Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14559 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14559 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 21538-2019 proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, (RAGIONE_SOCIALE legale RAGIONE_SOCIALE), rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
PROVINCIA DI TERAMO, in persona del Presidente pro tempore, domiciliata ope legis in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Costituzione rapporto pubblico impiego
R.G.N. 21538/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 17/04/2024
CC
avverso la sentenza n. 138/2019 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 07/03/2019 R.G.N. 354/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/04/2024 dal AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE:
con sentenza del 7 marzo 2019 la Corte d’appello di L’Aquila ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale di Teramo che aveva ritenuto la natura sostanzialmente subordinata dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa susseguitisi, tramite proroghe e rinnovi senza soluzione di continuità, fra i ricorrenti e la Provincia di Teramo, condannandola altresì al pagamento delle relative differenze retributive;
la Corte territoriale, in parziale accoglimento dell’appello della Provincia di Teramo, ha ritenuto che le pretese fossero parzialmente prescritte ex art. 2948 n. 4 cod. civ., valorizzando la diversità fra impiego pubblico e quello privato ed escludendo che il dies a quo della prescrizione potesse decorrere, come ritenuto dal primo giudice, solo a far tempo dalla cessazione dell’intera sequenza contrattuale, dovendo piuttosto ancorarsi al «primo giorno in cui il diritto può essere fatto utilmente valere»;
avverso tale decisione propongono ricorso NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME con quattro motivi di ricorso assistiti da memoria, cui si oppone con controricorso la Provincia di Teramo, illustrato da memoria.
CONSIDERATO CHE:
1. con il primo motivo si denuncia (art. 360 n. 4 cod. proc. civ.) violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione all’art. 1362 cod. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.);
si sostiene che ha errato la Corte di merito nel respingere l’eccezione, formulata dai lavoratori nella memoria di costituzione d’appello, di inammissibilità del primo motivo di gravame, perché non erano state censurate dall’appellante entrambe le rationes decidendi alla stregua delle quali il primo giudice aveva ritenuto il credito non prescritto;
il giudice d’appello aveva erroneamente ritenuto che la seconda ‘ratio decidendi’ (i.e., sospensione della prescrizione a maggior ragione nei rapporti di collaborazione autonoma senza soluzione di continuità) non avesse una sua autonomia logico-giuridica, costituendo mero ‘rafforzamento’ argomentativo del primo e unico ordine di ragioni (i.e., sospensione della prescrizione nei rapporti di lavoro subordinato privi di garanzia di stabilità);
1.1. il motivo è infondato.
questa Corte ha già affermato che la formazione della cosa giudicata su un capo della sentenza per mancata impugnazione può verificarsi solo con riferimento ai capi che siano completamente autonomi perché fondati su distinti presupposti di fatto e di diritto, sicché l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata non si verifica quando queste si pongano in nesso conseguenziale con altra e trovino in essa il suo presupposto (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 12649 del 25/06/2020);
si è quindi ulteriormente precisato che il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo della sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente, e non sussiste invece nei riguardi di una mera argomentazione, ossia della semplice
esposizione di un’astratta tesi giuridica, anche quando sia utile a risolvere questioni strumentali all’attribuzione del bene controverso (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20951 del 30/06/2022);
nella specie, tale autonomia è stata (appunto) esclusa con esauriente motivazione dal giudice d’appello, che ha evidenziato come il primo giudice avesse qualificato il rapporto come di natura sostanzialmente subordinata ma privo di stabilità e come tale soggetto a metus del lavoratore proprio per il suo carattere di precario, configurabile «a maggior ragione quando i contratti di collaborazione si sono susseguiti senza soluzione di continuità»; ebbene, non può che convenirsi allora sulla sostanziale natura di elemento rafforzativo dell’argomentazione integrato dal seconda parte del periodo sopra trascritto;
con il secondo motivo si lamenta (art. 360 n. 4 cod. proc. civ.) la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello esaminato d’ufficio la questione del decorso della prescrizione in corso di rapporto qualificato come autonomo, ancorché ritenuto subordinato in sede giudiziale, risolvendola nel senso di ritenere che il termine di prescrizione decorresse ‘tempo per tempo’;
2.1. il motivo si collega al primo ed è infondato perché, una volta escluso il giudicato interno sulla prescrizione, va ribadito l’insegnamento secondo cui in tema di giudizio di appello il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum , non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice
d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi , confermi (o riformi) la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti, ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 6533 del 12/03/2024);
con il terzo mezzo si denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ravvisato nella possibilità del recesso ad nutum dal contratto che era stato previsto nella apposita clausola contrattuale n. 9, recante ‘risoluzione dei rapporti di collaborazione’, contenuta in tutti i contratti co.co.co.;
3.1. il motivo è inammissibile;
si rileva, a riguardo, che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla legge n. 143 del 2012, prevede l'”omesso esame” come riferito ad ‘un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (cfr., Cass., n. 2268 del 2022), non assimilabile in alcun modo a ‘questioni’ o ‘argomentazioni’, quali quelle interpretative dedotte nei motivi in esame, che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass. n. 31332/2022);
con il quarto, ed ultimo, motivo si denuncia (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 cod. civ.;
si reitera la tesi secondo cui opererebbe la sospensione della prescrizione in difetto di stabilità del rapporto formalmente autonomo, e dunque non immediatamente garantito, per cui esso andrebbe considerato, anche perché sviluppatosi senza soluzione di continuità, unitariamente, donde il decorso della prescrizione dal dì dalla sua definitiva cessazione;
al motivo in rassegna è dedicata diffusa trattazione nella memoria difensiva che sollecita una rimeditazione dell’orientamento contrario espresso dalla giurisprudenza di legittimità;
4.1. il motivo è infondato;
anche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. nr. 143/1969, punto 3 del Considerato in diritto), l’inapplicabilità del regime di sospensione della prescrizione risultante dalla sentenza della Corte costituzionale nr. 63/1966 nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato è stata già affermata più volte da questa Corte, nelle sentenze nn.rr. 10219 e 10220/2020, 11379/2020, 12443/2020, 12503/2020 e 15352/2020, con riguardo all’ipotesi di contratti di lavoro subordinato a termine affetti da nullità;
si è ivi osservato che, essendo impedita per legge la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte costituzionale ai fini della parziale dichiarazione di incostituzionalità, del timore del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia ad una parte dei propri diritti;
il principio, nel lavoro pubblico ancorché contrattualizzato, è stato affermato sia nell’ipotesi di rapporto a tempo indeterminato sia nell’ipotesi di reiterazione di rapporti a tempo determinato, tanto se legittimi (Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575), tanto se illegittimi (Cass. 28 maggio 2020, n. 10219, in motivazione sub p.to 36), e ciò sul presupposto della sua ‘stabilità’ (individuata in «una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione»: Corte cost. 20 novembre 1969, n. 143,
Considerato in diritto, p.to 1; Cass. S.U. 12 aprile 1976, n. 1268 e succ.);
inoltre, il principio del decorso della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro è stato analogamente applicato all’ipotesi, qui esistente, di contratto di lavoro stipulato con la pubblica amministrazione con la veste formale di lavoro autonomo, di cui sia in seguito accertata la reale natura subordinata, ricorrendo le medesime ragioni in generale evidenziate per il settore del lavoro pubblico privatizzato a termine, concernenti la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela (Cass. Sez. L. Sentenza n. 35676 del 19/11/2021);
4.2 l’orientamento secondo cui la sospensione della prescrizione in pendenza di rapporto non assistito da stabilità non è applicabile all’impiego pubblico è stato da ultimo ribadito da Cass., Sez. U, n. 36197 del 28.12.2023, la quale ha affermato il seguente principio di diritto:
«La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela»;
orbene, la pronuncia in questione, nel negare una piena parificazione dei rapporti di lavoro privato e pubblico contrattualizzato, contiene significative affermazioni sulla assoluta diversità fra lavoro
pubblico e privato, nel quale non sussiste alcuna conformazione dell’azione datoriale ai principi costituzionali degli artt. 28, 51, 97 e 98 Cost., essendo la norma di riferimento, invece, l’art. 41 della Carta fondamentale, e chiarisce altresì che il metus rilevante è essenzialmente quello legato ad un diritto non ad un’aspettativa di mero fatto e va evidentemente apprezzato rispetto alla fisiologia, non alla patologia, del sistema;
con il corollario dell’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato, quale la pubblica amministrazione;
con specifico riferimento, poi, alla reiterazione della contrattazione a tempo determinato, le Sezioni Unite rilevano, nella sentenza sopra richiamata, di non poter accedere a una rilettura in termini di ampliamento del concetto di metus , in asimmetria con quanto costantemente ritenuto dal giudice costituzionale e di legittimità;
questo perché, a riguardo, «appare pure ostativa la corretta qualificazione giuridica del metus (non già del licenziamento, ma) del mancato rinnovo del contratto a termine da parte del datore;
contrariamente al primo, che si colloca all’interno di un rapporto di lavoro fonte (qualora cessato per illegittimo recesso datoriale) di una posizione giuridica qualificabile alla stregua di diritto soggettivo tutelabile, il mancato rinnovo del contratto a tempo determinato suscita (non tanto un ‘timore’ siffatto, quanto piuttosto) un’apprensione, che, per quanto meritevole di giustificabile comprensione, integra tuttavia una mera aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica»;
senza omettere di considerare, infine, «la radicale negazione dell’esistenza del metus quale delineato dal giudice costituzionale (come chiarito anche da Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575, in
motivazione sub p.ti 3.1, 4. e 4.1), e ciò per il riconoscimento ai rapporti a termine, in caso di illegittimità del recesso, di una piena tutela attraverso la condanna al pagamento delle retribuzioni dovute e il risarcimento del danno» (Cass. SU, cit., p.to 11.1);
si tratta di argomenti che trovano applicazione anche nell’ipotesi di rapporti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa ma di fatto subordinati, giacché, come già evidenziato da questa Corte (a fondamento dell’estensione a detta ipotesi del principio enunciato da Cass. S.U. n. 5072/2016) nell’impiego pubblico contrattualizzato «ove per il rapporto, di fatto subordinato, sia stato previsto un termine finale, lo stesso dovrà essere sussunto nella fattispecie del lavoro subordinato a tempo determinato (affetto da nullità se stipulato in assenza delle condizioni di legge)» ( Cass. Sez. L. n.10951 del 18/5/2018);
dalle considerazioni che precedono consegue, dunque, la reiezione anche del quarto motivo, e, con esso, dell’intero ricorso;
la circostanza che in corso di giudizio si sia evidenziata una seria perplessità in ordine alla rimeditazione del consolidato indirizzo giurisprudenziale, che è stato ritenuto meritevole di rimessione alle Sezioni Unite quale questione di massima di particolare importanza (cfr. Cass., ordinanza interlocutoria del 28 febbraio 2023, n. 6051), giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 17.04.2024.