Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 1234 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 1234 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1600/2022 R.G. proposto da :
NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende, domiciliazione digitale come in atti
-ricorrente-
contro
FALLIMENTO DI COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende, domiciliazione digitale come in atti
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 4008/2021 depositata in data 1/06/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il fallimento di COGNOME NOME n. 166-2007 evocava in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, NOME COGNOME deducendo che quest’ultima era stata condannata, in via definitiva, per il delitto previsto all’articolo 648 bis c.p. per avere commesso atti di retti ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro ricavato dal marito, NOME COGNOME dalla commissione dei delitti di bancarotta commessi. La COGNOME avrebbe intestando a sé una serie di immobili, in realtà riferibili al marito e acquistati o comunque ristrutturati con il denaro ricavato dalla commissione dei delitti di bancarotta. In tale attività, di concerto con il marito, avrebbe simulato i presupposti per ottenere il provvedimento di separazione personale, intervenuto il 26 ottobre 1990 e, successivamente, quello di divorzio del 5 ottobre 2007, al solo fine di non rendere aggredibili parte dei beni da parte dei creditori personali del COGNOME o da parte della curatela del fallimento delle società fallite e amministrate dal medesimo COGNOME.
In sede penale era stata condannata al risarcimento dei danni in favore del fallimento di RAGIONE_SOCIALE, quale parte civile costituita. Ciò premesso chiedeva il risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, quantificandoli in misura pari al valore di mercato dei beni immobili intestati alla convenuta.
Si costituiva quest’ultima rilevando che il COGNOME, nel giudizio penale di appello era stato assolto dal reato di distrazione delle somme ricevute da tal COGNOME con la formula perché il fatto non sussiste. Ciò escluderebbe l’esistenza di un pregiudizio pe r i creditori non avendo il COGNOME ricevuto somme dopo l’inizio dell’attività imprenditoriale. Quanto alla posizione della convenuta, poiché il giudizio civile
riguardava solo la quantificazione del danno e non anche l’accertamento della sottrazione di altri beni appartenenti al fallimento, la pretesa doveva ritenersi infondata. Sotto altro profilo rilevava che l’attività imprenditoriale svolta da COGNOME riguard ava il periodo dal 2005 al 2007 per cui gli immobili acquisiti precedentemente non erano riferibili alle condotte delittuose. Aggiungeva che taluni beni confiscati erano stati restituiti al legittimo proprietario, mentre l’atto di citazione riguardava il r isarcimento dei danni relativi anche ai beni che erano stati alienati a terzi.
Il Tribunale di Roma con sentenza del 30 gennaio 2015 rilevava che in sede penale NOME COGNOME era stata ritenuta responsabile dell’utilizzazione della somma di euro 400.000 per lavori di costruzione dei villini, in data successiva al 2003. Conseguentemente condannava la convenuta al pagamento di tale importo a titolo di risarcimento dei danni, oltre rivalutazione e interessi, con decorrenza dalla data del preventivo redatto per la edificazione dei villini (20 ottobre 2005). Ai sensi dell’articolo 2059 c .c. e 185 c.p. riteneva provato anche il danno non patrimoniale quantificato equitativamente in euro 100.000. Calcolato come indicato in quella sentenza anche il maggior danno da ritardo nel pagamento del risarcimento, il Tribunale condannava la convenuta al pagamento della somma complessiva di euro 623.257,22 per i titoli in precedenza indicati.
Avverso tale decisione proponeva appello NOME COGNOME sulla base di tre motivi, lamentando la violazione dell’articolo 651 c.p.p; la carenza di motivazione in ordine al danno morale; l’erroneità del computo del maggior danno da ritardo.
Si costituiva il fallimento chiedendo il rigetto dell’appello.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 1° giugno 2021 accoglieva per quanto di ragione l’appello proposto da NOME COGNOME e, in parziale riforma, la condannava a pagare in favore del fallimento l’importo di euro 495.945,26 provvedendo sulle spese.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione NOME affidandosi a tre motivi. Resiste con controricorso illustrato da memoria il ‘fallimento di NOME COGNOME n. 166 del 2007′.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce la violazione dell’articolo 651 c.p.p., in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. e la carenza o contraddittorietà della motivazione in relazione all’articolo 360, n. 5 c.p.c.
L’articolo 651 c.p.p. prevede che la sentenza penale irrevocabile abbia efficacia di giudicato, anche nel giudizio civile relativamente alla sussistenza del fatto, l’illiceità penale, l’attribuzione della sua commissione all’imputata. Nel caso di specie, p erò, NOME COGNOME è stata condannata in sede penale per il reato di riciclaggio, perché avrebbe utilizzato l’importo di euro 400.000 che l’ex marito, NOME COGNOME, aveva distratto dalle attività commerciali per la realizzazione di alcuni villini. Ma in sede penale sarebbe stata esclusa la distrazione da parte di COGNOME della somma di € 400.000, asseritamente impiegata per la realizzazione dei villini, ridimensionando le condotte delittuose a circa euro 60.000. Pertanto, se COGNOME non ha distratto l’ importo di euro 400.000 il pregiudizio subito dal fallimento non potrebbe consistere in tale importo. Secondo la ricorrente in sede civile il giudice incaricato della quantificazione del danno della persona offesa deve necessariamente tenere conto degli elementi sopravvenuti diversi dal giudicato penale.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’articolo 651 c.p.p. e dell’articolo 2043 c.c. in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. e la carenza di motivazione, in relazione all’articolo 360, n. 5 c.p.c. La Corte avrebbe errato nel definire il nesso causale, perché anche nel caso in cui l’importo di euro 400.000 fosse stato ‘riciclato’ per la realizzazione dei villini, tale somma non sarebbe comunque rimasta nelle casse dell’azienda, perché in sede penale COGNOME ha visto
ridimensionata la propria condotta distrattiva, con ciò facendo venir meno lo spostamento patrimoniale di euro 400.000.
Con il terzo motivo si lamenta la violazione l’articolo 1223 c.c. e 651 c.p.p. ai sensi dell’articolo 360, n. 3 e n. 5 c.p.c.
Il termine di decorrenza di interessi e rivalutazione riferito al 1° gennaio 2006 (anno di realizzazione dei villini) sarebbe sganciato dalle risultanze processuali. Più correttamente, la data avrebbe dovuto riferirsi all’effettiva sottrazione delle somme ai creditori o alla pronunzia della sentenza dichiarativa di fallimento (2007), evento a seguito del quale i creditori non avrebbero più potuto ottenere alcun autonomo soddisfacimento.
Il primo ed il secondo motivo vanno trattati congiuntamente perché strettamente connessi riguardando la violazione delle medesime disposizioni e censurando lo stesso nucleo argomentativo della decisione della Corte territoriale civile.
4.1. I motivi sono inammissibili poiché si fondano sulla generica affermazione secondo cui i ‘successivi processi penali che hanno interessato la posizione del COGNOME avrebbero escluso la distrazione della somma di € 400.000 impiegata per la realizzazione dei villini, ridimensionando le condotte delittuose a distrazioni di somme ammontanti a poco più di € 60.000′.
I motivi sono formulati in violazione dell’articolo 366, n. 6 c.p.c. che ha codificato il principio giurisprudenziale dell’autosufficienza del ricorso.
Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:
(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;
(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;
(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis , Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).
Tale principio è stato ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite, secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U, Sentenza n. 34469 del 27/12/2019).
Di questi tre oneri, la ricorrente non ne ha assolto nessuno perché non trascrive i passaggi essenziali delle (verosimilmente) diverse sentenze penali, i dispositivi di quelle decisioni e le argomentazioni che riguardano la distrazione delle somme da parte di COGNOME, non indica in quale atto o fase processuale quelle decisioni sono state ritualmente e tempestivamente allegate al processo civile e non ne individua la localizzazione all’interno del fascicolo processuale, limitandosi a riportare in estrema e non sufficiente sintesi la vicenda penale in cui sono stati coinvolti la ricorrente e l’ex marito.
Ciò impedisce di valutare la rilevanza e la decisività dei documenti che si assumono ignorati dalla Corte d’appello.
Peraltro, come emerge dal contenuto del controricorso nel quale si trascrivono interi passaggi della decisione della Corte d’appello penale, NOME COGNOME si è giovata della dubbia provenienza di ingenti somme impiegate per gli investimenti (acquisti e
ristrutturazioni di immobili) e tali somme riguardavano più ipotesi di bancarotta. La Corte d’appello penale fa riferimento alla bancarotta relativa alla società RAGIONE_SOCIALE del 1997, menziona la denunzia del 2003 riguardante somme ingentissime che secondo il giudice penale evidentemente non sarebbero state restituite, richiama il fallimento della società di calcio SanBenedettese dell’8 maggio 2006. Sulla base di tutti questi elementi la Corte d’appello penale ha ritenuto che NOME potesse ‘ragionevo lmente rappresentarsi che le consistenti somme investite dal marito per procedere alle ristrutturazioni (avvenute nel corso del 2006) degli immobili non oggetto delle istanze di condono del 1995 non potevano provenire da un’attività lecita, ma perlomeno da appropriazioni indebite’.
5. Il terzo motivo è inammissibile. Correttamente inteso consiste in una censura di un accertamento in fatto del giudice o comunque lamenta l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione. Doglianze, queste ultime, che non sono più consentite dal nuovo testo dell’articolo 360, n. 5 c.p.c. che riguarda il mancato esame di un fatto storico.
Sotto il primo profilo la doglianza veicolata con l’art. 360 n. 3 c.p.c., si traduce in una richiesta di rivalutazione del fatto che non è consentita in sede di legittimità.
Quanto al secondo, la ricorrente censura la Corte territoriale nella parte in cui pone a base del calcolo della rivalutazione degli interessi sull’importo di euro 400.000 alla data del 1° gennaio 2006 ritenendola sganciata dalle risultanze processuali.
La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. deve essere interpretata, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con
le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, e Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
Nel caso di specie non ricorre nessuna delle ipotesi sopra indicate. Al contrario la Corte territoriale con una motivazione logica e ragionevole ha rilevato che la sentenza della Corte d’appello penale n. 38 del 4.1.2010 aveva accertato che la trasformazione delle stalle in villini era avvenuta nel corso dell’anno 2006 e che tale circostanza era sostanzialmente pacifica, in quanto richiamata anche dall’appellante. In assenza di ulteriori riferimenti ha ragionevolmente individuato la data di decorrenza in quella del 1° gennaio 2006 in quanto, in ragione dell’inizio dei lavori, appariva verisimile la corresponsione di acconti in favore della ditta esecutrice. Nello stesso modo, ha individuato nelle successive operazioni contabili le somme riciclate giacché destinate ai successivi saldi e versate nell’anno in corso. Per il resto, i parametri applicati per il calcolo della rivalutazione e degli interessi sono quelli che fanno riferimento all’orientamento costante della Corte di legittimità.
Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
PTM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in € 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, ivi compresi esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte