Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10369 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10369 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26832/2019 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende anche disgiuntamente all’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente- contro
COGNOME e COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
-controricorrenti-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di FIRENZE n.1416/2019 depositata il 12.6.2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10.4.2025 dal
Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
COGNOME NOME conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Prato COGNOME NOME e NOMECOGNOME affinché fosse accertata l’occupazione sine titulo da parte loro del locale bruciatore sito in Prato, INDIRIZZO con conseguente condanna al rilascio.
Deduceva l’attore che i convenuti, che avevano acquistato il 4.2.1970 da suo padre, COGNOME NOME, una porzione del fabbricato di proprietà dello stesso, e detenevano le chiavi di accesso del locale bruciatore perché la caldaia ubicatavi serviva all’epoca l’impianto centralizzato di riscaldamento, dopo che la residua porzione del fabbricato era stata donata da COGNOME NOME a COGNOME NOME, e che a servizio delle due porzioni erano stati realizzati impianti di riscaldamento autonomi, si erano rifiutati di rilasciare all’attore il locale bruciatore, che continuavano ad usare come deposito di materiali.
Costituitisi, i convenuti chiedevano il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, l’accertamento della comproprietà indivisa in capo agli stessi del 50% del locale ex art. 1117 cod. civ., o in subordine per usucapione.
Con sentenza n. 512/2012 il Tribunale di Prato accoglieva la domanda attorea e rigettava le riconvenzionali, con conseguente condanna dei convenuti alle spese processuali, ritenendo che dal contratto di vendita da COGNOME NOME (padre di NOME) a favore dei convenuti, che indicava espressamente come comune solo l’ingresso alle due porzioni, emergesse l’inequivocabile volontà del venditore di conservare la proprietà esclusiva del locale bruciatore,
poi effettivamente menzionato come oggetto di trasferimento nella donazione di COGNOME NOME al figlio NOME
Avverso questa sentenza, COGNOME NOME e COGNOME NOME proponevano appello dolendosi della violazione dell’art. 1117 cod. civ., in quanto nell’atto di compravendita del 4.2.1970 non vi era alcuna deroga espressa alla comproprietà del locale bruciatore ricavabile da quell’articolo e riproponendo la subordinata di usucapione.
Si costituiva in secondo grado COGNOME NOME, chiedendo il rigetto del gravame e la conferma della sentenza di prime cure.
Con la sentenza n. 1416/2019 del 16.4/12.6.2019, la Corte di Appello di Firenze riformava la gravata sentenza e, per l’effetto accertava la comproprietà al 50% del locale bruciatore di COGNOME NOME e NOME in base all’art. 1117 cod. civ., rigettava le domande avanzate da COGNOME NOME e lo condannava alla restituzione in favore degli appellanti della somma di €7.925,29 versata in ottemperanza della sentenza di primo grado ed al pagamento delle spese processuali del doppio grado. Per quanto qui interessa, la Corte rilevava che il silenzio sul punto dell’atto di compravendita del 4.2.1970 escludeva che il locale bruciatore, posto all’epoca a servizio degli impianti di riscaldamento di entrambe le porzioni, fosse rimasto nella proprietà esclusiva del COGNOME e che non fosse rinvenibile una chiara e univoca pattuizione convenzionale diretta a escludere dalla comproprietà il predetto locale.
Avverso questa sentenza, COGNOME NOME ha proposto tempestivo ricorso a questa Corte, affidandosi a tre motivi, e COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno resistito con controricorso.
Nell’imminenza della camera di consiglio del 10.4.2025, sia il ricorrente che i controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Col primo motivo, articolato in riferimento al n. 3) dell’art. 360, primo comma, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1117 cod. civ.., in quanto la predetta norma nel testo applicabile al momento della vendita ai convenuti (4.2.1970) poneva i locali per il riscaldamento centrale, quali il locale bruciatore oggetto di causa, tra i beni comuni di cui al n. 2, i quali, a differenza di quelli elencati al n. 1, non erano essenziali per l’esistenza ed il godimento delle singole unità immobiliari, bensì meramente funzionali all’uso e al godimento delle stesse, per cui una volta venuta meno tale destinazione per la realizzazione di impianti di riscaldamento autonomo nelle due porzioni immobiliari, il locale bruciatore doveva essere escluso dai beni comuni.
2) Col secondo motivo, articolato in riferimento al n. 5) dell’art. 360, primo comma, il ricorrente prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, individuato nell’atto di compravendita concluso il 4.2.1970 tra COGNOME quale venditore e gli originari convenuti quali acquirenti e lamenta altresì la motivazione apparente, in quanto il giudice di secondo grado non avrebbe in concreto spiegato i criteri interpretativi seguiti nell’interpretazione dell’accordo del 4.2.1970, limitandosi a richiamare in astratto tutti i criteri ermeneutici previsti dal codice civile.
3) Col terzo motivo, articolato in riferimento al n. 3) dell’art. 360, primo comma, il ricorrente sostiene la violazione degli artt. 1362 cod. civ. e ss., in quanto la Corte d’Appello si sarebbe limitata a richiamare tutti i criteri valevoli per l’interpretazione del contratto senza spiegare come gli stessi avrebbero operato nel caso in esame, e ripropone l’interpretazione dell’accordo del 4.2.1970 da lui prospettata, che era stata accolta dalla sentenza di primo grado.
Il primo ed il terzo motivo – inerenti rispettivamente alla violazione e/o falsa applicazione della presunzione di condominialità del locale bruciatore ex art. 1117 cod. civ., ed all’errata
interpretazione che la Corte d’Appello di Firenze avrebbe fatto del contratto di compravendita del 4.2.1970, col quale il dante causa del ricorrente, COGNOME COGNOME, aveva trasferito a COGNOME NOME e COGNOME una porzione dell’originario fabbricato di sua proprietà di Prato, INDIRIZZO con ingresso comune alla porzione rimasta di proprietà del venditore, in seguito donata al figlio l’1.12.1987, insieme al magazzino con WC ed al locale bruciatore – possono essere esaminati congiuntamente, in quanto l’interpretazione contestata attiene proprio all’applicazione, fatta dal giudice di secondo grado, della presunzione di condominialità dell’art. 1117 cod. civ., nel testo vigente nel momento in cui le due porzioni immobiliari hanno cessato di appartenere all’originario unico proprietario: essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
Anzitutto ai sensi dell’art. 366 n. 6) c.p.c. la parte ricorrente, per il principio di autosufficienza, avrebbe dovuto riportare il testo dell’atto di compravendita del 4.2.1970, almeno per la parte della quale si censura l’errata interpretazione, mentre non l’ha fatto.
Nel merito, l’art. 1117 cod.civ. nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 1 della L. n. 220 del 2012, applicabile all’epoca della vendita del 4.2.1970, che ha dato luogo alla formazione della situazione di condominio tra COGNOME NOME e gli acquirenti COGNOME NOME e COGNOME NOME, stabiliva che ‘ Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio se il contrario non risulta dal titolo… 2) i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune…’.
Le sentenze di primo e di secondo grado hanno concordemente riconosciuto il dato pacifico che il locale bruciatore oggetto di causa, alla data del 4.2.1970, di formazione della situazione di condominio, era utilizzato per il riscaldamento, all’epoca
centralizzato, di entrambe le porzioni originariamente appartenenti a COGNOME NOME, essendo passati solo successivamente COGNOME NOME e COGNOME NOME al riscaldamento autonomo, per cui entrambe le decisioni hanno ritenuto che il locale bruciatore, in quanto locale per il riscaldamento centrale, fosse soggetto all’applicazione dell’art. 1117 n. 2) cod. civ. all’epoca vigente.
Tuttavia, mentre la sentenza del Tribunale di Prato ha ritenuto che tale presunzione, nella specie, non potesse operare, perché il contrario risultava dall’atto di compravendita del 4.2.1970, che menzionava come bene comune solo l’ingresso alle due porzioni e non il locale bruciatore, la Corte d’Appello di Firenze ha ritenuto che quell’atto non contenesse una chiara ed univoca volontà contraria all’inclusione del locale bruciatore tra i beni comuni dell’art. 1117 n. 2) cod. civ.. Il giudice di secondo grado ha argomentato che il riferimento espresso in quell’atto all’ingresso comune alle due porzioni, non era sufficiente, per ritenere manifestata dalle parti della vendita, la volontà di escludere dalla categoria dei beni comuni tutti gli altri beni elencati dall’art. 1117 cod. civ. che si presumevano comuni, in quanto altrimenti a COGNOME NOME e NOME sarebbe stata venduta una porzione immobiliare senza la proprietà comune del suolo di edificazione del fabbricato, delle fondazioni, dei muri maestri, dei tetti, dei lastrici solari, delle scale, dei portoni d’ingresso, degli anditi, portici, cortili e di tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, non espressamente indicati come comuni in quell’atto, il che era palesemente irragionevole, dovendosi tener conto nell’interpretazione del contratto dell’intenzione dei contraenti non limitandosi al senso letterale delle parole, delle clausole contrattuali nel loro complesso, del criterio dell’interpretazione secondo buona fede, ed in caso di dubbio persistente, del criterio dell’art. 1371 cod. civ., nei contratti a titolo oneroso, della realizzazione dell’equo contemperamento degli interessi delle parti.
L’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello é certamente plausibile, tenendo conto che la giurisprudenza di questa Corte riconosce, che per escludere la comunione dei beni elencati dall’art. 1117 cod. civ., il titolo dal quale deve risultare il contrario, va identificato con l’atto costitutivo della situazione di condominio, ossia col primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali, e che il titolo stesso deve contenere la manifestazione di una volontà contraria alla comunione che sia espressa in modo chiaro ed inequivoco (vedi in tal senso Cass. 4.2.2025 n. 2787; Cass. ord. 30.10.2018 n.27636), e che sempre questa Corte ritiene che la verifica della natura comune del bene debba essere effettuata nel momento in cui é intervenuto l’atto traslativo che ha dato luogo alla situazione di condominio (vedi Cass. 1.7.2024 n. 18055). Orbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Firenze ha verificato, ed il dato é pacifico, che al momento della vendita della porzione immobiliare del fabbricato del 4.2.1970, effettuata dal dante causa del ricorrente a favore agli attuali controricorrenti, il locale bruciatore era ancora destinato al servizio di riscaldamento centralizzato a favore di entrambe le porzioni del fabbricato, sicché sussisteva pienamente l’applicabilità dell’art. 1117 n. 2) cod. civ. all’epoca vigente, dato che solo successivamente gli originari convenuti, che proprio per fruire dell’impianto centralizzato avevano ricevuto dal venditore le chiavi del locale bruciatore, poi utilizzato anche se non in modo esclusivo come deposito, si sono dotati di un impianto di riscaldamento autonomo, il che evidentemente non ha fatto venir meno la natura di bene comune del locale bruciatore per la perdita della sua originaria funzionalità ad un servizio comune.
Secondo l’interpretazione consolidata di questa Corte, per stabilire se un’unità immobiliare è comune, ai sensi dell’art. 1117, n. 2) cod. civ., perché destinata ai servizi comuni, il giudice del merito deve
accertare se, all’atto della costituzione della situazione di condominio, come conseguenza dell’alienazione di una singola porzione da parte dell’originario proprietario dell’intero fabbricato, vi fosse tale destinazione, espressamente o di fatto, dovendosi altrimenti escludere la proprietà comune dei proprietari delle porzioni su di essa.
A differenza delle cose necessarie all’uso comune, contemplate nel numero 1) dell’art. 1117 cod. civ., nel testo previgente, i locali dell’edificio contemplati dall’art. 1117 numero 2), raffigurano beni ontologicamente suscettibili di utilizzazioni diverse, anche autonome, e per diventare beni comuni, abbisognano di una specifica destinazione al servizio in comune. Ciò significa che, in difetto di espressa disciplina negoziale, affinché un locale sito nell’edificio – che, per la sua collocazione, può essere adibito a vano caldaia, oppure diversamente utilizzato come qualsiasi unità abitativa – diventi una parte comune ai sensi dell’art. 1117 n. 2 cod. civ., occorre che, all’atto della costituzione della situazione di condominio, al detto locale sia di fatto assegnata la specifica destinazione al servizio comune. Mancando un’apposita convenzione espressione di autonomia privata, accertare se, al momento della costituzione della situazione di condominio, il locale sia o no destinato al servizio comune, nella specie a vano bruciatore, raffigura un giudizio di fatto, riguardante le concrete vicende dell’utilizzo dell’unità immobiliare e non sindacabile in sede di legittimità (vedi in tal senso in relazione ad un vano caldaia Cass. 4.2.2025 n. 2787). Una volta però accertata la destinazione del locale al servizio comune (nella specie a riscaldamento centralizzato) all’epoca in cui si é determinata la situazione di condominio, determinante la comunione ex art. 1117 cod. civ., il sopravvenuto venir meno del servizio comune non comporta il venir meno della proprietà comune del locale che a quel servizio era adibito.
Il ricorrente, del resto, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale, nella sostanza, si limita a riproporre l’alternativa interpretazione seguita dal giudice di primo grado, ma per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice di secondo grado al testo, non dev’essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni. Ne deriva che quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di secondo grado -dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra interpretazione (Cass. sez. lav. ord. 3.7.2024 n. 18214; Cass. n. 10131/2006). Infatti il ricorso per cassazione – riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo – laddove censuri l’interpretazione del negozio accolta dalla sentenza impugnata non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (in termini: Cass. n. 18375/2006), e nella specie il ricorrente non ha individuato quali criteri interpretativi dell’atto di compravendita del 4.2.1970 sarebbero stati violati dalla Corte d’Appello.
Il secondo motivo, per la parte in cui ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. lamenta la mancata considerazione di un fatto storico decisivo oggetto di discussione tra le parti, identificato nel contratto di compravendita concluso da COGNOME con
COGNOME NOME e NOME il 4.2.1970, é inammissibile, in quanto il suddetto contratto, che ha dato origine alla situazione di condominio tra i suddetti soggetti, é stato al centro delle valutazioni dei giudici di primo e di secondo grado, per cui non si tratta certo di un fatto storico principale, o secondario non considerato.
Per la parte in cui censura, invece, la motivazione apparente dell’impugnata sentenza per non avere essa spiegato in concreto come tutti i criteri ermeneutici richiamati (art. 1362, 1363, 1366, 1369 e 1371 cod. civ.) avrebbero condotto all’interpretazione data al contratto di compravendita del 4.2.1970 sopra citato, il secondo motivo é infondato.
Va premesso che secondo la giurisprudenza, anche a sezioni unite, di questa Corte, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , allorquando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, cioè tali da lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass. sez. un. n. 2767/2023 e altre ivi richiamate; inoltre, Cass. sez. un. 27.12.2019 n. 34476 ha avuto modo di ribadire che ” nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile,
esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione “.
Nella specie la motivazione addotta dall’impugnata sentenza non può certo dirsi meramente apparente nel senso sopra indicato. Ed invero nel trattare del primo e del terzo motivo si é già visto come la Corte d’Appello di Firenze abbia ricostruito la comune intenzione delle parti, basandosi sul tenore letterale dell’atto di compravendita (art. 1362 cod. civ.), che non contemplava l’espressa esclusione della proprietà comune del locale bruciatore adibito al servizio comune di riscaldamento centralizzato delle due porzioni, e tenendo conto del contenuto complessivo del contratto (art. 1363 cod. civ.) e dell’esigenza di interpretarlo secondo buona fede (art. 1366 cod. civ.) realizzando un equo contemperamento degli interessi delle parti (art.1371 cod. civ.), abbia escluso che la menzione in positivo nell’atto come comune dell’ingresso delle due porzioni, potesse essere intesa, come fatto in primo grado, come manifestazione della volontà delle parti di escludere la proprietà comune di tutti i beni elencati dall’art. 1117 cod. civ. nel testo vigente ratione temporis, perché ciò avrebbe significato riconoscere l’acquisto da parte degli originari convenuti di una porzione immobiliare priva della proprietà comune di parti essenziali, quali ad esempio il tetto, i muri maestri, le fondazioni e le scale, con palese ed irragionevole penalizzazione della loro posizione. Ulteriormente l’impugnata sentenza, ha escluso la riferibilità della comune intenzione delle parti, al contenuto dell’atto di donazione poi compiuto nel 1987 da COGNOME NOME a COGNOME NOME, che ha fatto specifico riferimento al locale bruciatore come se fosse ancora di proprietà esclusiva del donante, trattandosi del comportamento tenuto da una sola parte, contrastato dalla rivendicazione della comproprietà del locale da parte dei convenuti, e non qualificabile quindi come comportamento complessivo delle parti.
In conclusione, il ricorso va respinto con inevitabile addebito di spese al soccombente.
Occorre dare atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidandole in € 200,00 per spese ed € 4.000,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%. Dà atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n.115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 10.4.2025