Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7539 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 7539 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/03/2024
SENTENZA
sul ricorso 27630/18 R.G. proposto da:
COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), rappresentate e difese dagli avvocati COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), elettivamente domiciliate in INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE) e RAGIONE_SOCIALE (CODICE_FISCALE), presso il cui studio in INDIRIZZO INDIRIZZO, giusta procura in atti;
-controricorrente e ricorrente in via incidentale –
avverso la sentenza n. 1697/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata in data 18/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale COGNOME ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti motivi ed il ricorso incidentale condizionato; per la parte ricorrente l’AVV_NOTAIO NOME, riportandosi agli scritti difensivi già depositati, ha insistito per l’accoglimento del ricorso; per la parte resistente l’AVV_NOTAIO. COGNOME NOME, riportandosi agli scritti difensivi già depositati, ha insistito per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
NOME, NOME e NOME COGNOME, esponendo di avere ricevuto in donazione il 9.5.2006 dai propri genitori taluni immobili e che fra essi v’era la metà indivisa di un locale cantina e che NOME COGNOME occupava senza titolo tale locale, con atto di citazione chiesero che quest’ultima fosse condannata al rilascio dell’immobile e a corrispondere l’indennità per l’occupazione
La convenuta si difese eccependo, in via riconvenzionale, di avere acquistato il bene oggetto di causa, con atto del 14.7.2005, da NOME COGNOME, il quale le aveva venduto un appartamento e un garage, del quale la porzione di cantina costituiva pertinenza.
Con la memoria autorizzata di cui all’art. 183, co. 6, cod. proc. civ. le attrici, ad integrazione delle esperite domande, precisarono che la condanna alla riconsegna dell’immobile fosse da reputare conseguenza dell’accertamento del loro diritto di proprietà sul medesimo bene.
Il Tribunale, accolta la domanda, dichiarò le attrici proprietarie del bene e condannò la convenuta al rilascio e a corrispondere un’indennità, quantificata in € 6.000,00, per l’occupazione
1.1. La Corte d’appello di Venezia, per quel che ancora qui rileva, accolta in parte l’impugnazione della COGNOME, rigettò la domanda attorea e quella della convenuta.
1.1.1. Stante la difformità di ‘decisum’ tra le due sentenze di merito conviene, sia pure in sintesi, riprendere il ragionamento del giudice di secondo grado, il quale evidenziava che:
aveva errato il Tribunale a qualificare la domanda delle COGNOME come di restituzione, trattandosi, invece, di rivendicazione, avendo queste chiesto restituirsi loro un bene abusivamente occupato, in conformità della sentenza n. 7305/2014 delle Sezioni unite, ciò a maggior ragione a seguito della precisazione della domanda;
le stesse appellate avevano affermato <>;
-ricostruiti i passaggi che avevano condotto al titolo proprietario della COGNOME, le appellate non avevano provato l’acquisto a titolo originario, tenuto conto del fatto che il locale di cui si discute non era <>;
-il vincolo pertinenziale invocato dalla convenuta non sussisteva poiché esso non preesisteva all’atto del di lei acquisto immobiliare e non constava essere stato esplicitamente e inequivocamente enunciato nel predetto atto.
NOME, NOME e NOME COGNOME proponevano ricorso sulla base di tre motivi.
Resisteva con controricorso, con il quale avanzava ricorso incidentale condizionato, NOME COGNOME.
Il Relatore, cui la causa era stata assegnata, giudicati manifestamente infondati i motivi del ricorso, propose, ai sensi dell’allora vigente art. 380bis cod. proc. civ., trattarsi la controversia <>.
Le ricorrenti depositavano memoria illustrativa.
Con l’ordinanza interlocutoria n. 1816/2020, depositata il 27/1/2020, la Sesta Sezione, all’esito della camera di consiglio dispose rimettersi la causa alla pubblica udienza, in quanto <>.
All’approssimarsi della fissata pubblica udienza, pervenute le conclusioni del P.G, con le quali ha chiesto accogliersi il primo
motivo e dichiarare assorbiti i rimanenti, nonché il ricorso incidentale condizionato, la resistente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo del ricorso principale le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 2697 cod. civ.
Con il motivo si afferma che il bene in contestazione proviene da un comune dante causa, dal che consegue l’attenuazione dell’onere probatorio in capo al rivendicante, secondo la costante giurisprudenza di legittimità.
In particolare, le ricorrenti spiegano di essere divenute proprietarie attraverso la donazione del 9/5/2006 disposta in loro favore da NOME COGNOME e NOME COGNOME ed NOME COGNOME aveva prodotto in primo grado (all. 1, 4 e 5) i documenti che consentivano di risalire, anche per costei a NOME COGNOME e NOME COGNOME, i quali nel 1999 avevano venduto a NOME COGNOME, il quale, nel 2004, aveva venduto a NOME COGNOME, il quale, da ultimo, aveva venduto a NOME COGNOME.
Di conseguenza, non sussistendo alcun conflitto a riguardo all’anteriore appartenenza, ma solo a riguardo dell’attuale, per le rivendicanti l’onere della prova era stato assolto, avendo costoro dimostrato il proprio titolo d’acquisto.
2. Il motivo è fondato.
Il principio di diritto richiamato dalle ricorrenti risulta costituire vero e proprio ‘diritto vivente’, essendo stato da lungo tempo enunciato in sede di legittimità.
Già nel 1982 si è avuto modo di affermare che il rigore della cosiddetta ‘probatio diabolica’, la quale comporta l’onere a carico dell’attore in rivendicazione, di provare la proprietà del bene risalendo, anche attraverso i propri danti causa, sino ad un
acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, si attenua nel caso in cui il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, nel senso che, in tale ipotesi, il rivendicatore non ha l’onere di provare il diritto dei suoi autori sino ad un acquisto a titolo originario, ma solo che il bene abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto e di quello dei suoi danti causa, sino al proprietario comune autore tra i contendenti (Sez. 2, n. 518, Rv. 418223; ma già nello stesso senso, Cass. nn. 5807/1978, 991/1977).
La ratio, com’è evidente, risiede nella ‘contraddizione che nol consente’ di negare la titolarità del rivendicante comune alla controparte.
Successivamente il principio è stato reiteratamente confermato (Cass. nn. 8394/1990, si vedano, ex multis, Cass. nn. 439/1985, 1873/1985, 4556/1985, 6592/1986; e per i decenni successivi, Cass. nn. 8394/1990, 22598/2010, 19499/2015, 29707/2017, 36335/2023).
Controdeduce la resistente che una simile prospettazione non risulta essere stata esaminata dalla Corte d’appello, davanti alla quale non sarebbe stata posta. Quindi, a cagione della sua novità, la doglianza sarebbe inammissibile.
L’argomento, pur approfondito con dovizia in memoria, non è condiviso dal Collegio.
L’onere di assolvere alla ‘probatio diabolica’, facente carico al rivendicante, consiste nella dimostrazione che il bene rivendicato è stato da lui acquistato a titolo originario, ovvero, molto più comunemente, che è a lui pervenuto attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti aventi inizio da chi lo aveva acquistato a titolo originario.
Al fine di soddisfare un tale onere occorre, di conseguenza, che il giudice venga posto nella condizione di conoscere la sequela.
2.1. L’attenuazione della regola probatoria dovuta alla comunanza del dante causa non costituisce oggetto d’una eccezione in senso stretto, bensì conseguenza della corretta interpretazione della regola ‘iuris’ cui il giudice è tenuto.
In altre parole, all’esito del vaglio dei titoli il giudicante, ove accerti una tale comunanza, è tenuto a trarne le debite conseguenze.
Per questa ragione deve escludersi che nel caso in esame la questione (cioè il fatto che la ‘probatio diabolica’ dovesse reputarsi attenuata dalla comunanza del dante causa) integri un tema nuovo non sottoposto al Giudice d’appello.
Quest’ultimo, infatti, deve decidere la controversia, sulla base delle emergenze di causa (nella specie costituite dai documenti messi a disposizione da entrambe le parti), essendo tenuto, se ne ricorra il caso, a riconoscere soddisfatto l’onere nell’ipotesi, più volte evocata, di comunanza del dante causa.
È appena il caso di soggiungere che, un tale accertamento, che non consta la Corte di Venezia abbia compiuto, è squisitamente di merito.
Per quanto esposto, accolto il motivo in esame, il Giudice del rinvio dovrà, giudicando la domanda di rivendicazione, accertare l’eventuale soddisfazione dell’onere della prova che grava sul rivendicante nei termini sopra riportati.
2.2. È utile, inoltre, precisare il seguente principio di diritto correlato al configurarsi del predetto onere nel caso in cui vi sia comunanza di dante causa:
‘ ove ricorra l’ipotesi della comunanza del dante causa, che, secondo il diritto vivente, attenua la ‘probatio diabolica’, compete
al giudice, sulla base delle evidenze probatorie di causa, trarne la conseguenza in ordine al soddisfacimento dell’onere della prova. La verifica di una tale ipotesi non è, pertanto, dipendente da eccezione, costituendo invece applicazione della corretta regola ‘iuris’, che compete al giudicante; di conseguenza, il rivendicante, che ne assuma la sussistenza, ignorata dal giudice, non introduce, con il gravame, un tema nuovo ‘.
In ragione dell’accoglimento del primo motivo, il secondo e il terzo, con i quali le ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, per non avere la Corte d’appello correttamente apprezzato <>, nonché <>, per avere la sentenza impugnata, attraverso il rigetto delle domande di entrambe le parti, reso il bene conteso <>, restano assorbiti in senso proprio.
Con il motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione degli artt. 817 e 818 cod. civ.
Questo, in sintesi, il ragionamento impugnatorio:
la sentenza aveva escluso la natura pertinenziale del locale valorizzando la circostanza che nel 1984 NOME COGNOME e NOME COGNOME non locarono a NOME COGNOME anche la cantina, invece, a tenore dell’art. 817 cod. civ. la Corte d’appello avrebbe dovuto tenere conto esclusivamente della oggettiva destinazione accessoria al bene principale;
non era occorrente alcuna specifica, formale indicazione della cosa accessoria alla principale, essendo, al contrario, nel caso di vendita del solo bene principale, necessario escludere espressamente quello accessorio.
Il motivo è infondato.
5.1. La sentenza impugnata, dopo avere affermato che il vincolo pertinenziale tra unità immobiliari siti nello stesso edificio richiede <>, esclude che nella condotta di NOME COGNOME e NOME COGNOME (eredi di NOME COGNOME) potesse riscontrarsi la volontà di trasformare la quota indivisa della cantina nella pertinenza dell’appartamento posto al secondo piano, per avere consegnato alla locatrice dell’appartamento le chiavi della cantina e tollerato che le stesse, pur dopo la cessazione del contratto di locazione e la vendita a terzi dell’appartamento, <>, non ravvisandosi in tali comportamenti <> richiede.
Viene soggiunto che se è pur vero che il rapporto di pertinenzialità può sussistere fra un appartamento e una cantina, nel caso in cui quest’ultima arrechi utilità alla cosa principale, tuttavia, <>.
Infine, la Corte di Venezia soggiunge: <>.
Esaminate le emergenze istruttorie la sentenza afferma, sulla base del tenore degli atti di cessione in sequenza, potersi ricavare una tale volontà. Sicché, infine, <>.
5.2. La decisione, sorretta dagli argomenti, sia pure in sintesi, riportati, non ponendosi in contrasto con gli arresti nomofilattici di questa Corte, ha deciso sulla base di un accertamento di merito non sindacabile davanti al Giudice della legittimità.
La sentenza coglie nel segno, specie laddove spiega che, in assenza di comprovato preesistente vincolo pertinenziale, non vale sostenere che solo dalla manifestazione di una volontà espressa può dedursi che l’alienante abbia voluto alienare solo la cosa principale, separandola da quella accessoria.
Non si registra, invero, alcun contrasto con il testo normativo laddove si affermi, come nel caso, che non si tratta di separare il bene, destinato alla funzione accessoria, da quello principale, in assenza di una espressa e inequivoca volontà manifestata in tal senso dall’alienante. Ma, ben diversamente, di assegnare una tale destinazione a un bene che, sulla scorta di quanto probatoriamente acquisito, non consti risultare asservito a un bene principale (un
tale asservimento è particolarmente evidente ove le due cose risultino ‘collegate’ sul piano strutturale, o quello accessorio, dipendente obiettivamente -ad esempio per l’esistenza di un unico impianto dei servizi tecnologici -da quello principale; ma alla stessa conclusione può giungersi ove per volontà dell’unico proprietario, di cui vi sia prova indubbia, sia stato creato il vincolo).
Esattamente al contrario di quel che assumono i ricorrenti incidentali, ove un tal vincolo non risulti preesistere, esso non può che sorgere dall’atto, attraverso la inequivoca espressa manifestazione di volontà dell’alienante.
Così inquadrata la disciplina trovano coerente armonizzazione le varie pronunce emesse da questa Corte, le quali, al contrario dell’apparenza, non si pongono in contrasto tra loro, nel senso che non si rinvengono due filoni interpretativi, uno volto a privilegiare l’oggettività del vincolo e l’altro la volontà dell’alienante.
Così, si è affermato che in tema di pertinenze, gli atti e i rapporti giuridici aventi ad oggetto la cosa principale non estendono i propri effetti alla pertinenza ove tanto sia espressamente enunciato nell’atto avente ad oggetto la cosa principale, ovvero risulti da chiari ed univoci elementi contenuti nello stesso atto, il cui apprezzamento è riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 2, n. 26946, 15/12/2006, Rv. 594124).
Sotto altro correlato profilo si è ulteriormente precisato che in tema di pertinenze, la legittima costituzione del vincolo presuppone l’esistenza, oltre che di un unico proprietario, di un elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio ad un rapporto funzionale con quello principale, e di un elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà, espressa o tacita, di destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del
bene principale da parte di chi abbia il potere di disporre di entrambi. Pertanto, proprio in quanto la destinazione in modo durevole di una cosa – pure immobile – a servizio od ornamento di un’altra non necessita di alcuna forma solenne, anche la volontà di esclusione o cessazione di un rapporto pertinenziale tra due cose può essere desunta da qualsiasi elemento a tal fine ritenuto idoneo, con accertamento di mero fatto, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato (Sez. 2, n. 6656, 29/04/2003, Rv. 562529; ma già in precedenza Cass. n. 12755/1999 e, successivamente, ‘ex multis’, Cass. n. 20911/2021).
Ed ancora, per la costituzione del vincolo pertinenziale sono necessari un elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio in una relazione di complementarità con quello principale, e un elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà, del titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale sui beni collegati, di destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del bene principale (Sez. 2, n. 9563, 09/05/2005, Rv. 581711).
Peraltro, posto che la destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest’ultima, anche con riguardo a cose prive del rapporto di accessorietà, e che l’avente diritto, può far venir meno tale rapporto mediante la manifestazione espressa di una volontà contraria, facendo considerare le due cose in modo distinto e separato, è compito del giudice accertare, nell’ambito dei trasferimenti negoziali, l’esistenza di tale volontà, attraverso
l’esame di tutte le clausole contrattuali (Sez. 2, n. 8468, 13/6/2002, Rv. 555035).
5.3. Tirando le fila, avendo il giudice accertato insindacabilmente non potersi affermare che la cantina (quota di ½) fosse stata in precedenza destinata inequivocamente a servizio e utilità dell’appartamento, solo dall’atto si sarebbe potuto ricavare la volontà della creazione di un tale vincolo.
Per contro, il Giudice, anche in questo caso con giudizio di merito non sindacabile, peraltro sorretto da compiuta e coerente motivazione (pag. 10), ha escluso il sussistere di una tale volontà.
5.4. In disparte va evidenziato che non consta essere stata censurata quella che appare come una seconda ratio decidendi , fondata sulla mancata menzione della cantina tra i beni oggetto del trasferimento del 1999 in favore di NOME COGNOME (dante causa della convenuta), nonostante che la cantina fosse dotata di una sua autonoma identificazione catastale (v. pagg. 9 e 10 della sentenza).
In conclusione la sentenza merita di essere cassata solo in relazione al primo accolto motivo del ricorso principale, fermo restando che il Giudice del rinvio dovrà riesaminare il punto sulla scorta degli elementi probatori in atti, ormai cristallizzati.
Il Giudice del rinvio regolerà anche il capo delle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il
ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti gli altri due, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione all’accolto motivo e rinvia alla Corte d’appello di Venezia, altra composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 16 gennaio