il dies a quo del procedimento, rimettendolo – in ipotesi – anche a notizie informali o pervenute ad uffici privi di competenza quanto alla materia disciplinare e con i quali il dipendente non abbia alcuna relazione diretta (cfr. in motivazione fra le tante Cass. n. 20730/2022, Cass. n. 16842/2019 nonché Cass. n. 8943/2023 che, richiamati detti
principi, li ha estesi al dies a quo per la riattivazione del procedimento disciplinare sospeso);
2.3. è altresì consolidato l’orientamento secondo cui la decorrenza del termine di decadenza di cui all’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone l’acquisizione di una notizia ‘qualificata’ ed idonea a supportare l’apertura del procedimento disciplinare con la formulazione della contestazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18362/2023 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), sicché il termine medesimo non può decorrere a fronte di una notizia che non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (cfr. Cass. n. 22075/2018 ed i richiami ivi contenuti);
ciò perché, come è stato pure osservato, un fatto è rilevante sul piano disciplinare soltanto se corredato da elementi narrativi e conoscitivi sufficientemente articolati, dettagliati e circostanziati in quanto « è a tutela dello stesso lavoratore evitare che vengano promosse iniziative disciplinari ancora prive di sufficienti dati conoscitivi; né risponde ad un’esigenza di economia ed efficienza dell’agire amministrativo l’apertura di procedimenti disciplinari in assenza di significativi elementi di riscontro della responsabilità» ( Cass. n. 33236/2022);
se ne è tratta la conseguenza che è legittima una fase preistruttoria che si colloca al di fuori del procedimento e non ne fa decorrere i termini;
2.4. la Corte territoriale ha condotto l’accertamento di fatto nel pieno rispetto dei principi sopra riassunti ed infondatamente il ricorso reitera in questa sede la tesi secondo cui il termine per la contestazione doveva decorrere dalla pubblicazione delle notizie sulla stampa locale o dalla conclusione degli atti ispettivi,
asseritamente ultimati il 1° giugno 2016, e non dalla data di trasmissione degli atti all’UPD, avvenuta il 2 settembre 2016;
2.5. quanto, poi, al termine finale il motivo non si confronta con il decisum della sentenza impugnata nella quale si afferma, a pag. 9, che «nel ricorso ex art. 414 c.p.c. il COGNOME si era limitato a censurare il procedimento di irrogazione della sanzione sotto il profilo formale del mancato rispetto dei termini di cui all’art. 55 bis d.lgs. per la contestazione dell’addebito», sicché non possono essere apprezzate in questa sede le considerazioni che riguardano il diverso termine imposto per la conclusione del procedimento medesimo;
infatti nel giudizio di cassazione, a critica vincolata, i motivi devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, sicché la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 n.4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio ( cfr. fra le tante Cass. n. 9450/2024, Cass. 15517/2020, Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007)
il secondo motivo, che denuncia «omesso esame della concreta condotta addebitata al signor COGNOME» è inammissibile perché nella sostanza volto a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, quanto alla ricostruzione dei fatti ed alla sussistenza del conflitto di interessi;
le doglianze, inoltre, non sono riconducibili al vizio indicato dal riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., che, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014 (cfr. anche Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018 e Cass. S.U. n. 34476/2019), concerne unicamente l’omesso esame di un fatto
storico decisivo ai fini di causa ed oggetto di discussione fra le parti e non può essere esteso né alla mancata valutazione di un mezzo di prova acquisito agli atti del giudizio, ove il fatto sia stato comunque apprezzato, né, tantomeno, all’errato giudiz io espresso in ordine ad un punto controverso della causa;
4. parimenti inammissibile è il terzo motivo che, al pari delle altre censure, si risolve nella contestazione della valutazione espressa dal giudice d’appello quanto ai fatti di causa, e realizza una non consentita commistione di questioni di merito e di diritto;
il ricorrente trascrive nel ricorso il codice di comportamento e le disposizioni dettate dalla contrattazione collettiva, ma non indica le ragioni in iure per le quali la Corte territoriale sarebbe incorsa nell’asserito errore interpretativo;
è consolidato l’ orientamento di questa Corte secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le tante Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017);
è stato altresì affermato che nella deduzione del vizio di violazione di legge o di disposizioni di contratto collettivo è onere del ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione ( Cass. n. 17570/2020; Cass. n. 16700/2020);
nella specie, come già anticipato, il ricorrente, pur denunciando formalmente la violazione del codice di comportamento e della contrattazione collettiva, nella sostanza contesta che la condotta potesse essere ricondotta alle fattispecie di illecito disciplinare tipizzate, non perché queste siano state erroneamente interpretate dalla Corte territoriale bensì perché il comportamento aveva profili oggettivi e soggettivi diversi da quelli evidenziate nella pronuncia impugnata;
la censura, quindi, attiene al profilo fattuale, non a quello giuridico e, come tale, esula dai limiti del giudizio di legittimità; 5. non sfugge alla sanzione di inammissibilità neppure il quarto motivo che, da un lato, prospetta questioni (carattere discriminatorio e ritorsivo della disposta assegnazione, asseritamente finalizzata a perseguire un intento punitivo) non affrontate dalla sentenza impugnata che ha ritenuto assorbente la legittimità dell’assegnazione ad altro ufficio, dall’altro, quanto alla qualificazione dell’atto , si limita ad insistere sull’applicabilità dell’art. 2103 c.c. affermando apoditticamente che nella specie
era stato realizzato uno spostamento fra unità produttive quando la Corte territoriale ha accertato, invece, che si era in presenza di una mera assegnazione ad altro servizio del Corpo di Polizia municipale;
da tempo (cfr. Cass. n. 20170/2007) questa Corte ha affermato che « l’assegnazione del dipendente ad un ufficio diverso costituisce esercizio di un potere organizzativo che l’amministrazione adotta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Il mero spostamento di un pubblico dipendente da un ufficio ad un altro, che si risolva in una assegnazione di compiti diversi da quelli prima svolti, non può essere ricondotto alla nozione di trasferimento in senso tecnico; affinché si configuri un trasferimento, è necessario, infatti, che si realizzi un apprezzabile spostamento geografico del luogo di esecuzione della prestazione. Ne deriva che qualora non venga in considerazione detto mutamento geografico non si configura la fattispecie tutelata dalla norma codicistica di cui all’articolo 2103 cod.civ. -(applicabile in punto di trasferimento al pubblico impiego privatizzato, in mancanza di una diversa disciplina nel D.Lgs. 165/2001) -e, conseguentemente, il Comune-datore di lavoro non ha l’onere di comprovare la sussistenza di ragioni organizzative per destinare il dipendente ad altro ufficio»;
dal richiamato principio, ribadito da Cass. n. 22998/2024 e da Cass. n. 34014/2021, non si è discostata la Corte territoriale la quale ha accertato che nella specie si era in presenza di «un mero spostamento da un’articolazione ad un’altra del Comando dell a Polizia Locale all’interno del territorio comunale» ed ha anche escluso che detta assegnazione avesse comportato un demansionamento del ricorrente;
6. infine è inammissibile anche il quinto motivo che, ancora una volta, non coglie la ratio decidendi della pronuncia impugnata
che non ha omesso di pronunciare sulla domanda di risarcimento del danno bensì l’ha rigettata, escludendo l’asserita illegittimità degli atti datoriali;
il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo allorquando risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, sicché lo stesso non ricorre nel caso in cui la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (cfr. fra le tante Cass. n. 12652/2020 e Cass. n. 2151/2021);
nel caso di specie la Corte territoriale ha evidenziato che « una volta esclusa l’illegittimità del mutamento delle mansioni, ogni altra questione è assorbita», e così ragionando non ha omesso di provvedere sulla domanda, bensì l’ha rigettata;
in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio della Sezione