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Presunzione pari titolarità: prelievi dal conto

La Corte di Cassazione ha esaminato il caso di due ex coniugi in lite sulla divisione di somme prelevate da un conto corrente. L’ordinanza si concentra sulla presunzione di pari titolarità dei beni mobili, anche in regime di separazione dei beni. La Corte ha cassato la decisione di merito per motivazione apparente, sottolineando l’importanza di una prova rigorosa per dimostrare la proprietà esclusiva di somme specifiche e vincere tale presunzione.

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Pubblicato il 7 settembre 2025 in Diritto di Famiglia, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Prelievi dal conto cointestato: la presunzione di pari titolarità e l’onere della prova

In materia di diritto di famiglia, la gestione dei patrimoni tra coniugi, soprattutto in fase di separazione, è spesso fonte di complesse controversie legali. Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione Civile affronta un tema cruciale: la presunzione di pari titolarità delle somme depositate su un conto corrente e le prove necessarie per superarla. Questa decisione offre importanti chiarimenti su come viene ripartito l’onere della prova quando uno degli ex coniugi rivendica la proprietà esclusiva di determinati versamenti.

I fatti di causa: la contesa su un conto corrente tra ex coniugi

La vicenda trae origine dalla domanda di un’ex moglie volta a ottenere la restituzione di somme che l’ex marito aveva, a suo dire, illecitamente prelevato da un conto corrente. Sebbene il conto fosse intestato solo al marito, la donna sosteneva che fosse stato alimentato da rimesse comuni e che, pertanto, le somme presenti appartenessero a entrambi.

L’ex marito si opponeva e, in via riconvenzionale, chiedeva di accertare la simulazione di un atto di vendita immobiliare a favore della moglie. Quest’ultima, a sua volta, rispondeva con una ulteriore domanda (riconventio reconventionis) per lo scioglimento della cosiddetta comunione de residuo.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda principale della moglie, ma la Corte d’Appello ribaltava la decisione. I giudici di secondo grado applicavano il principio secondo cui, anche in regime di separazione dei beni, sui beni mobili si presume una pari titolarità, a meno che uno dei coniugi non fornisca la prova contraria. Ritenendo che l’ex marito non avesse vinto tale presunzione e avesse prelevato più della sua metà, lo condannava a restituire una cospicua somma.

Il ricorso in Cassazione e la presunzione di pari titolarità

L’ex marito proponeva ricorso in Cassazione, lamentando diversi vizi della sentenza d’appello. Il motivo di ricorso che si è rivelato decisivo riguardava il vizio di motivazione. In particolare, il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avesse ignorato le prove documentali (una consulenza tecnica) che dimostravano in modo chiaro come una somma specifica di 110 mila euro provenisse dalla vendita di beni immobili di sua esclusiva proprietà. Di conseguenza, tale somma non sarebbe dovuta rientrare nella massa comune da dividere.

La Corte d’Appello aveva liquidato questa argomentazione sostenendo che l’indagine dovesse essere estesa anche agli anni precedenti per valutare tutte le rimesse, e che, in ogni caso, il marito aveva prelevato somme superiori a quelle versate dalla moglie. Questo ragionamento è stato al centro dell’analisi della Suprema Corte.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso del marito, giudicando la motivazione della Corte d’Appello come ‘meramente apparente’. Secondo gli Ermellini, gli argomenti usati dai giudici di secondo grado non erano pertinenti a risolvere la questione centrale.

Il punto focale non era stabilire chi avesse versato di più in assoluto nel corso degli anni, ma accertare se la specifica somma di 110 mila euro fosse di proprietà esclusiva del marito. L’onere di dimostrare la natura esclusiva di quella somma gravava su di lui, ma una volta offerta una prova specifica (come il ricavato della vendita di un bene personale), il giudice non poteva eluderla con argomenti generici.

Replicare che ‘ha prelevato di più di quanto versato dalla moglie’ è, secondo la Cassazione, una petizione di principio: presuppone che tutte le somme versate fossero cadute in comunione, che era esattamente ciò che il marito contestava. La motivazione era quindi apparente perché fondata su ragionamenti non pertinenti alla ratio decidendi, ovvero non idonei a giustificare la conclusione che la prova della titolarità esclusiva non fosse stata fornita.

Conclusioni: l’importanza della prova specifica

La decisione della Suprema Corte ribadisce un principio fondamentale: la presunzione di pari titolarità può essere superata, ma richiede una prova specifica e puntuale. Non è sufficiente una valutazione complessiva dei flussi di dare e avere tra i coniugi. Se una parte riesce a dimostrare che una determinata somma deriva da una fonte di sua esclusiva pertinenza (come la vendita di un bene personale o un’eredità), quella somma deve essere esclusa dalla divisione. La motivazione del giudice deve confrontarsi direttamente con queste prove, senza rifugiarsi in argomentazioni generiche che non affrontano il nucleo della questione. La Corte ha quindi cassato la sentenza e rinviato la causa alla Corte d’Appello per un nuovo esame che tenga conto di questi principi.

In un regime di separazione dei beni, come vengono considerate le somme su un conto intestato a un solo coniuge?
Secondo la sentenza, sui beni mobili (incluse le somme di denaro) vige una presunzione di pari titolarità. Ciò significa che si presume appartengano a entrambi i coniugi in parti uguali, a meno che il coniuge intestatario non dimostri che le somme sono di sua proprietà esclusiva.

Cosa deve fare un coniuge per superare la presunzione di pari titolarità e dimostrare che una somma è sua?
Deve fornire una prova specifica e rigorosa che quella determinata somma deriva da fonti di sua esclusiva pertinenza. Ad esempio, deve dimostrare che la somma proviene dalla vendita di un suo bene personale, da una donazione ricevuta personalmente o da un’eredità.

Quando la motivazione di una sentenza è considerata ‘apparente’?
Una motivazione è ‘apparente’ quando, pur essendo formalmente presente, si basa su argomenti non pertinenti alla questione da decidere o talmente generici da non permettere di comprendere il percorso logico-giuridico seguito dal giudice. In questo caso, la Corte d’Appello non ha spiegato perché la prova della vendita dell’immobile non fosse sufficiente, usando invece argomenti irrilevanti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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