Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 26286 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 26286 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/09/2025
SENTENZA
sul ricorso 6605-2020 proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, al INDIRIZZO rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
-ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di SALERNO n. 1626/2019 depositata il 27 novembre 2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 settembre 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del ricorso incidentale, limitatamente al primo motivo;
lette le memorie del ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME per il ricorrente e l’avvocato NOME COGNOME per il controricorrente;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
L’avv. NOME COGNOME conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Salerno, Sezione Distaccata di Eboli, NOME COGNOME chiedendone la condanna al pagamento del saldo dell’importo di cui alla fattura n. 21/2003 per residui euro 5.119,80 (al netto dell’importo di euro 1.000,20 già versato) a titolo di compenso professionale relativo a prestazioni giudiziali in materia penale, nonché ulteriori interessi legali maturati e maturandi e vittoria di spese processuali.
Si costituiva in giudizio NOME COGNOME che, nel chiedere il rigetto della domanda, eccepiva la prescrizione presuntiva di pagamento ex art. 2956 c.c. e, in via riconvenzionale, chiedeva la
condanna del professionista al pagamento della somma di euro 10.000,00 per lite temeraria, con vittoria di spese processuali.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 1917 del 4 novembre 2013, accoglieva la domanda attorea, condannando il convenuto al pagamento del compenso professionale in favore dell’avvocato e delle spese di lite.
In particolare, il giudice di prime cure, nel disattendere l’eccezione di prescrizione presuntiva, precisava, che il termine triennale di prescrizione presuntiva di pagamento decorrente dal 7/05/2001 (data di emissione della sentenza del GIP di non luogo a procedere) era stato tempestivamente interrotto, dapprima con l’invio della richiesta di pagamento di cui alla fattura n. 21/2003, successivamente con il pagamento parziale di euro 1.000,20 effettuato in data 20/04/2004 a mezzo assegno bancario, quindi con lettera raccomandata a/r ricevuta dal convenuto il 7/02/2007 e infine con l’atto di citazione introduttivo del giudizio notificato in data 29/03/2008.
Del pari il Tribunale, nel disattendere l’eccezione di pagamento parziale della somma di cui alla fattura n. 21/2003, rilevava la mancanza di prova da parte del convenuto dell’avvenuta estinzione del proprio debito.
Secondo il giudice di merito, inoltre, non avendo il convenuto mai contestato la congruità delle somme richieste, la proposizione dell’eccezione di prescrizione presuntiva comportava l’automatico riconoscimento dell’esistenza del credito fatto valere, nella misura richiesta dal creditore.
Avverso la sentenza interponeva appello NOME COGNOME chiedendo il rigetto della domanda e la condanna del
professionista al pagamento della somma di euro 10.000,00 per lite temeraria.
Si costituiva in giudizio l’avv. NOME COGNOME chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza n. 1626 del 27 novembre 2019, nel rigettare l’eccezione di inammissibilità dell’appello ed, in accoglimento parziale del gravame, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, compensando tra le parti le spese di lite.
La Corte territoriale, nel rilevare l’allegazione agli atti del giudizio solamente della fattura n. 21/2003, evidenziava, innanzitutto che il solo invio della fattura commerciale non può costituire elemento interruttivo della prescrizione in quanto questa costituisce un mero documento fiscale inidoneo a far desumere una specifica richiesta di pagamento a far data dalla quale è possibile poi calcolare il lasso temporale utile alla prescrizione del diritto vantato.
Il giudice di merito escludeva, poi, che il pagamento parziale del compenso professionale avvenuto il 20/04/2004 da parte di NOME COGNOME ove non accompagnato dalla precisazione della sua esecuzione in acconto del maggior debito, potesse valere come riconoscimento e, quindi, avere valore di atto interruttivo della prescrizione.
La Corte, oltre ad escludere l’utilizzabilità della registrazione su supporto informatico dell’incontro tra il professionista ed il suo cliente, in quanto prontamente e formalmente disconosciuta da parte dell’appellante alla prima udienza, rigettava la richiesta di risarcimento dei danni di euro 10.000,00 per lite temeraria, non
essendo la stessa ancorata alla ricorrenza del dolo o della colpa grave della parte soccombente e mancando anche l’allegazione di argomentazioni a sostegno della stessa.
Per la cassazione di tale sentenza l’Avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso contenente ricorso incidentale sulla base di due motivi.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
Il primo motivo di ricorso principale denuncia l’illegittimità costituzionale degli artt. 62-72 D.L. n. 69/2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/2013, per contrasto con l’art. 106, co. 2, Cost. in quanto norme prevedenti e regolanti l’attribuzione a magistrato onorario, quale ausiliario della Corte d’Appello, delle funzioni di giudice collegiale, in luogo delle funzioni di giudice singolo che la norma costituzionale impone. Secondo il ricorrente incidentale, il secondo comma dell’art. 106 Cost., nel prevedere la possibilità di nominare magistrati onorari ‘ per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli’ con il termine ‘ giudice singolo’ farebbe riferimento all’ufficio e cioè al ‘giudice monocratico’, con la conseguenza che tale disposizione limiterebbe la possibilità di nomina dei magistrati onorari esclusivamente per il disimpegno di tutte le funzioni affidate ad organi giudicanti monocratici e non anche collegiali.
Inoltre, il motivo denuncia, quale conseguenza del riconoscimento dell’aporia costituzionale, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 158 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1,
n. 4, c.p.c. per essere la statuizione oggetto di gravame redatta da giudice ausiliare di appello.
Il motivo è infondato.
Infatti, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 41 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel d.l. n. 69 del 2013 (conv. con modif. nella l. n. 98 del 2013), che conferiscono al giudice ausiliario di appello lo “status” di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello, queste ultime potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del 31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria; fino a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l’arretrato nelle cause civili (cfr. Cass. Sez. 6, 05/11/2021, n. 32065).
Ne discende altresì che, come precisato da Cass. n. 15045/2021, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 62-72 della l. n. 98 del 2013, in relazione all’art. 106, commi 1 e 2 Cost., nella parte in cui consentono la partecipazione di un giudice ausiliario al collegio di corte d’appello, atteso che la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 41 del 2021, ha ritenuto la “temporanea tollerabilità costituzionale” per l’incidenza di concorrenti valori di rango costituzionale, della formazione dei collegi delle corti d’appello con la partecipazione di non più di un giudice ausiliario a collegio
e nel rispetto di tutte le altre disposizioni che garantiscono l’indipendenza e la terzietà anche di questi magistrati onorari, fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria, nei tempi contemplati dall’art. 32 del d. lgs. n. 116 del 2017.
4. Il secondo motivo di ricorso principale denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2712 c.c. in relazione all’art. 360, co.1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale ritenuto acquisibile la registrazione su supporto magnetico della conversazione intercorsa tra il professionista e il proprio cliente nella quale quest’ultimo ammetteva di aver pagato soltanto parzialmente la fattura n. 21/2003 oggetto di controversia, rimanendo debitore del resto e, riconoscendo di dover pagare il residuo, chiedeva una dilazione di pagamento.
In particolare, il giudice di secondo grado, nel rilevare l’inutilizzabilità della suddetta registrazione, avrebbe erroneamente ritenuto prontamente e formalmente effettuato il suo disconoscimento in prima udienza da parte dell’appellante.
Al contrario, secondo il ricorrente, non solo il professionista si sarebbe esclusivamente limitato ad eccepire la tardività della sua produzione documentale, ma anche a voler ritenere il comportamento processuale dello stesso astrattamente riferibile ad un formale disconoscimento, lo stesso non potrebbe considerarsi valido in quanto privo dei requisiti di chiarezza e precisione, richiesti dalla giurisprudenza consolidata di legittimità, a pena di inammissibilità.
Il motivo è del pari privo di fondamento.
Questa Corte ha in più occasioni precisato che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa; il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta. (Cass. Sez. 3, 19/01/2018, n. 1250; Cass. n. 5259/2017; Cass. n. 30977/2024).
Tuttavia, ancorché il motivo specificamente censuri le modalità con le quali la contestazione della registrazione sia stata effettuata da parte del convenuto, sostenendosi che in realtà questi aveva opposto ad ostacolo dell’ammissibilità della produzione il carattere di novità della prova ed il contrasto con il dettato dell’art. 345 c.p.c., così che la contestazione non soddisfaceva i requisiti invece imposti dalla giurisprudenza sopra richiamata, deve confermarsi la correttezza dell’esclusione della prova de qua, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata.
Giova a tal fine ricordare che, in tema di prescrizione presuntiva (nella specie, relativamente a compensi per attività professionale), non costituisce motivo di rigetto dell’eccezione, ai sensi dell’art. 2959 c.c., l’ammissione del debitore che l’obbligazione non è stata estinta, qualora la stessa sia resa fuori del giudizio in cui il credito che si assume prescritto venga
azionato, rilevando essa, in tal caso, solo ai fini dell’interruzione del corso della prescrizione ex art. 2944 c.c. (Cass. Sez. 6, 18/11/2021, n. 35211; Cass. n. 9509/2012).
Ciò comporta che, poiché l’ammissione del debitore era avvenuta stragiudizialmente, non poteva in ogni caso essere presa in esame ai fini dell’applicazione dell’art. 2959 c.c. Né poteva essere presa in esame ai fini dell’interruzione della prescrizione, atteso che il colloquio registrato sarebbe avvenuto in data 19 febbraio 2014, e cioè abbondantemente oltre il termine previsto anche per la prescrizione ordinaria decennale, non potendo quindi fungere da interruzione di un termine ormai perento.
Ma anche a voler reputare che la dichiarazione resa dal debitore in quella sede possa avere carattere confessorio, trattasi di prova che non è suscettibile di poter essere utilmente invocata da parte del soggetto cui viene opposta la prescrizione presuntiva.
Infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, in tema di prescrizioni presuntive, mentre il debitore eccipiente è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito e può fornire tale prova solo deferendo il giuramento decisorio o avvalendosi dell’ammissione, fatta in giudizio dal debitore, che l’obbligazione non è stata estinta (Cass. Sez. 6, 16/06/2021, n. 17071; Cass. n. 11195/2007, che precisa che, poiché la prescrizione presuntiva è fondata sulla presunzione di adempimento dell’obbligazione e implica il riconoscimento dell’esistenza del credito nella stessa misura richiesta dal creditore, al fine di paralizzare tale presunzione di pagamento unici mezzi idonei sono, quanto alla posizione del debitore
opponente la prescrizione presuntiva, l’ammissione di non avere estinto l’obbligazione, quanto a quella del creditore, il deferimento al debitore del giuramento decisorio, la cui formula deve comprendere la tesi del debitore relativa all’estinzione del debito; Cass. n. 785/1998).
Ne consegue che solo il deferimento del giuramento decisorio avrebbe permesso, in assenza di ammissioni in giudizio da parte del debitore, di poter superare il meccanismo della prescrizione presuntiva, il che denota la correttezza della decisione circa la mancata valutazione del contenuto del detto colloquio trattandosi di prova priva del carattere della decisività.
5. Il terzo motivo di ricorso principale denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1219 e 2943, co. 4, c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale ritenuto che la fattura, contenente un chiaro invito al pagamento nei confronti del debitore, fosse idonea ad interrompere il decorso del termine prescrizionale. In particolare, secondo il ricorrente, la fattura n. 21/2003 trasmessa al suo cliente – con la quale si portava a conoscenza dello stesso debitore la volontà del creditore, attraverso l’esortazione di pagamento in calce al documento, di ottenere il pagamento del proprio credito professionale -avrebbe tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza di legittimità per garantire l’effetto interruttivo della prescrizione.
Dopo l’insorgenza del credito (risalente al 7/05/2001, data di conclusione del giudizio penale), a parere del professionista, la prescrizione sarebbe stata interrotta il 21/02/2003 con l’emissione della suddetta fattura e nuovamente interrotta il
20/04/2004 con il pagamento, a titolo di acconto, dell’Iva portata dalla medesima fattura.
Anche tale motivo è infondato.
Giova innanzitutto ricordare che l’atto di costituzione in mora, come delineato dall’art. 1219 c.c., consiste nella manifestazione di volontà del creditore rivolta al debitore di pretendere subito l’adempimento o, più in generale, di non voler tollerare ulteriore ritardo o indugio da parte dell’obbligato.
In questo senso la giurisprudenza di questa Corte, di cui la sentenza impugnata ha fatto puntuale applicazione, ha affermato che, anche se non è necessaria una particolare formula solenne, affinché un atto possa acquisire efficacia interruttiva deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (elemento oggettivo) (cfr. Cass. n. 18546/2020; Cass. n. 15714/2018; Cass. n. 16465/2017; Cass. n. 3371/2010; Cass. n. 24656/2010), essendo sufficiente a tal fine la mera comunicazione del fatto costitutivo della pretesa (cfr. Cass. n. 24054/2015; Cass. n. 5681/2006; Cass. n. 4464/2003).
Tale effetto non è ravvisabile in semplici sollecitazioni prive della presenza di una intimazione e di una espressa richiesta di adempimento al debitore, risultando altresì priva di efficacia interruttiva la riserva, anche se contenuta in un atto scritto, di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a
quelli effettivamente lamentati, trattandosi di espressione che, per genericità ed ipotetica, non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o ad una richiesta di pagamento (cfr. Cass. n. 279/2024).
L’atto di interruzione della prescrizione non deve necessariamente consistere “in una richiesta o intimazione” (essendo questa una caratteristica riconducibile all’istituto della costituzione in mora), ma può anche emergere da una dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti, puramente e semplicemente, l’intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante, in tal guisa dovendosi interpretare estensivamente il disposto dell’art. 2943, co. 4, c.c., in sinergia con la più generale norma dettata, in tema di prescrizione, dall’art. 2934 c.c. (cfr. Cass. n. 15766/2006).
In altri termini, perché sia interruttivo, basta che l’atto sia uno strumento di esercizio del diritto e, al contempo, un percepibile richiamo all’adempimento.
L’accertamento in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti, onde identificare e qualificare l’atto interruttivo e quindi l’attività interpretativa dell’atto di costituzione in mora nel suo complesso, finalizzata non alla ricerca dell’intento perseguito dal suo autore, bensì all’oggettiva riconoscibilità dell’atto medesimo da parte del destinatario (cfr. Cass. n. 3380/1983), si traduce in un’indagine di fatto istituzionalmente riservata all’apprezzamento del giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei soli casi di inadeguatezza della motivazione – tale cioè, da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice per giungere all’attribuzione di un certo contenuto e
significato all’atto -ovvero di inosservanza delle norme ermeneutiche compatibili con gli atti giuridici in senso stretto (cfr. Cass. n. 11579/2014; Cass. n. 7524/2006).
Anche Cass. n. 12070/2006, che la difesa del ricorrente richiama a sostegno della propria tesi difensiva, ribadisce che la fattura può costituire atto di costituzione in mora se il creditore manifesti chiaramente con l’invio della stessa (essendo sempre necessario che sia portata a conoscenza del debitore) la volontà di ottenere il soddisfacimento del proprio diritto, essendo però stato ribadito che si tratta di un accertamento che costituisce indagine di fatto ed è, perciò, incensurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici.
Può perciò ritenersi che l’invio di una fattura commerciale sebbene, di per sé, insufficiente ai fini ed agli affetti di cui all’art. 1219, comma 1, c.c. – può risultare idoneo a tale scopo solo allorché risulti corredata dall’indicazione di un termine per il pagamento e dall’avviso che, se lo stesso non interverrà prima della scadenza, il debitore dovrà ritenersi costituito in mora. (Cass. Sez. 3, 05/04/2016, n. 6549; Cass. n. 806/2009; Cass. n. 10434/2002).
La sentenza impugnata, con accertamento in fatto, e come tale non censurabile in questa sede, ha sottolineato che la fattura prodotta dal ricorrente non permetteva anche di rinvenire una specifica richiesta di adempimento, con la fissazione, come appunto prescritto dalla citata giurisprudenza, anche di un termine entro il quale adempiere.
La difesa dell’avv. COGNOME si sofferma sulla presenza nel documento de quo dell’espressione ‘pagate’, assumendo che la
medesima avrebbe una portata evidentemente sollecitatoria dell’adempimento, in quanto corrispondente alla formula imperativa del verbo pagare.
Ma trattasi di conclusione che non appare necessitata in via interpretativa, per la collocazione della detta indicazione in corrispondenza della somma finale riportata in fattura, così che la sua presenza ben potrebbe leggersi in chiave alternativa, come quanto meno implicitamente ritenuto dalla Corte d’Appello, e cioè (e ciò a sostanziale conforto della tesi della prescrizione presuntiva) nel senso che la stessa confermerebbe che l’importo de quo sarebbe stato già pagato, assumendo quindi un contenuto di sostanziale quietanza che si aggiunge a quello tipico della fattura.
Ma reputa la Corte che sia risolutivo al fine di escludere che la fattura de qua possa fungere da valido atto interruttivo della prescrizione il rilievo operato dal giudice di appello, e non specificamente confutato dalla difesa del ricorrente, per il quale la fattura sarebbe stata inviata al Comune di Campagna (ente del quale lo COGNOME era assessore, e dal quale l’avv. COGNOME intendeva percepire il pagamento), e cioè ad un soggetto per il quale non emerge un vincolo di solidarietà con il reale obbligato.
Trattasi di atto quindi portato a conoscenza solo del Comune e che, quindi, non soddisfa il requisito della recettizietà nei confronti del debitore che invece si impone ex art. 2943 c.c., affinché l’atto di costituzione in mora possa produrre i suoi effetti sul decorso della prescrizione (cfr. Cass. n. 10058/2010; Cass. n. 13651/2006).
Trattandosi quindi di fattura espressamente indirizzata al solo Comune, ed in assenza di prova del fatto che nel termine triennale sia stata portata anche a conoscenza del controricorrente (che in controricorso nega esplicitamente che ciò sia avvenuto), alla stessa non può annettersi la pretesa efficacia interruttiva.
Né infine appare invocabile il dettato delle previsioni di cui al D. Lgs. n. 231/2002, trattandosi di disciplina evidentemente inapplicabile ratione temporis, risalendo il rapporto professionale a data anteriore all’entrata in vigore della richiamata disciplina.
6. Il quarto motivo di ricorso principale denuncia la violazione dell’art. 2944 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di merito erroneamente escluso l’idoneità del pagamento parziale, effettuato dall’odierno controricorrente mediante assegno di euro 1000,20 del 20/04/2004, ad interrompere la prescrizione, in quanto non accompagnato dalla precisazione della sua esecuzione in acconto, e conseguentemente il suo valore di prova del presunto maggior debito. In particolare, a parere del ricorrente, il giudice avrebbe dovuto considerare il riconoscimento del debito -atto giuridico in senso stretto -attuabile anche attraverso il pagamento parziale privo della esplicita indicazione della sua esecuzione a titolo di acconto, laddove il suddetto pagamento parziale sia stato, come nel caso di specie, spontaneo e volontario, a seguito di una richiesta di pagamento di una più ampia somma indicata nella fattura n. 21/2003 non contestata.
Il motivo è destituito di fondamento.
La sentenza impugnata ha fatto puntuale richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che il pagamento parziale, ove non accompagnato dalla precisazione della sua effettuazione in acconto, non può valere come riconoscimento del debito, rimanendo comunque rimessa al giudice di merito la relativa valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale il giudice di merito, esaminando la rilevanza di pagamenti di cartelle esattoriali, aveva escluso la natura di riconoscimento del debito complessivo, con motivazione né apparente, né illogica; Cass. Sez. 6, 27/03/2017, n. 7820).
In termini analoghi è stato altresì ribadito che il pagamento in acconto di un debito non implica necessariamente, di per sé, rinuncia alla prescrizione, ove maturata, sebbene possa essere interpretato dal giudice di merito, insieme agli altri elementi istruttori, alla stregua di un atto incompatibile con la volontà di avvalersene (Cass. Sez. 2, 24/12/2021, n. 41489; Cass. n. 3371/2010, che però precisa che il pagamento di una somma inferiore a quella richiesta dal creditore effettuato dal debitore non a titolo di acconto ma a titolo di saldo è privo di ogni efficacia di riconoscimento di un ulteriore debito e, quindi, non rileva ai fini dell’interruzione della prescrizione; Cass. n. 4666/1992; Cass. n. 926/1996).
Nella fattispecie viene invocato come atto interruttivo il pagamento di una somma inferiore rispetto a quella asseritamente maturata per l’incarico cui si riferisce il presente giudizio, ma manca la specifica indicazione che si tratti di
pagamento in acconto, occorrendo a tal fine anche tenere conto della circostanza che il debitore ha eccepito la prescrizione presuntiva, e cioè la previsione legale che annette al decorso del tempo la presunzione che l’intera obbligazione sia stata estinta.
Manca, quindi, nella condotta de qua la possibilità di poter univocamente inferire una volontà ricognitiva del maggior credito ancora non estinto.
Ma ancor più risolutivo a favore del rigetto del motivo è il rilievo che in tutto il corso del giudizio la difesa del controricorrente ha negato la riferibilità del pagamento de quo alla specifica obbligazione per cui è causa, assumendone invece l’imputazione ad una diversa obbligazione derivante da un altro incarico professionale del quale l’avv. COGNOME era stato officiato nell’interesse del convenuto.
La diversa imputazione operata dal controricorrente, in assenza di elementi che invece permettano di riferire univocamente l’adempimento al credito per cui è causa conforta il giudizio del giudice di merito che ha escluso che a tale comportamento potesse annettersi l’efficacia di cui all’art. 2944 c.c.
Il ricorso principale è pertanto rigettato.
L’ordine logico delle questioni impone la previa disamina del secondo motivo del ricorso incidentale che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché il difetto di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di risarcimento danni per lite temeraria proposta già in primo grado avente ad oggetto il pagamento di euro 10.000,00, reiterata nell’atto di appello, per avere la Corte territoriale fondato la sua decisione sull’errato as sunto
dell’insussistenza del dolo o della colpa grave e di argomentazioni a sostegno della relativa richiesta.
Secondo il ricorrente incidentale, il carattere doloso o gravemente colposo del comportamento processuale del professionista emergerebbe dal fatto che lo stesso avrebbe rilasciato al cliente NOME COGNOME la fattura quietanzata di pagamento di quanto dovuto per la sua prestazione relativa al procedimento penale.
Il ricorrente incidentale, in particolare, evidenzia che il giudice di merito avrebbe dovuto riconoscere adeguatamente la soccombenza del professionista sotto il profilo del risarcimento dei danni ex art. 96, co. 1, c.p.c. per aver lo stesso sostenuto tesi giuridiche palesemente infondate, provocando un danno ingiusto. Il motivo è infondato.
La sentenza gravata ha disatteso la richiesta de qua avendo ricordato come la domanda non era ancorata alla ricorrenza del dolo o della colpa grave, così che la domanda era rimasta priva di prova, affermazione questa che appare idonea a ricomprendere anche il difetto di dimostrazione, non solo dell’elemento soggettivo dell’illecito, ma anche del danno concretamente patito. Il motivo di ricorso risulta strutturato essenzialmente sulla possibilità di poter riscontrare la responsabilità processuale ex art. 96 c.p.c., anche in assenza di dolo o colpa grave, ma in ogni caso di effettivo abuso del processo, ma giustificando la fondatezza della propria tesi con il richiamo a massime e precedenti che appaiono specificamente riferiti alla previsione di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c., norma che non risulta però applicabile ratione temporis , essendo il giudizio de quo già
pendente in primo grado alla data del 4 luglio 2009 (l’atto di citazione è stato notificato il 29/3/2008).
Ne deriva che non è invocabile in diverso principio secondo cui per la fattispecie di cui al terzo comma potrebbe prescindersi dalla prova del dolo o della colpa grave, potendo essere sufficiente il riscontro di un abuso del processo. Ma a confortare il rigetto della domanda è altresì l’assenza di prova del danno subito che lo stesso ricorrente ritiene di dover individuare in un patimento emotivo ricollegato alla sola pendenza del processo, e ciò in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 21798/2015) la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all’onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (conf. Cass. S.U. n. 7583/2004).
Il motivo è pertanto rigettato.
Il primo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e art. 24 Cost. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c. per illegittimità, contraddittorietà ed illogica compensazione delle spese di lite e per l’inesistenza di una soccombenza reciproca.
Secondo il ricorrente incidentale, la Corte avrebbe erroneamente compensato le spese sulla base di una ritenuta soccombenza reciproca, in quanto la domanda ex art. 96 c.p.c., avente natura meramente accessoria, non darebbe luogo ad ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonee a determinare la soccombenza reciproca.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha precisato che (Cass. n. 9532/2017) il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (conf. Cass. n. 11792/2018; Cass. n. 18036/2022; Cass. n. 14813/2020, per la quale, nel caso di rigetto sia del ricorso che della domanda, meramente accessoria, proposta ex art. 96 c.p.c. dal controricorrente, non ha luogo una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare una soccombenza parziale o reciproca).
Poiché all’esito del giudizio di appello, il convenuto era risultato totalmente vittorioso, essendo stata rigettata in toto la domanda attorea, la motivazione in punto di compensazione delle spese si palesa meramente apparente nella parte in cui si richiama apoditticamente all”esito complessivo della lite’, ed erronea laddove richiama la parziale reciproca soccombenza per il rigetto della domanda riconvenzionale ex art. 96 c.p.c.
La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in parte qua, e la causa deve essere rimessa alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, affinché provveda alla liquidazione delle spese dei precedenti gradi di merito, nonché di quelle del presente giudizio di legittimità e di quelle di rinvio.
Poiché il ricorso principale è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
PQM
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso incidentale nei limiti di cui in motivazione e, rigettati il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese dei precedenti gradi di merito e del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, in data 11 settembre 2025.
Il Presidente
L’Estensore