Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32957 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32957 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25322/2022 R.G. proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende ex lege;
-controricorrente-
avverso il DECRETO di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 2773/2021 depositato il 14/04/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/06/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Napoli, con decreto del 14.4.2022, ha rigettato la domanda con la quale NOME aveva chiesto l’indennizzo per l’irragionevole durata di un procedimento penale, che si era protratto per oltre diciassette anni e si era concluso con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.
Secondo la Corte d ‘appello, l’opponente non aveva fornito la prova del suo interesse difensivo ad ottenere una pronuncia assolutoria nel merito anziché una pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, non assumendo alcun rilievo l’eventuale mancato ricorso a tecniche dilatorie o l’eventuale mancato abuso del diritto di difesa.
NOME ha proposto ricorso per cassazione avverso il citato decreto sulla base di cinque motivi.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità della camera di consiglio la ricorrente ha depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 sexies lettera a), della Legge n. 89 del 2001 per contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 10 Cost., anche in relazione all’art.6 CEDU; si deduce che la prova imposta a carico del ricorrente di avere subito un pregiudizio dall’irragionevole durata del processo costituisca una probatio diabolica e crei una evidente situazione di disuguaglianza nei confronti di chi, per eventi imputabili esclusivamente o prevalentemente all’amministrazione della giustizia, è costretto a subire per anni ed anni un processo penale. La
ricorrente, richiamando l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ritiene iniqua ed illegittima la situazione di disuguaglianza tra coloro che sono stati sottoposti ad un processo penale durato eccessivamente ma conclusosi con una sentenza di assoluzione (o anche di condanna), e coloro i quali, al di là della loro specifica volontà, abbiano visto estinguersi il processo nei propri confronti per intervenuta prescrizione. In entrambi i casi, sussisterebbe il patema d’animo per un processo durato in maniera eccessiva.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2, comma 2 sexies lett. a) legge n. 89/2001 e ss. modif. e integr. e dell’art. 6 CEDU, per non avere la Corte d’appello verificato se la ricorrente avesse fornito la prova del pregiudizio sofferto tale da superare la presunzione di insussistenza del pregiudizio, e cioè, se, in base alla sua linea difensiva avesse, almeno in via prevalente, manifestato un interesse diretto ad ottenere una assoluzione nel merito e non una dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 6 CEDU e dell’art. 2, comma 2 sexies lett. a) della L..89/01 e successive modifiche e integrazioni, oltre che per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, di cui all’art. 112 c .p.c. La ricorrente, a fronte della difesa dell’Avvocatura, che aveva eccepito la carenza della prova contraria del pregiudizio, avrebbe richiamato il contenuto della documentazione prodotta e richiesto, se necessario, l’esercizio da parte della Corte adita dei poteri istruttori di ufficio previsti dalla normativa.
Il quarto motivo di ricorso ripropone le stesse censure, deducendo la violazione, ai sensi dell’art. 360 , comma 1 n.3 c.p.c.,
dell’art. 2, comma 2 sexies lett. a) della legge n.89 del 2001 e successive modifiche e integrazioni, in relazione all’art. 6 CEDU, oltre al vizio di omessa pronuncia su tale aspetto, con violazione dell’art. 112 cpc e dell’art. 116 c.p.c., sotto il profilo dell’errata valutazione delle prove.
I motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono infondati.
L’art. 2, comma 2 sexies lett. a) della legge n.89 del 2001, nella parte in cui prevede la presunzione di insussistenza del pregiudizio per il caso di proscioglimento dell’imputato per prescrizione del reato, opera solo sul piano probatorio, ponendo a carico dell’imputato una presunzione relativa di insussistenza del danno, fondandola sulla considerazione che se, da un lato, il protrarsi del procedimento oltre un tempo ragionevole provoca un danno al soggetto che ne è parte, dall’altro egli trae vantaggio dal protrarsi del giudizio, perché così si sottrae alla condanna e all’applicazione della pena grazie alla prescrizione del reato, ai cui effetti potrebbe comunque rinunciare, togliendo così rilievo al fatto su cui si basa la presunzione (Cass., sez. II, 04/05/2022 n.14140).
La norma, introdotta con la legge n. 208 del 2015, trova applicazione con riferimento al momento di proposizione della domanda di equa riparazione, in assenza di norme che dispongano diversamente e in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., dando luogo ad uno ius superveniens che opera sugli effetti della domanda e, al contempo, determina un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto (Cass., sez. II, 28/07/2020 n. 16076).
Questa Corte ha già esaminato funditus i profili di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 sexies della legge n. 89 del 2001, in vigore dal 1° gennaio 2016, sostenendo che la norma, nel
prevedere la presunzione di insussistenza del pregiudizio, non ha introdotto una causa assoluta di insussistenza del presupposto dell’irragionevole durata del processo penale in caso di sopravvenuta dichiarazione di estinzione del reato, ma solo relativa, essendo fatta salva la prova contraria circa l’esistenza di un reale ed effettivo pregiudizio subito dal ricorrente, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato (Cass., sez. II, 20/01/2023 n.1811).
Pertanto, la norma si profila ragionevole nella sua oggettiva portata e nella sua concezione finalistica in correlazione alla previsione dell’accollo della prova contraria sull’esistenza del pregiudizio alla parte che invoca – con domanda proposta successivamente al 1° gennaio 2016 – il relativo indennizzo, qualora l’esito di detto processo sia stato quello di estinzione del reato per prescrizione. Da tanto deriva l’insussistenza di ogni violazione dei parametri costituzionali prospettata dal ricorrente. Invero, il legislatore ritiene, nel contesto di una valutazione discrezionale a lui riservata, che non debba più l’Amministrazione dimostrare che l’effetto estintivo sia intervenuto per l’utilizzazione, da parte dell’imputato, di tecniche dilatorie o strategie sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa ovvero sia dipeso, in tutto o in parte (e, in tal caso, con valenza preponderante), dal comportamento delle autorità procedenti, ma sia il privato a dover provare di aver sofferto, nonostante la intervenuta prescrizione del reato ed a causa della irragionevole durata del processo, un danno non patrimoniale (Cass., sez. VI, 22/09/2020 n. 19741).
Nel caso di specie, la Corte d’appello, con apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che la ricorrente, al di là delle generiche lagnanze per i disagi ed i pregiudizi sofferti per effetto della lungaggine del procedimento penale, non ha né allegato, né provato il suo specifico interesse alla conclusione del procedimento
con una pronuncia nel merito, osservando che era nella sua facoltà rinunciare alla prescrizione.
Vi è stata pertanto una corretta applicazione dell’art. 2, comma 2 sexies della l egge n.89 del 2001 sotto il profilo dell’accertamento dell’assenza della prova contraria circa l’esistenza di un reale ed effettivo pregiudizio subito dalla ricorrente, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato.
Non è ravvisabile la violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, previsto dall’art. 112 c.p.c., che sussiste quando il giudice attribuisca, o neghi, ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; tale violazione, invece, non ricorre quando il giudice non interferisca nel potere dispositivo delle parti e non alteri nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione. (Cass ., Sez. III, n. 906 del 17 gennaio 2018).
Nel caso in esame, la censura investe l’omessa valutazione del superamento della presunzione dell’insussistenza del pregiudizio, che attiene non alla domanda ma al regime probatorio.
La doglianza relativa all’omessa valutazione dei documenti prodotti in giudizio è, peraltro, inammissibile perché difetta di specificità, non essendo stati indicati gli atti ed i documenti di cui, nei limiti di cui all’art . 360, comma 1 n. 5 c.p.c. (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).
Con il quinto motivo di ricorso, si deduce la violazione dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., sotto il profilo dell’omesso esame di fatti e
documenti da cui emergerebbe la volontà della ricorrente di ottenere una pronuncia assolutoria nel merito.
Il motivo è infondato.
Come correttamente affermato dalla Corte d’appello, la volontà di rinunciare alla prescrizione deve essere espressa e non può evincersi in via indiretta dal comportamento processuale dell’imputato (Cass . pen., Sez. Un., 25/02/2016 n. 18953); rinunciare ad un diritto già maturato, ossia a quello di far valere gli effetti dell’estinzione del reato per il decorso del termine prescrizionale, significa – in definitiva – esercitare il “diritto al processo” e, quindi, alla prova, nell’ambito dell’inalienabile diritto alla difesa, sancito dall’art. 24 Cost, in sintonia, peraltro, con la presunzione di innocenza, di cui all’art. 27, comma 2 della stessa Carta costituzionale, ed all’art. 6, par. 2 CEDU. La rinuncia implica, dunque, la volontà di prosecuzione del processo verso l’epilogo di una pronuncia nel merito del giudizio e comporta, pertanto, anche rivitalizzazione della pretesa punitiva statuale, altrimenti affievolita dal decorso del termine di prescrizione.
La gravità degli effetti dell’atto dismissivo si coglie in ragione della possibilità che al processo segua la condanna e non già l’auspicata assoluzione.
Proprio per tali rilevanti implicazioni, la rinuncia alla prescrizione rientra nell’alveo dei diritti “personalissimi”, che possono essere esercitati dall’interessato personalmente o, al più, con il ministero di un procuratore speciale, restando dunque estranea alla sfera delle facoltà e dei diritti esercitabili dal difensore, ai sensi dell’art.99, comma 1 c.p.p, in nome e per conto del suo assistito (Cass., Sez. 1, n. 21666 del 14/12/2012).
È stato anche sostenuto dalla giurisprudenza penale che la rinuncia alla prescrizione non è esercitabile dal difensore neppure nell’ipotesi
in cui sia formulata alla presenza dell’imputato, che rimanga silente (Cass., Sez. 2, n. 23412 del 09/06/2005).
In definitiva, la rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti (Cass., Sez. U, n. 43055 del 30/09/2010).
Ne consegue che i documenti e gli atti di cui è stata lamentato l’omesso esame, peraltro nemmeno indicati in modo specifico, mancano di decisività perché con essi si vuole dimostrare in modo indiretto la volontà di una pronuncia assolutoria ma non si allega un’espressa rinuncia alla prescrizione.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo. La condanna al pagamento delle spese del giudizio in favore di un’amministrazione dello Stato deve essere limitata, riguardo alle spese vive, al rimborso delle somme prenotate a debito (Cass., Sez.
II, 11/09/2018 n. 22014; Cass., n. 5859 del 2002).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 1250,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione, in data 12 giugno 2024.
Il Presidente
NOME COGNOME